Vedo gli Emilii Fede di oggi stracciarsi le vesti per l’Emilio Fede di ieri. È la liturgia consueta: il necrologio come candeggio, la memoria selettiva come editing d’emergenza. Si celebra il “professionista d’altri tempi”, ci si commuove per la voce roca e la sigla del Tg4, si stende un telo sul resto. Eppure quel resto è la sostanza: condanne definitive, dall’affare Ruby bis al tentato ricatto, l’uso sistematico del mezzo come clava politica, le sanzioni per squilibri informativi. Non si tratta, come potrebbe apparire, di un inciampo: è un vero e proprio modello. E quel modello non è scomparso, ha solo aggiornato il software.
I professionisti del lutto televisivo lo sanno benissimo. Perché l’Emilio Fede celebrato oggi fu anche il perfetto prototipo di una tv che confonde notizia e cortigianeria, cronaca e tifoseria, servizio pubblico e servizio al potente di turno. La par condicio violata, le campagne a senso unico, la narrazione costruita come sceneggiatura d’azienda: tutto questo non è archeologia. È la grammatica quotidiana di molte reti, profili, testate. Cambiano i toni, si addolcisce l’ironia, si spostano le piattaforme: l’impianto resta.
C’è da capirli, quelli che oggi piangono: ai tempi pagavano molto meglio. Ma il dividendo non fu solo in busta paga. Fu il capitale simbolico di una stagione in cui la fedeltà valeva più della verifica, la linea editoriale più del codice deontologico, l’audience più della realtà. Chi oggi fa finta di dimenticare racconta soprattutto se stesso. Il modo migliore per commemorare un giornalista non è il panegirico: è l’inventario. E l’inventario, nel caso di Fede, insegna una cosa semplice: quando l’informazione abdica, la propaganda prende il timone. Ieri, come oggi.
Buon giovedì
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