Non sappiamo come la piccola Chanel si sia spiegata i sette giorni passati a casa invece che all’asilo. I fatti però sono inequivocabili: i genitori dei suoi compagni non hanno voluto che rientrasse in classe dopo aver saputo che era reduce da un viaggio in Uganda. Eppure Chanel non aveva una sola linea di febbre e l’Uganda non è tra i Paesi a rischio Ebola.
Ma le mamme sono state irremovibili: «O lei o i nostri figli». Così Chanel, tre anni, è rimasta a casa per una settimana. Solo l’intervento della direttrice della materna di Fiumicino (Roma) ha evitato che l’isolamento si protraesse per 21 giorni, come invece chiedevano, in preda al panico, i genitori degli altri bambini. Pochi giorni dopo, il 22 ottobre, anche Fataomata, 26 anni, originaria della Guinea, in Italia da 4, è stata colpita dal virus del pregiudizio. Era sull’autobus nei pressi del capolinea di Grotte Celoni, periferia est di Roma, quando una ragazzina l’ha apostrofata: «Fatti più in là, m’attacchi l’Ebola!». L’atmosfera si è subito surriscaldata e alcuni passeggeri le sono saltati addosso, riempiendola di botte.
«Queste ragazzine sono le nostre prime vittime di Ebola», commenta il genetista Guido Barbujani, che rievoca «gli untorelli» di manzoniana memoria. Non ha dubbi l’autore di Sono razzista ma sto cercando di smettere (Laterza): «Elementi di razzismo, o comunque di pregiudizio, in queste situazioni ci sono sempre. Ebola è stato sottovalutato quando si è pensato che fosse un’epidemia solo africana. Quando invece ci siamo resi conto che può arrivare sino a noi, ci siamo allarmati. Bisognerebbe evitare di oscillare tra atteggiamenti che minimizzano cose che non possono essere minimizzate e drammatizzano fatti che andrebbero visti con un po’ di freddezza».
Fatto sta che oggi in Italia l’emergenza è «mediatica» prima ancora che sanitaria, come denuncia Giuliano Rizzardini, direttore del Dipartimento malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano, preoccupato che il virus si trasformi in una «caccia all’uomo nero, non solo in senso metaforico». Intanto l’Ordine degli Psicologi del Lazio si dice pronto a fornire a governo, Regione e Comune «le competenze necessarie per gestire gli aspetti di “panico collettivo” che questa emergenza sta facendo registrare».
Per ognuna delle storie finite sui giornali, ce ne sono tante altre rimaste nascoste dietro le mura domestiche. Come il caso di Kebrat, un’etiope di 23 anni, timida e minuta. Da 5 anni lavora a tempo pieno come baby sitter per una famiglia del centro storico di Roma. Poi è arrivato l’allarme epidemia e l’anziana governante italiana l’ha presa da parte: «Non venire più a casa. Ci porti Ebola». In Etiopia, dove peraltro non torna da anni, il virus non c’è. Ma Kebrat si è spaventata lo stesso ed è rimasta chiusa in casa, confusa e terrorizzata, per tutto il weekend. Col timore di poter davvero contagiare qualcuno.
«Nell’ultimo mese le segnalazioni di episodi di fobia sono aumentate del 30 per cento, soprattutto al Nord», denuncia Foad Aodi, ortopedico italiano di origine palestinese, presidente dell’Associazione medici stranieri in Italia (Amsi). «Con questo allarmismo, ci vanno di mezzo soprattutto i bambini africani. Basta che uno sia di colore perché scatti subito l’identificazione con l’Ebola». Come se non bastasse, questa psicosi sanitaria si aggiunge a quella “politica” per l’Isis: «In entrambi i casi a pagare un prezzo molto alto sono i nostri ragazzi nelle scuole, che invece dovrebbero essere – e sono – il ponte dell’integrazione del futuro. Stiamo formando una seconda generazione piena di paure: siamo molto preoccupati». Adi racconta di una madre italiana che è andata a riprendersi il figlio quando ha visto che giocava con dei ragazzini africani nel giardino della scuola. «Ci chiamano tutti i giorni per denunciare storie così», aggiunge il medico palestinese. «Tante famiglie chiedono che si tranquillizzi la popolazione». Già il 24 ottobre, Aodi aveva preso carta e penna per esprimere il suo sdegno per «l’atmosfera che si sta creando nei confronti degli immigrati, strumentalizzata da certi partiti che cercano visibilità e consensi sulla pelle degli immigrati come stanno facendo da mesi Grillo e Salvini».
Il segretario della Lega aveva appena tenuto una conferenza stampa con Marine Le Pen a Strasburgo per chiedere la «sospensione immediata» di Schengen e la chiusura delle frontiere interne «per fermare l’epidemia di Ebola». Tra le richieste dei due esponenti anche un fantomatico «stop all’importazione di beni potenzialmente a rischio di contaminazione come le banane». Già in agosto Matteo Salvini si era scagliato contro i salvataggi nel Mediterraneo: «Malato di Ebola arriva in Spagna, è il primo caso in Europa. Ma Renzi e Alfano continuano col suicidio di Mare mostrum», lamentava su facebook il leader lùmbard a dispetto del fatto che il malato in questione era un prete rimpatriato e che tutti gli esperti abbiano ampiamente chiarito che i tempi di incubazione non sono compatibili con il lungo viaggio di chi arriva in Italia per mare. Non da meno Beppe Grillo, che sul suo blog ha recentemente ammonito: «Chi entra in Italia con i barconi deve essere identificato immediatamente, i profughi vanno accolti, gli altri, i cosiddetti clandestini, rispediti da dove venivano. Chi entra in Italia ora deve essere sottoposto a una visita medica obbligatoria all’ingresso per tutelare la sua salute e quella degli italiani».
Gli effetti di tale disinformazione non si sono fatti attendere. Il 25 ottobre, tra Calcinato e Montichiari, in provincia di Brescia, sono comparse frasi violentemente razziste: «I neri portano l’Ebola, bruciamoli», si leggeva sulla provinciale 28 prima che intervenissero Digos e carabinieri per cancellare la scritta e indagare sull’accaduto. Tre giorni prima, a centinaia di chilometri di distanza, a Polla, in provincia di Salerno, il sindaco aveva addirittura emanato un’ordinanza per chiedere l’allontanamento di 20 profughi eritrei appena arrivati: «Oltre a problemi di ordine pubblico, potrebbero determinare anche situazioni di rischio sanitario a carico della popolazione con aumento di malattie infettive tra cui tubercolosi, scabbia ed Ebola», aveva argomentato il primo cittadino. Ad allarmare i cittadini era stato il ricovero per febbre e vomito di uno dei profughi. Travolto dalle polemiche, il sindaco già in serata aveva revocato l’ordinanza.
Ormai basta che una persona di colore dia segni di malessere che si scatena il panico. Com’è successo il 13 ottobre al Tribunale di Milano, quando un ghanese senza fissa dimora, imputato per furto di rame, ha iniziato a sputare sangue: il processo è stato immediatamente interrotto, l’aula è stata chiusa con tanto di cartello «inagibile» anche se l’imputato era isolato nella gabbia riservata ai detenuti. In serata gli accertamenti avevano già escluso il contagio da Ebola. Paura di nuovo a Roma, quando un giovane somalo, in Italia da due anni, ha accusato un malore mentre era in fila alla Questura di Roma per il permesso di soggiorno. Scene di panico anche all’ospedale Bassini di Cinisello: l’11 ottobre gli infermieri hanno fatto indossare le mascherine a una coppia di nigeriani in attesa al pronto soccorso. Gli altri pazienti si sono talmente spaventati che il medico ha dovuto spostare i due africani in una saletta isolata.
Tutto questo malgrado sia stato ampiamente chiarito che il contagio non avviene per via aerea e che lo scoppio dell’epidemia in Europa è altamente improbabile. Soprattutto in Italia non è stato ancora riscontrato un solo caso conclamato di Ebola. Solo tanta paura. Come ha ironizzato Michele Serra su l’Espresso, siamo di fronte a «un’epidemia che si diffonde non solo per via orale, ma anche per iscritto».