Entri al supermercato e ogni etichetta è un promemoria di sconfitta. Le pesche sfiorano i 5 euro al chilo, l’olio d’oliva viaggia verso i 10, il prosciutto crudo può costare più di una visita specialistica. In quattro anni, il carrello della spesa è aumentato del 27%. Ma non è inflazione: è un cambio di status. Non sei più un cittadino che compra: sei un povero che fa la spesa.
L’Istat misura, i governi rassicurano, le famiglie resistono. L’indice dei prezzi alimentari, dal luglio 2021 a oggi, è passato da 105 a 134. Alcuni prodotti di base – burro, patate, riso – hanno raddoppiato il loro prezzo. In compenso i salari reali in Italia sono crollati del 7,5%, peggior dato OCSE. Con 30 euro oggi compri quello che nel 2021 pagavi poco più di 23. Il carrello è sempre più leggero, le borse sempre più vuote, i conti sempre più rossi.
Nel frattempo, mentre i bonus una tantum vengono sventolati come miracoli e le accise restano intatte, il costo di casa, elettricità e gas è salito del 32%. I pacchetti vacanza nazionali segnano +74%, i voli interni +208%. E il dato forse più sincero arriva dalle vendite: crescono in valore, calano in volume. Si spende di più, si mangia di meno.
Eppure nessuno ha il coraggio di pronunciare la parola giusta: emergenza. Non energetica, non climatica. Sociale. La fame non è un problema da Terzo Mondo, è diventata una questione logistica in una delle prime potenze industriali d’Europa. Ma, nell’agenda politica, la priorità resta la crociata contro le merendine etniche a scuola.
Buon lunedì.
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