L’ultimo film di Icíar Bollaín si muove tra dramma e thriller e si afferma come un vero atto di accusa nel raccontare uno degli scandali più rilevanti della politica spagnola. Il mio nome è Nevenka ricostruisce la storia di una giovane consigliera comunale che nel 2001 denunciò per molestie sessuali il sindaco di Ponferrada.
Dopo aver diretto Una donna chiamata Maixabel (2021), anche questo ispirato a una storia vera, la regista Icíar Bollaín torna al cinema con Il mio nome è Nevenka. In stretta collaborazione con la co-sceneggiatrice Isa Campo, Bollaín affronta nuovamente il tema della violenza di genere, già esplorato in Take My Eyes (2003).
Il mio nome è Nevenka, nelle sale italiane dal 20 novembre, riporta all’attenzione pubblica un caso di oltre vent’anni fa, quello della prima condanna per molestie sessuali di un politico in Spagna, già raccontato nel documentario Netflix Nevenka: rompere il silenzio (2021). Nel 2000 a Nevenka Fernández García, da poco laureata in economia, viene proposto di diventare consigliera della città spagnola di Ponferrada. A soli 24 anni si ritrova rapidamente promossa alla guida del dipartimento finanziario del sindaco Ismael Álvarez (Partito popolare). È a conoscenza della reputazione da donnaiolo di Álvarez, ma inizialmente crede che l’interesse che lui mostra nei suoi confronti sia mosso da buone intenzioni. Álvarez però si fa insistente, e le sue avances alla fine hanno la meglio. I due iniziano una relazione clandestina.
Tuttavia, quando Nevenka infelice e confusa, decide di mettere fine alla breve frequentazione sentimentale e di mantenere solo dei rapporti di natura professionale con il sindaco, questo esercita ancora più apertamente il suo potere su di lei. Le telefona continuamente, pretende la sua totale disponibilità, e la umilia pubblicamente davanti ai colleghi e al partito di opposizione, ribadendole in privato di non essere disposto a rinunciare alla loro relazione.
La regia sobria di Bollaín accompagna Nevenka lungo il difficile e solitario percorso che la porta a comprendere che ciò che sta subendo è un vero e proprio abuso di potere. L’ambiente politico che la circonda, invece di ascoltarla e sostenerla, tende a minimizzare la situazione, intimandole prudenza e ricordandole che una donna giovane e ambiziosa deve fare attenzione a non compromettere la propria carriera.
Quando infine nel 2001 Nevenka decide di denunciare le molestie subite da Álvarez e affrontare il sindaco, continuando a non ricevere alcun supporto da parte del Partito popolare, compie un gesto di straordinario coraggio, nella consapevolezza che non si tratta soltanto di una battaglia legale, ma di un’esposizione totale della sua persona: un processo pubblico alla sua vita privata, alla sua credibilità e alla sua integrità professionale.
Il film mostra come il sistema sociale e mediatico cominci a remare contro Nevenka tra sospetti, pettegolezzi e insinuazioni che non fanno che danneggiare ulteriormente la protagonista. Bollaín racconta tutto con una regia dall’estetica televisiva ma sensibile, lasciando spazio a silenzi, tremori, sguardi, oltre che alle parole. La solitudine di Nevenka diventa il suo coprotagonista: la accompagna nei corridoi vuoti, la segue nelle conferenze stampa, nelle notti in cui il peso di ciò che vive sembra insopportabile.
Icíar Bollaín afferma di non aver voluto realizzare un legal drama, alcuni passaggi giudiziari vengono infatti tagliati o semplificati, per dare rilievo al peso che le molestie subite da Nevenka hanno avuto sulla sua salute mentale e non sottrarre spazio a una dimensione più intima. Il film sceglie di restare vicino alla prospettiva emotiva di Nevenka; una scelta narrativa che privilegia senza dubbio l’empatia a discapito della cronaca.
Il mio nome è Nevenka dà risalto però alle reazioni dell’opinione pubblica e dei media all’epoca dei fatti e sottolinea il ruolo determinante svolto dai mezzi di informazione nel sostenere il potere costituito evidenziandone lo scetticismo e l’ostilità nei confronti della denunciante.
Manifestazioni pubbliche di sostegno al sindaco unite a commenti denigratori verso Nevenka segnarono l’inizio di un acceso dibattito nazionale sul concetto di consenso, conclusosi con la condanna penale di Álvarez il 30 maggio 2002. La condanna portò Álvarez alle dimissioni, accolte con l’approvazione dal Partito popolare, mentre Fernández decise di trasferirsi all’estero, attualmente vive in Irlanda, dove ha scelto di portare avanti la sua vita professionale.
Durante le attività promozionali del film, a cui ha preso parte anche Nevenka Fernández in persona, la regista Bollaín ha evidenziato come nel film la rappresentazione dei comportamenti del molestatore sia strutturata in modo tale da attribuire alla vittima la responsabilità degli abusi subiti, e comporti un progressivo logoramento dell’identità della donna, spesso preceduta da manipolazioni psicologiche che ne delegittimano la percezione della realtà.
Nel film di Bollaín il sindaco Ismael Álvarez non viene stilizzato come un mostro monodimensionale, o un predatore malvagio, ma come un personaggio complesso che si muove tra seduzione, paternalismo e manipolazione emotiva. Nevenka è invece tratteggiata come una donna combattuta: non è un’eroina, ma neppure una vittima passiva. Appare fragile e determinata al tempo stesso e la sua combattività sembra nascere da una necessità quasi fisica, quella di non sentirsi oppressa.
Nel costruire il ritratto di Nevenka, Bollaín sceglie di indugiare sui suoi dubbi, sui suoi sensi di colpa, sui momenti in cui vorrebbe tirarsi indietro e su quelli in cui invece comprende che farlo significherebbe tradire sé stessa. Il film è anche rappresentazione delle dinamiche di potere, di come questo possa essere usato per manipolare gli altri, e di quanto sia difficile ribellarsi quando ad abusarne è una figura pubblica stimata e protetta.
Il contesto politico nel film assume il ruolo di vera e propria cornice drammatica: non è un ambiente neutrale ma un sistema che tende a proteggere sé stesso, a salvare le apparenze, a occultare ciò che rischia di incrinare gli equilibri interni. Bollaín mostra come una comunità possa trasformarsi in un tribunale collettivo, e come la paura del cambiamento possa spingere a sostenere il potente e isolare chi ne denuncia gli abusi.
La regista non si limita a raccontare il passato, ma suggerisce implicitamente quanto la vicenda di Nevenka anticipi questioni che diverranno centrali con il movimento #MeToo oltre 15 anni dopo. Il mio nome è Nevenka è un invito a ricordare il passato e leggere il presente con uno sguardo più consapevole sulla violenza di genere.




