Ci sono voluti quasi 17 anni perché un tribunale sancisse che l’ex capo del clan dei Casalesi, Francesco Bidognetti, e il suo avvocato hanno pubblicamente minacciato lo scrittore Roberto Saviano e la giornalista Rosaria Capacchione.
La lunghezza del processo afferisce alla condizione della giustizia italiana, ma ciò che è accaduto in questi diciassette anni fuori parla chiaramente di noi. Sono diciassette anni che politici, leader di partito e perfino ministri giocano sulla carne avanzata di Roberto Saviano una sporca partita di propaganda. Sono diciassette anni che giornalisti, scrittori, “intellettuali” pasteggiano su Saviano trasformando la sua protezione in un onore da meritarsi, alla stregua dei fascisti con la cittadinanza.
Sono diciassette anni che si usano le minacce inflitte a Roberto Saviano come nervo scoperto da trasformare in cappio. Accade ogni volta che non si è d’accordo con una sua opinione, ogni volta che si vuole debilitare un suo atto d’accusa, ogni volta che si esulta per un suo insuccesso.
Diciassette anni dopo, come un film girato fuori tempo massimo, si ritorna alle minacce a Roberto Saviano e diventano tangibili le proporzioni dell’erosione che gli è stata inflitta.
Lui si è lasciato andare a un pianto liberatorio, ma non c’è liberazione. La delegittimazione ha funzionato benissimo e per quella non c’è possibilità di processo riparatore. Roberto Saviano è stato appiattito sulle minacce che ha subito: onere e onore, in un gioco che piace moltissimo alla mafia. Lui come carta velina schiacciato sul fondo.
Buon martedì
In foto Roberto Saviano ospite di Tintoria in occasione della presentazione del suo libro L’amore mio non muore (Einaudi)




