Intanto, la liberazione del torturatore libico passa in secondo piano, occultata da una messinscena in cui la premier si erge a martire istituzionale, senza mai spiegare perché. La narrazione del governo coeso diventa così lo scudo perfetto per evitare di dire la verità

Giorgia Meloni ha deciso di togliersi la maschera: «Rivendico ogni scelta. Non sono Alice nel Paese delle Meraviglie». Lo dice lei stessa, con orgoglio. A differenza dei suoi ministri sotto accusa – Piantedosi, Nordio, Mantovano – lei è stata archiviata. Ma la vera notizia è un’altra: non si difende, rivendica. Apre la porta alla verità che finora avevano provato a coprire con gli omissis. E la verità è questa: il governo italiano ha liberato un criminale libico ricercato dalla giustizia internazionale. E l’ha fatto per «interessi di Stato» che nessuno ha mai avuto il coraggio di nominare.

Meloni vuole essere ricordata come una che comanda, non come una che governa. E allora si prende la scena, reclama per sé anche la responsabilità penale, se serve. Mette la faccia su una scelta che dovrebbe imbarazzare qualunque democrazia. Ma non è un’ammissione: è una sfida. Sfida i giudici, sfida l’opposizione, sfida la verità. Promette di sedersi in Aula accanto ai suoi accusati per «difendere l’operato del governo». E in nome della «sicurezza degli italiani» pretende anche l’archiviazione morale. Come se tutto si potesse derubricare a questione di fermezza. Come se la giustizia fosse una comparsa, e non un potere dello Stato.

Intanto, la liberazione del torturatore libico passa in secondo piano, occultata da una messinscena in cui la premier si erge a martire istituzionale, senza mai spiegare perché. La narrazione del governo coeso diventa così lo scudo perfetto per evitare di dire la verità. La verità, cioè, che a decidere non è stata una distrazione burocratica. È stata una scelta. E Meloni ce la sta raccontando come una medaglia. Ora la politica ha il dovere di chiederle perché. Davvero. Senza più omissis.

Buon martedì. 

foto gov