In Bolivia, a duecento anni dall’indipendenza del dominio coloniale spagnolo, le campane delle chiese, che per mesi avevano richiamato la popolazione di un Paese che registra la più alta percentuale di indigeni del Sudamerica, a votare alle presidenziali del 17 agosto 2025 per candidati che rappresentassero i valori cristiani, hanno suonato nuovamente a festa. Sono riuscite a portare al secondo turno, a sorpresa, il senatore Rodrigo Paz Pereira, candidato del Partido demócrata cristiano (Pdc), con il 32,2% dei voti.
«Tutto ciò che dite o fate, fatelo nel nome del signore Gesù», esordiva il Comunicado de la Conferencia Episcopal Boliviana en las vísperas de las elecciones nacionales 2025.
Questo documento, datato 12 agosto 2025, ha unito con un filo rosso i due eventi più importanti della Bolivia: le elezioni presidenziali nell’anno in cui si celebra il bicentenario dell’indipendenza, e il centenario della “Immacolata di Copacabana”, effige imposta come “Regina della Bolivia”, plasmata con i tratti somatici andini, alla fine del Cinquecento, con l’obiettivo di convertire gli indigeni al cattolicesimo.
Vediamo insieme chi sono i due sfidanti al ballottaggio di ottobre. Il senatore ed economista Rodrigo Paz Pereira nasce in Spagna, durante l’esilio del padre, Jaime Paz Zamorra, già presidente della Bolivia (1989-1993). Il padre è stato un mancato sacerdote, fondatore del MIR (Movimiento de izquierda revolucionaria), un movimento che godeva di forte sostegno tra la classe operaia negli Anni 70, poi perduto progressivamente quando è arrivato al potere avendo applicato le stesse ricette ultraliberali delle destre, con interventi importanti sulla privatizzazione, e leggi incentrate su un sovrasfruttamento delle risorse naturali.
Nelle recenti elezioni boliviane, Jorge “Tuto” Quiroga, punto di riferimento della destra boliviana, e candidato per la coalizione Libertad y Democracia, già a capo del Paese tra il 2001 e il 2002, ha capitalizzato un buon secondo posto, alle spalle di Rodrigo Paz Pereira. Anche per lui, l’appello alla religione cattolica e al liberalismo sfrenato è stata la ricetta vincente del rispettabile risultato elettorale. «Motosega, machete, forbici e tutto quello che troverò» rispose ai giornalisti che gli chiedevano se avrebbe applicato la formula argentina per aggiustare i conti dello Stato.
Sebbene la Costituzione definisca la Bolivia come uno Stato laico, la religione è onnipresente in ogni ambito del potere. La Chiesa cattolica prende posizione ed esprime opinioni sulla politica durante le messe, e le autorità si rivolgono a sacerdoti o pastori per chiedere la loro “benedizione” all’inizio di ogni mandato.
In queste elezioni, dei quasi otto milioni aventi diritto al voto, l’affluenza è stata dell’89% (circa 7 milioni di votanti). L’87% ha eletto candidati schierati al centro-destra e destra, relegando i socialisti del MAS (Movimiento al Socialismo), al potere da vent’anni, all’irrilevanza elettorale, con l’elezione di un solo deputato e nessun senatore.
Il 19,4% dei voti è stato nullo, un dato che dimostra che l’appello di Evo Morales al suo elettorato ha, in parte, avuto effetto: i voti nulli hanno superato quelli andati al candidato dell’estrema destra Samuel Doria Medina, simpatizzante di Trump e Netanyahu.
La sconfitta della Sinistra: una fossa scavata a quattro mani dai suoi leader
Capo sindacale dei coltivatori di coca (cocaleros), Evo Morales ha governato la Bolivia per tre mandati consecutivi, tra il 2006 e il 2019.
Durante i primi due mandati, le esportazioni di gas subirono una vera e propria impennata. La risorsa, venduta a prezzi estremamente competitivi, garantì delle buone entrate nelle casse dello Stato, che vennero parzialmente indirizzate a programmi sociali, permettendo una redistribuzione più equa delle risorse economiche.
La Costituzione del 2009, fortemente voluta dal governo Morales, fu di grande impatto per i popoli andini, venendo la Bolivia riconosciuta come uno Stato plurinazionale, cioè, formato da nazioni indigene portatrici di culture diverse, tutte quante abilitate a prendere parte nel processo decisionale del Paese.
La bramosia del potere di Evo Morales è stata probabilmente la ragione principale del suo declino. Non avendo mai accettato il divieto costituzionale del limite dei mandati, Morales riuscì a farsi rieleggere per la terza volta, nel 2019, grazie ad una sentenza della giustizia elettorale. A seguito di violenti scontri verificatisi in tutto il paese, che lasciarono a terra 27 morti e centinaia di feriti, tra oppositori e sostenitori, dovette dimettersi sotto l’accusa di brogli elettorali (mai dimostrati), accerchiato dalla pressione dei militari.
Nel 2020 vennero indette nuove elezioni ed il compagno di partito Luis Arce, già Ministro dell’Economia in tutti i governi di Morales, nonché ritenuto il vero artefice del “miracolo boliviano”, riuscì a vincere al primo turno con il 55,5% dei voti.
Negli anni successivi, tuttavia, la guerra fratricida tra i due leader più forti della Sinistra e l’incapacità di Arce nel trovare soluzioni alla grave crisi economica del paese, legata ai prezzi globali delle commodity (energetiche e minerarie), favorì la frammentazione delle organizzazioni indigene e contadine in lotta per la terra.
Così, la perdita del potere di acquisto, ottenuta durante il governo di Morales, e la mutata politica del MAS, portarono un’emorragia di consensi.
La scarsità di dollari, la speculazione, la mancanza di carburante alle pompe, andarono di pari passo con l’aumento della repressione e l’arresto delle cupole dirigenziali di organizzazioni indigene e contadine, un tempo ferventi sostenitrici del MAS, ma ora in contrapposizione alla linea politica di Arce.
Il vuoto creatosi a Sinistra non fu solo politico, ma anche morale. Evo Morales venne accusato di traffico di minori, per il presunto accordo stipulato con i genitori di una ragazza 15enne, dalla quale nel 2015 avrebbe avuto un figlio.
La sinistra, scevra di ricette economiche innovative ed antitetiche a quelle della destra, e priva di candidati credibili, ha capovolto lo scacchiere politico dopo quasi vent’anni di egemonia.
Il prossimo ballottaggio, del 19 ottobre 2025, sarà tra destra e destra, tra Jorge Quiroga, che a volte si presenta come un viso di destra moderata, altre come un emulo dell’ultraliberale argentino Javier Milei, e il democristiano Rodrigo Paz, che dovrà tener conto dei voti che gli ha assicurato il terzo arrivato del primo turno, l’estremista di destra Samuel Doria Medina6.
Dietro lo slogan “Capitalismo para todos, no para unos cuantos”
La Chiesa cattolica in Bolivia conta oltre otto milioni di battezzati su una popolazione di 12,4 milionidi abitanti. Il 60% della popolazione è indigena quechua e aymara, per la maggior parte residente sull’altopiano andino. Il loro contributo all’economia arriva tramite l’agricoltura tradizionale, in particolare la produzione di quinoa, mais e frumento, oltre a prodotti derivati dalla pastorizia di lama e vigogna.
L’aumento dei costi produzione ha portato questi popoli, evangelizzati nei secoli, a migrare verso le città: senz’acqua, a rischio denutrizione, e sempre più dipendenti dai sussidi statali, hanno assorbito la propaganda liberale, riconoscendosi non più come popoli dotati di valori culturali ancestrali, ma come poveri urbani, e perciò umiliati e traditi dai loro leader di sinistra, alla pari dei lavoratori dei grandi centri.
Con lo slogan “Capitalismo para todos, no para unos cuantos”, Rodrigo Paz ha proposto a questi popoli l’illusione di riprendere potere e controllo sui loro mezzi di produzione, trattandoli da “imprenditori impoveriti”, e non da popoli storicamente emarginati, vittime di pregiudizi razziali e depredati dalle loro risorse. La loro liberazione dalla condizione di subordinazione alle élites, legate a settori come l’agricoltura, l’estrazione mineraria e, più recentemente, i settori dei servizi e della tecnologia, è diventata così una loro esclusiva responsabilità: se seguono le direttive di un economista liberale, laureatosi in Spagna, una soluzione la si troverà, e sarà soddisfacente per tutti, è stato il messaggio sottinteso.
L’immedesimazione dell’elettorato indigeno boliviano, quello più tradizionale, passato alla destra, con quello dei lavoratori urbani impoveriti, che aspira all’ascesa sociale da “imprenditori di sé”, pur sempre nel rispetto delle regole del capitalismo liberale, per la perdita della fiducia nei leader progressisti, è senz’altro la peggiore eredità della guerra tra Morales ed Arce.
Con la destra al potere, sostenuta dalla chiesa, il principio costituzionale del plurinazionalismo, fortemente osteggiato da entrambe, per avere introdotto nella Costituzione il concetto di Madre Terra, capace di mettere in discussione il modello patriarcale, diffuso dal cristianesimo tra i popoli andini, potrebbe essere abolito di punto in bianco.
L’autodeterminazione dei popoli indigeni, già poco riconosciuta o rispettata, e quel poco che resta dei loro millenari sistema di credenze, e modi di vita alternativi, rischiano la definitiva cancellazione, se rimasti sprovvisti di tutele costituzionali.
L’autrice: L’avvocata per i diritti umani Claudiléia Lemes Dias è scrittrice e saggista. Tra i suoi libri Le catene del Brasile (L’Asino d’oro ed.) e il nuovo Morfologia delle passioni (Giovane Holden ed.)
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