Dal 1982 al 1996 l’Italia affrontò l’Aids tra silenzi politici e stigma sociale. La mostra Vivono. Arte e affetti HIV e AIDS in Italia al Centro Pecci (fino al 10 maggio 2026), curata da Michele Bertolino, restituisce voce e corpo a una generazione cancellata, intrecciando opere, archivi e poesia.

Vivono. Arte e affetti HIV e AIDS in Italia. 1982-1996, laa mostra curata da Michele Bertolino al Centro Pecci di Prato (aperta fino al 10 maggio 2026) non è una semplice retrospettiva, ma un atto fondativo per la storiografia dell’arte italiana alle prese con una drammatica emergenza sanitaria a lungo oscurata: la crisi Hiv/Aids. L’iniziativa si posiziona come la prima mostra istituzionale italiana dedicata esclusivamente alla ricomposizione della storia dimenticata degli artisti italiani colpiti da questa epidemia.
Il periodo selezionato, che va dal 1982 (prima segnalazione di Aids in Italia) al 1996 (introduzione delle terapie antiretrovirali, Haart), è cruciale. Esso demarca quattordici anni di profonda vulnerabilità, assenza di cure efficaci e un clima di intensa stigmatizzazione sociale. L’obiettivo della curatela è restituire l’urgenza di quel tempo, in cui il silenzio politico e lo stigma sembrarono in grado di cancellare le conquiste del movimento per i diritti Lgbt+, riportando alla ribalta, anche in Italia, il nesso tra omosessualità e una malattia con esito per lo più mortale. Questo nesso fu strumentalizzato da settori oscurantisti del mondo cattolico per demonizzare entrambe le cose.
A differenza dei Paesi anglosassoni, che videro l’emergere di un forte attivismo artistico e politico, come l’Activist art, un’arte di forte impatto politico e sociale immediato, del collettivo Gran Fury negli Stati Uniti, l’Italia manifestò un ritardo nel dibattito pubblico e, come sottolineato dal direttore del Pecci, Stefano Collicelli Cagol, “mai una presa d’atto forte” contro il silenzio politico. Questo vuoto storiografico e la mancanza di una tradizione di attivismo museale hanno portato a una narrazione frammentata del trauma.
L’approccio curatoriale di Bertolino, supportato da un’estesa ricerca finanziata dal Mic, risponde a questa frammentazione adottando una metodologia basata sugli “affetti”. La mostra è concepita come un “puzzle” che integra opere visive con poesie, paesaggi sonori e materiali d’archivio e memorie personali. Questo privilegia la testimonianza soggettiva e la ricostruzione emozionale, ritenute essenziali per recuperare la “vulnerabilità di quel periodo”. L’interpretazione esige un atteggiamento “timido”, quasi ricettivo, data la natura intima e dispersa dei materiali italiani.
In assenza di una forte agency politica organizzata, l’arte prodotta in Italia in quel periodo si è incanalata nella fenomenologia del dolore privato e della testimonianza corporea e poetica. La mostra celebra questa resistenza affettiva dedicando tre sale monografiche a figure centrali la cui opera integra strettamente “poesia, immagine e corpo”. Tra loro, Nino Gennaro (1962–1994), riconosciuto come un “pioniere queer”: la sua arte e vita sono una testimonianza di un'”umanità tanto ‘esclusa’ quanto vitale e creativa”. Il suo lavoro è un fondamentale archivio queer mappato attraverso l’espressione corporea. Patrizia Vicinelli (1943–1991), presentata come figura la cui esperienza di malattia si traduce in una nuova forma espressiva. Vicinelli “dà alla parola uno spessore fisico, la trasforma in corpo, fragile e combattivo”. Questo riflette l’invasione fisica della malattia e la resistenza poetica attraverso la propria vulnerabilità. Infine, Francesco Torrini (1962–1994) è l’autore di Commemuro (1993), un memoriale in vetro, carta e piombo per “amiche e amici morti a causa dell’Aids”. L’opera, già parte della collezione del Pecci, funge da ancoraggio memoriale istituzionale e simbolo contro la cancellazione.
La risposta italiana all’emergenza sanitaria fu un attivismo di natura essenzialmente affettiva, l’unica forma possibile in un clima di oscurantismo. Parallelamente, anche in letteratura, autori come Pier Vittorio Tondelli (Camere separate, 1989) e Dario Bellezza raccontarono la malattia come dolore per la perdita e come “accusa a una società che fugge pavidamente”. L’inclusione in mostra di opere internazionali di artisti come Gran Fury (con i manifesti dell’attivismo tattico) e Felix Gonzalez-Torres (con l’intimità del suo linguaggio concettuale) contestualizza il dibattito, riattivando influenze che negli anni 80 e 90 non trovarono un corrispettivo politico efficace in Italia.
La mostra acquisisce una risonanza particolare nel contesto contemporaneo. La recente pandemia da Covid-19 ha esposto l’umanità a una consapevolezza della vulnerabilità che rievoca il terrore e l’incertezza degli anni iniziali dell’Aids. Tuttavia, la persistenza dello stigma legato all’Hiv – anche in presenza di progressi medici come il concetto U=U (Undetectable = Untransmittable), che ha de-medicalizzato la crisi – dimostra che la vulnerabilità biologica non si traduce automaticamente in sensibilità sociale. Lo stigma attuale è prevalentemente sociale e culturale. Vivono dimostra che la guarigione sociale dallo stigma richiede un lavoro culturale continuo e istituzionale. L’atto di recuperare memorie, affetti e figure come Nino Gennaro costituisce un atto politico nel dibattito contemporaneo sui diritti queer e serve da strumento di memoria storica affinché le nuove generazioni possano – come recita il comunicato stampa della mostra – “cautelarsi quando si confrontano con altri corpi e desideri”. È compito delle istituzioni trasformare la vulnerabilità biologica in sensibilità sociale.

L’autore: Lorenzo Pompeo è slavista, traduttore, saggista e docente universitario. Per i tipi di Left ha pubblicato il libro Carlo Levi, vita di un antifascista, medico e artista