Una riflessione sulla mostra dedicata a Enrico Del Debbio mentre prosegue l’inerzia delle istituzioni nel rimuovere la scritta “Dux” dall’obelisco del Foro Italico, ancora oggi simbolo impunito del fascismo

Non credo di essere l’unico a provare sordo rancore ogni volta che passo davanti all’obelisco del Foro Italico. Ancora oggi, la scritta ‘Dux Mussolini’ è incisa su quel monolite, testimone imbarazzante della Roma fascista. Eppure, con un moto di civico entusiasmo, l’altro giorno ho notato che, sebbene l’obelisco resti saldo al suo posto, la scritta era sparita.
Nella notte, un braccio meccanico montato su un camion si è avvicinato al monolite, e due artigiani, con gesti rapidi e precisi, hanno riempito di resina mista a polvere di marmo di Carrara le incisioni. Un intervento pulito, quasi invisibile, fatto a regola d’arte.
Peccato sia solo un sogno, perché la realtà è un’altra: decenni di amministrazioni romane hanno lasciato intatta quella scritta, permettendo a un simbolo di dittatura e guerra di svettare impunito, mentre il paese cercava faticosamente di fare i conti con il suo passato. Ci ho pensato visitando la mostra Il Foro Italico di Enrico Del Debbio. Classicismo e modernità al MAXXI fino al 31 agosto.
Enrico del Debbio, nacque nel 1891 a Carrara (ma nessuno lo accusò di conflitto di interessi per via dell’obelisco!) ed è scomparso a Roma nel 1973. E’ stato un prominente architetto Italiano, progettista e primo preside della Facoltà di Architettura a Valle Giulia e autore del progetto completo del Foro Italico che in questa mostra è in esposizione. Dal mio punto di vista la mostra è straordinaria. Sì, è vero: ii nostri maestri Bruno Zevi e Leonardo Benevolo ci avevano educato a ignorare Del Debbio e il suo Foro Italico per le sue vene classicheggianti.
Negli anni Venti e Trenta il classicismo era il linguaggio dei professori e degli accademici – spesso strumentale agli sventramenti dei centri storici e alle speculazioni immobiliari –, e aveva senso schierarsi con i giovani architetti razionalisti, che adottavano un linguaggio astratto e dinamico mutuato dalle avanguardie e proponevano piani urbanistici funzionali e ‘democratici’. Ma ora, a quasi un secolo di distanza, sembra assurdo negare il valore di un’opera solo perché era portatrice di valori legati all’identità classica, romana e fascista che Mussolini quando gli conveniva esaltava. Lasciamo stare il dibattito Classicismo e Modernità, allora e concentriamoci su opere e mostra. Il progetto di Del Debbio è particolarmente interessante per come articola sapientemente un complesso enorme di edifici – la cosiddetta Città dello Sport – nei pressi di Ponte Milvio, nella parte settentrionale di Roma. L’architetto, che aveva approfonditamente studiato impianti sportivi in Europa, ebbe un’intuizione geniale e risolutiva: posizionare il grande stadio di calcio e atletica addossato alla collina di Montemario, con un’angolazione studiata per minimizzarne l’impatto volumetrico. Questa disposizione nasce da un approccio concreto e contestuale, seguendo una logica paesaggistica e orografica decisamente anticlassica. Del Debbio opera con la stessa tecnica degli antichi romani nei Fori o in Villa Adriana. I singoli edifici, sono sempre organizzati simmetricamente, ma si relazionano liberamente tra loro nell’impianto generale, quasi casualmente, creando a volte spazi aperti, a volte intagli architettonici, a volte semplici addossamenti. Così viene creato un asse d’ingresso (cui si allineerà il ponte costruito successivamente) che sviluppa due ali simmetriche rispetto all’asse centrale, ma che improvvisamente va quasi a sbattere contro l’angolo dello stadio in una prima ipotesi, sino a quando nasce una splendida “cerniera” di raccordo con una zona appena ribassata. Accanto al grande stadio, quello più piccolo “dei Marmi” quasi collide con il primo, ma si allinea perfettamente con il fabbricato di servizi sportivi. Montemario, con la sua vegetazione, entra continuamente nella scena architettonica: tra i volumi, attraverso i ponti che spesso raccordano gli edifici, nei grandi atri. Il complesso delle piscine, sulla sinistra, segue l’andamento del LungoTevere, mentre la zona del tennis si addossa naturalmente alla collina. Sulla destra, verso Ponte Milvio, Del Debbio progetta il complesso di edifici destinati a formare l’Università dello Sport. Fino agli anni Ottanta, il complesso si conservò sostanzialmente intatto – benché già segnato dal tempo. Era allora un giardino pubblico meraviglioso, dove si poteva vagare liberamente dall’Ostello della Gioventù a ovest fino al Foro dei Marmi e oltre, verso est. Poi arrivarono le trasformazioni radicali: l’area del tennis stravolta, lo stadio sopraelevato. Ma la ferita più profonda fu lo spossessamento degli spazi pubblici, progressivamente chiusi, ingabbiati, cancellati. Come l’Accademia di Moretti, che un tempo navigava magica nello spazio aperto e oggi appare soffocata da recinzioni.
Ma tornando all’architetto, questa mostra espone una ricca selezione di disegni originali (donati dalla famiglia all’archivio del MAXXI e ora pubblicati nel catalogo curato da Claudia Torrini, con interventi delle curatrici Ariane Varela Braga e Carla Zhara Buda e di altri studiosi). L’allestimento nell’ampolla progettata da Hadid valorizza magnificamente i materiali: dagli schizzi preliminari che catturano il germe dell’idea, alle grandi prospettive a tempera, fino ai disegni tecnici di straordinaria fattura – quasi commoventi per chi è di una generazione che è stata forse l’ultima a realizzarli ancora in questo modo. Tra i molti documenti esposti, particolarmente interessanti sono le foto che documentano il trasporto (dalle Alpi Apuane, lungo il Tirreno e poi a risalire Tevere) del famoso obelisco in marmo di Carrara. No, non va abbattuto. Secondo me, basterebbe cancellarne le incisioni, eliminarne l’onta.

L’autore: Antonino Saggio, architetto, è docente ordinario alla Facoltà di Architettura della Sapienza di Roma. Tra i suoi libri Lo Specchio di Caravaggio (Vita nostra edizioni)