Se d’un colpo l’acciaieria di Terni sparisse bisognerebbe andare fino in Corea per trovare i lingotti d’acciaio – da 500 tonnellate – che gli operai ternani sono in grado di produrre. Nessun altro riesce a creare quei blocchi, capaci di muovere grosse navi, indispensabili nelle centrali elettriche e nucleari.
Quantità e qualità. L’acciaio di Terni è acciaio speciale, inossidabile e resistente, buono tanto a costruire binari delle ferrovie quanto a realizzare opere d’arte come l’obelisco di Arnaldo Pomodoro, la Lancia di luce. Sono leghe realizzate con una speciale composizione chimica e un appropriato trattamento termico, necessitano di macchine all’avanguardia ma anche di manodopera esperta: sono gli uomini a dettare i tempi giusti alle macchine.
A Terni lo fanno da 130 anni. La classe operaia dell’Ast ha fuso ingegno e studio, innovazione tecnologica e mestiere tramandato. Oggi la quinta generazione dell’acciaieria sa bene di essere un’eccellenza: patrimonio unico in Europa e sito strategico per l’industria italiana. Ed è per difendere questa posizione che l’intera fabbrica è entrata in sciopero il 23 ottobre scorso: «Dietro l’ultimo piano di ridimensionamento si nasconde l’ennesimo passo verso la chiusura», denunciano gli operai che presidiano i cancelli.
A inizio ottobre, i tedeschi della Thyssen Krupp – la multinazionale proprietaria al 100 per cento dello stabilimento – hanno spedito 537 lettere di esubero e annunciato tagli per cento milioni l’anno – salari compresi – e la chiusura di uno due forni fra il 2015 e il 2016. Il piano di ridimensionamento è stato attenuato dall’intervento del governo italiano che ha aperto un tavolo di trattativa con i tedeschi: riduzione degli esuberi – da 537 a 290 – e mantenimento di entrambi i forni in funzione (uno a piena capacità e l’altro a turnazione di 5 giorni su 7), ha annunciato il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi.
Ma ai sindacati questa soluzione non basta: «Il problema non sono i singoli esuberi ma l’assenza di una politica industriale», spiega Cipriano Crescioni della Cgil. «La Thyssen Krupp vuole “svuotare” questa azienda per potenziare i suoi stabilimenti in Germania. È il segnale di un protezionismo cieco, di un egoismo tedesco avallato dalla Commissione europea». Non a caso la protesta si è allargata fino a Bruxelles, dove i lavoratori Ast sono andati a manifestare martedì scorso. È lì che si gioca la partita, in palio c’è il primato nella siderurgia.
Al premier Renzi è affidato il compito di convincere l’Europa – e Angela Merkel – che Terni è una pedina strategica per il rilancio dell’intera industria nazionale. Mentre – per convincere Renzi – la Fiom di Maurizio Landini ha indetto un nuovo sciopero: il 14 novembre al Centro Nord e il 21 al Sud i metalmeccanici torneranno in piazza.
SUICIDIO ASSISTITO
«Un attacco di thyssenteria», gli operai chiamano così la strategia di “svuotamento” della Thyssen Krupp. L’ironia smorza i toni ma i volti di chi presidia sono stanchi e preoccupati. Nelle ultime due settimane hanno scioperato, presidiato giorno e notte la fabbrica, protestato a Roma il 29 ottobre sotto le cariche della polizia. Il fantasma della dismissione, però, lo combattono già da dieci anni: dal 2004, quando 30mila ternani marciarono contro la chiusura del settore “Magnetico”. «Quella operazione fu un “suicidio industriale”», commenta Luciano Neri di Federmanager, il sindacato dei dirigenti d’industria. «Terni era l’unico produttore del magnetico, che un anno dopo passò da 700 euro a tonnellata a 3mila euro a tonnellata, immaginate quante centinaia di milioni di euro sono stati persi da questa azienda?». Un segnale preciso, secondo Neri: «Già allora capimmo che il vero problema era l’inossidabile. Con la chiusura del Magnetico l’acciaieria diventava monoprodotto: una condanna a morte sicura».
La decisione di Thyssen Krupp di uscire dal mercato dell’inox si manifesta nel 2012: i tedeschi cedono le produzioni di inox alla loro partecipata finlandese, Outokumpu. L’Antitrust europeo, però, rileva un eccesso di concentrazione nelle mani dell’azienda finlandese e la obbliga a vendere quanto appena acquisito. Alla fine del 2013 Thyssen riacquisisce lo stabilimento Ast, nonostante il suo disinteresse nel settore dell’acciaio inossidabile. «Come è possibile che nessuno se ne sia accorto prima?», si chiede Neri. «Questi “giochetti” della Commissione europea, alla fine, si sono rivelati manna dal cielo per la salvaguardia del mercato tedesco e del Nord Europa». Come se non bastasse, l’azienda che Thyssen Krupp riprende in mano nel 2014 registra una perdita di 10 milioni di euro al mese negli ultimi due anni.
TERNI CONTRO DUISBURG
Davanti alla crisi la Thyssen Krupp adotta due pesi e due misure. A Terni i tedeschi puntano su esuberi e incentivi all’esodo: buonuscita di 61mila euro netti a chi se ne va. Un incoraggiamento che ha già convinto 130 operai e che – come ha precisato l’ad italiana di Thyssen, Lucia Morselli – potrebbe aumentare fino a, quasi, 90mila euro. Mentre a Duisburg, pur di evitare licenziamenti tra i suoi 4.500 addetti, la multinazionale ha firmato un accordo di solidarietà con sindacati e governo tedesco: riduzione dell’orario di lavoro a 31 ore settimanali (pagate 32).
La proposta italiana di solidarietà chiedeva un trattamento assai simile: la riduzione delle ore settimanali in fabbrica da 37 e mezzo a 32 (per 35 ore retribuite). Un’opzione fattibile con la detassazione del costo del lavoro, assicurano i sindacati. Ma la multinazionale non ha voluto sentire ragioni e ha risposto picche. «È evidente che la Germania ha deciso di riportare la produzione siderurgica nel suo Paese, scaricando la disoccupazione in Italia», considera Emanuele Pica, 37 anni, operaio Ast con una laurea in Economia.
Il costo del personale non giustifica il ridimensionamento perché incide nell’ordine del 5 per cento sul fatturato complessivo. E infatti i tagli riguardano anche la produzione che, secondo i sindacati, verrà ridotta da 1,4 milioni di tonnellate a 700-800mila tonnellate in tre anni. Ridurre produzione e occupazione equivale a dismettere? «Sì. Mettiamo il caso che domani riparta l’economia», prosegue Pica, «con gli esuberi e una produzione al ribasso ci viene tolta ogni possibilità di stare sul mercato. Alla base del ridimensionamento c’è sicuramente una questione economica, è evidente che c’è una sovrapproduzione siderurgica in Europa. Ma chiudere il sito di Terni è una scelta politica e strategica dell’asse nordeuropeo», sbotta Emanuele Pica. «È una scelta politica dell’Europa germanizzata. Le scelte della Ue sono condizionate dalla Germania».
VENDERE E PARTECIPARE
Provare a convincere Thyssen è inutile: «È evidente che ha scelto di uscire dalla produzione dell’acciaio. Perciò il governo dovrebbe svestire i panni di arbitro e indossare quelli del giocatore. È ora di entrare in partita», dice Pica. Come? Tra gli operai non è difficile sentire la parola “nazionalizzazione”. In tanti invocano un ritorno all’Iri come salvezza. Ma «nazionalizzare oggi non è realistico», risponde Pica. «Non c’è la possibilità che lo Stato riprenda l’azienda e ritorni a produrre acciaio». Rimettere in piedi l’Iri non è certo un’ipotesi fattibile nel breve tempo.
«Quello che chiediamo al governo è di dichiarare strategica la produzione di inox e, a quel punto, partecipare con la Cassa depositi e prestiti e il Fondo strategico italiano in una Golden share. Il governo deve imporre una scelta ai tedeschi: la vendita». L’Ast sulla carta vale 550 milioni di euro. Nell’ultimo bilancio, però, si registra una svalutazione di 180 milioni e poi ci sono anche i 10 milioni al mese di debiti accumulati negli ultimi due anni.
Letta così, la proposta avanzata da Aperam (la controllata del colosso franco-indiano Arcelor-Mittal) non suona tanto lontana dalla realtà. Il gruppo Arcelor-Mittal – primo Gruppo siderurgico mondiale – all’inizio del 2014 ha messo sul piatto 100 milioni di euro e la chiusura di un’acciaieria belga per salvare l’acciaieria di Terni. Quella proposta non è mai stata ritirata e nella cordata sono presenti, in quota minore, anche le società italiane del gruppo Arvedi e Marcegaglia. «In alternativa – aggiunge Luciano Neri di Federmanager – ci sono anche i coreani della Posco. Non molto lontano da qui, in Turchia, hanno un impianto da 1 milione di tonnellate. Per alimentare le macchine importano il materiale fuso da trasformare dalla Corea. Sarebbe più vicino prenderlo qui, no?».
«Le alternative alla chiusura forzata della Thyssen ci sono», assicura il dirigente d’industria ternano. «E Renzi è a conoscenza delle nostre proposte, perciò siamo nelle sue mani». A Terni lo sciopero è stato prolungato a oltranza. Un’impiegata del reparto acquisti, in presidio, riassume così la vicenda: «Vogliono un Paese di cuochi e camerieri che non faccia concorrenza alla Germania».