Dietro ideali e bandiere, i conflitti armati si rivelano un business globale. E l’Italia, tra proclami di pace e record nell’export bellico, è complice attiva di un sistema che trasforma le crisi internazionali in profitti. Con il governo Meloni e il ministro Crosetto in prima linea

La guerra è l’unica attività veramente internazionale, ed è anche l’unico affare in cui i profitti si contano in dollari, e le perdite in vite umane. Questa frase, tratta dal libro La guerra è una truffa del generale statunitense Smedley D. Butler, evidenzia con lucidità brutale la natura sistemica del conflitto armato nel mondo contemporaneo. La guerra non è più (o non è mai stata) solo una questione di valori, ideali o confini, ma un mercato globale, un settore industriale regolato da domanda, offerta e margini di profitto. La pace, se arriva, è poco più di una parentesi tra due cicli di produzione e vendita. A dimostrarlo non sono più solo gli attivisti o gli analisti critici, ma i numeri e i documenti ufficiali: dati di export, rotte degli armamenti, partnership militari, piani industriali. E dentro questo sistema perfettamente oliato, l’Italia è uno dei principali protagonisti. Mentre si proclama promotrice di pace e democrazia, continua a esportare armamenti a Paesi coinvolti in conflitti, repressioni o occupazioni. E lo fa senza interrogarsi troppo sull’utilizzo finale di quelle armi, purché i contratti siano firmati. Negli ultimi anni il mercato delle armi nel nostro Paese ha visto una crescita costante e significativa, diventando protagonista sia nella nostra economia che in quella globale. Solo nel 2023, l’Italia ha autorizzato esportazioni militari per 6,19 miliardi di euro, in netto aumento rispetto ai 5,18 miliardi del 2022 e quasi il doppio dei livelli del 2020, portandosi al sesto posto degli esportatori mondiali, secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). A trainare il comparto è la spinta esplicita del governo, in particolare del ministro della Difesa Guido Crosetto, che da ex presidente dell’Aiad - la principale lobby del comparto bellico - è diventato il volto politico dell’industria armata. Crosetto, senza ipocrisie, ha dichiarato che «non possiamo permetterci di lasciare questi mercati ad altri». E così è stato. In un contesto globale in cui le tensioni commerciali tra blocchi geopolitici portano all’introduzione di dazi e restrizioni reciproche - basti pensare alla recente stretta Ue su auto elettriche cinesi o al ritorno del protezionismo Usa - il settore della difesa resta sostanzialmente escluso da questi attriti. Le esportazioni italiane di armamenti sono infatti regolate da accordi bilaterali o multilaterali che scavalcano le logiche doganali tradizionali, e i dazi applicati sulle forniture militari sono spesso nulli o marginali. I dati lo confermano: nel 2023, l’export militare italiano

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