Di fronte all’immane tragedia di 20mila bambini uccisi a Gaza, l’intimazione «Definisci bambino» di un ospite di un talk show italiano, non sarebbe una notizia. Se non fosse che plasticamente ha reso evidente quanto nel discorso pubblico i bambini palestinesi siano stati negati nella loro realtà, prima ancora di essere stati affamati, terrorizzati psicologicamente, mutilati e uccisi dall’esercito di Netanyahu. Quell’ignominioso «Definisci bambino» è ricomparso poi, trasformato nel senso, a lettere cubitali sui cartelli mostrati proprio da ragazze, ragazzi e bambini nelle tante manifestazioni nonviolente che hanno acceso le piazze italiane. È diventato il grido di rivolta contro la disumanità, per fermare il genocidio a Gaza perpetrato in diretta, sotto i nostri occhi, e senza che le istituzioni europee (in cui pur ancora confidiamo) intervengano per fermarlo.
Ma lo sterminio non sta avvenendo “solo” a Gaza, l’eccidio investe decine di migliaia di bambini negli oltre 50 conflitti che sono in corso nel mondo, molti dei quali dimenticati.
Lo testimoniano in modo dirompente le parole di un bambino soldato (il cui vero nome deve restare protetto) che Luca Cascavilla ha raccolto per Left nella Repubblica democratica del Congo: un’intervista che vi proponiamo nella sua interezza e che lascia senza fiato. I bambini vittime di guerra sono una inaccettabile realtà quotidiana, su cui non si possono chiudere gli occhi. Per fortuna – potremmo dire – la gran parte dei bambini nel mondo non vivono in realtà di conflitto. Ma pur con tutte le distinzioni del caso, non possiamo tacere neanche sul fatto che, anche in quelle che consideriamo civiltà progredite, esiste una violenza forse meno tangibile ma che impedisce loro di vivere una infanzia felice e di crescere sviluppando a pieno le proprie possibilità.
Di questa violenza “invisibile” è impregnata profondamente anche la nostra società che ha radici nella paideia greca che – come ha documentato in tanti libri Eva Cantarella – era basata sulla pederastia e usava la violenza sessuale, che è in primis psicologica come rileva la moderna psichiatria, per forgiare il cittadino del futuro. Come scrivono su Left Emilia Colosimo e Giulia Spurio la storia occidentale ha a lungo visto il bambino come babbeus, materia muta da educare, mentre il cristianesimo ha sempre negato la nascita sana dei bambini, gettando loro addosso la croce del peccato originale. Idee poi riprese da Freud, il padre della psicanalisi che nacque morta avendo definito il bambino come «perverso polimorfo», contro ogni evidenza e comune esperienza di vita. Animaletto da addomesticare, piccolo demone tentatore (come dicono i preti pedofili per tentare di difendersi facendo appello alla formazione ricevuta in seminario), incapace di pensiero razionale e perciò essere inferiore, oppure reso astratto, negato nelle sue esigenze umane più profonde e appiattito in una stereotipia da angioletto.
L’ombra lunga di questi pensieri violenti sui bambini è arrivata fino a noi. Basti dire che solo con la Convenzione Onu del 1989, ratificata dall’Italia nel 1991, la tutela dei diritti dei minori viene riconosciuta come un dovere dei Paesi membri.
Con ciò, purtroppo, alcuni bambini, ancora oggi, sono considerati meno esseri umani di altri. E dunque gli si può fare impunemente qualsiasi cosa, come suggerisce il sottotesto dell’ospite di quel talk show. Ce lo dice la feroce deumanizzazione di cui sono stati vittima i bambini a Gaza e in Cisgiordania, diventati target dell’esercito israeliano e dei loro strumenti di guerra automatizzata dai nomi eloquenti come Where is daddy?, e presi di mira dai coloni in Cisgiordania. Ce lo diceva già la morte di Aylan Kurdi, annegato il 2 settembre del 2015 insieme al fratellino e alla madre perché il gommone su cui erano saliti per fare una traversata di 30 minuti da Bodrum a Kos era stato sovraccaricato dai trafficanti di esseri umani per lucrare sulla loro disperazione.
La foto di Aylan senza vita sul bagnasciuga fece gridare di dolore il mondo intero. L’immagine di quel bambino, evocato nel potente disegno di Marilena Nardi che pubblichiamo in copertina, è diventata il simbolo universale di un “mai più” che pareva farsi risposta politica e umanitaria. E invece, come ricordano Marco Aime e Federico Faloppa nel loro nuovo libro I morti degli altri (Einaudi), per tutta risposta, arrivarono politiche brutali. Come quella dell’allora ministro dell’interno Salvini che chiuse i porti alle barche di search and rescue delle Ong contribuendo a far diventare la rotta del Mediterraneo la più pericolosa al mondo. In un decennio migliaia di altri bambini hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere un approdo, un futuro possibile in Europa. Ma non hanno fatto più notizia, troppo diversi dai nostri bambini dalla pelle bianca, per essere presi in considerazione. Il principio best interest of the child per i minori migranti dal Sud del mondo, (molti dei quali non accompagnati) non è mai diventato criterio operativo: mancano valutazioni d’impatto sui minori per ogni legge, manca la protezione effettiva umanitaria, mancano corridoi sicuri.
E allora torniamo a quella frase,«Definisci bambino». Torniamo all’inizio del nostro discorso. «E donna», abbiamo aggiunto in copertina. Perché una storia comune, millenaria, di discriminazione, di negazione e annullamento, accomuna donne e bambini.
Maria Gabriella Gatti ricostruisce questa cancellazione con rigore scientifico: dalla filosofia antica alla teologia, fino alle scienze che hanno patologizzato la differenza, il femminile è stato ridotto a materia da governare, l’infanzia a materia da plasmare. Questa costruzione culturale patriarcale – che si traduce come vediamo oggi in spinta alla militarizzazione e sfruttamento di chi è giudicato inferiore – va vista con chiarezza nella sua pervasività e va radicalmente smontata, perché continua a generare violenza, di cui i femminicidi sono, purtroppo, drammaticamente, solo la punta dell’iceberg. Certo in Italia abbiamo fatto passi enormi nella conquista dei diritti delle donne e dei bambini grazie ai movimenti delle donne come l’Udi (l’Unione donne in Italia), nata dopo l’8 settembre del ‘43 dai movimenti di difesa della donne, nerbo della Resistenza, centrale nella conquista del voto delle donne (che scelsero in massa la Repubblica) e poi avanguardia nelle battaglie per il divorzio, per la riforma del diritto di famiglia, l’aborto e per il disarmo e la pace. A 80 anni dalla nascita del movimento va rilanciata quella battaglia politica e intersezionale, insieme alle giovani di Non una di meno e di altri movimenti, a partire dalla ricerca sul campo. Su Left ci ricorda l’importanza di questo tipo di ricerca Donata Columbro con la sua inchiesta. Contare i femminicidi non è un fatto meramente numerico ma politico. Senza trasparenza, definizioni chiare, analisi sui dati disaggregati, i fenomeni scompaiono alla vista dei più. E quando la realtà sparisce dai registri, prosperano negazionismo e impunità. Contare è il primo atto di cura pubblica. Solo così si possono progettare prevenzione e giustizia. Senza un’indagine nazionale indipendente sugli abusi dei preti pedofili sui bambini, senza obblighi di trasparenza per tutte le istituzioni, continueremo a dire “mai più” mentre accade ancora, come scrive Federico Tulli.
Poi dall’interpretazione dei dati bisogna passare alle scelte politiche, che la destra al governo all’insegna di dio patria e famiglia si guarda bene dal compiere, essendo intrisa di ideologia religiosa, misogina e razzista. Per questo serve una sinistra laica, con le idee chiare sulla realtà umana, che sappia fare scelte politiche lungimiranti per rispondere ai bisogni ma anche alle esigenze di realizzazione di sé delle persone, valorizzando le differenze, che sono un elemento di ricchezza. Come scrive Matteo Fago: «La Sinistra potrà realmente esistere solo quando comprenderà la storia dimenticata della donna, e del bambino che noi tutti siamo stati».
In apertura, disegno di Marilena Nardi




