Sono i combattenti più spregiudicati del mondo. Nelle cronache sulla guerra in Siria e in Iraq appaiono come guerrieri capaci delle torture più feroci, abilissimi con le armi e totalmente privi di scrupoli. Sono i ceceni, una categoria che nell’accezione attuale non corrisponde più ai cittadini provenienti dall’omonima Repubblica.
Oggi in Medio Oriente i “ceceni” sono miliziani stranieri provenienti dal Caucaso del nord, che parlano russo e professano l’islam e che al termine delle tante guerre e operazioni anti terrorismo sferrate da Mosca in quest’area si sono trovati poveri in canna e con una grande esperienza nel campo delle munizioni e dei lanciarazzi. I predicatori wahabiti (corrente fondamentalista dell’islam) hanno fatto il resto, dando alla loro voglia di vendetta una legittimazione religiosa.
Ma i ceceni non vengono dalla Cecenia, reclama Ramzan Kadyrov, il presidente-dittatore della suddetta Repubblica. Secondo lui, se davvero i suoi concittadini combattono in Medio Oriente, è perché fanno parte di quella minoranza di “reietti” che si oppongono al suo regime e vivono in esilio in Europa. Sarebbe la diaspora, dunque, a partire coi kalasnikov in pugno per combattere il jihad. Una tesi opinabile, dal momento che i ceceni fuggiti in Europa in seguito alle guerre che hanno condotto Grozny sotto l’orbita di Putin non ce l’hanno contro gli infedeli, ma contro il Cremlino.
E se è vero che oggi molti di loro sono partiti dall’Austria, dalla Danimarca e da altri Paesi europei per combattere, è falso che la loro destinazione principale sia la Siria o l’Iraq: la maggioranza è andata in Donbass, per lottare al fianco dell’esercito ucraino contro i russi. Pur di fronteggiare le truppe di Mosca, da Copenhagen sarebbe arrivato addirittura il comandante Isa Munaev, che guidava la difesa di Grozny nel 2000 quando la capitale cecena cadde in mano al Cremlino. Munaev in Ucraina avrebbe creato il battaglione internazionale di “peacekeeping” Jokhar Dudayev, dal nome del presidente ceceno che nel 1991 autoproclamò l’indipendenza della sua Repubblica. E anche Hussein Ishkanov, membro del Parlamento ceceno in esilio, invita la gioventù cecena a schierarsi al fianco di Kiev, pregandoli di non andare a combattere in Siria «che non ci interessa», ma in Ucraina. A Ishkanov, infatti, non interessa il jihad, ma l’ideale nazionalista di un popolo che non ha un luogo dove combattere per la causa.
In Ucraina, però, i volontari ceceni della diaspora si trovano a sparare contro altri ceceni, quelli provenienti proprio dai ranghi del presidente Kadirov, fedelissimo di Putin. Ci sarebbero anche loro tra i mercenari arrivati nell’Ucraina orientale per combattere al fianco dei separatisti filorussi contro il governo di Kiev, sebbene in numero abbastanza ridotto rispetto alle cifre denunciate dai loro nemici. La maggior parte dei “ceceni” che combattono per Mosca, infatti, sarebbero originari di altre Repubbliche caucasiche. Daghestan e Ossezia ad esempio, Repubbliche più povere e abbandonate di quella di Kadyrov, che con la sua fedeltà al Cremlino si becca sempre la fetta più grossa dei sussidi federali. Secondo un rapporto di Memorial – l’organizzazione per i diritti umani con cui collaborava Anna Politovskaya – le reclute inviate in Ucraina proverrebbero dalle guarnigioni russe di stanza in Cecenia ma sarebbero soprattutto osseti e daghestani, gli stessi – sempre secondo Memorial – che invasero la Georgia per conto del Cremlino nel 2008.
I “ceceni” sono stati avvistati per la prima volta a marzo in Crimea, dove cittadini locali riportavano la presenza di unità “dall’aspetto caucasico”, dotati di equipaggiamento e uniformi tipiche dei kadyrovisti. Con il diffondersi della guerra in Ucraina orientale le stesse segnalazioni sono arrivate da Donetsk, mentre in Daghestan e Cecenia tornavano salme di soldati uccisi durante esercitazioni in luoghi imprecisati. Kadyrov anche in questo caso nega la presenza dei suoi soldati in Ucraina, ostentando la solita bellicistica vanagloria: se fossimo andati a combattere, «avremmo già conquistato Kiev». Ma nello stesso tempo il presidente ha dichiarato più volte che i suoi uomini erano pronti a sconfiggere i fascisti ucraini e anche che avrebbe inviato volentieri una missione di “peace keeping” in Crimea.
Tra tutti i caucasici accorsi in Ucraina, molti hanno sperato che il loro impegno servisse anche a dirigere altrove i sentimenti xenofobi della maggior parte dei russi, ma il fatto che i “ceceni” combattano per una causa “giusta” non sembra stroncare i pregiudizi dei concittadini di Putin, che continuano a considerarli pericolosi criminali e potenziali terroristi.
D’altronde i “ceceni” che combattono al fianco di Kiev non godrebbero di grande sostegno da parte della propria comunità. In Caucaso del Nord, infatti, i sondaggi di organizzazioni indipendenti rivelano che la maggior parte della popolazione non vede quella ucraina come una causa per cui vale la pena combattere. E gli stessi kadyrovisti “preferiscono” restare in Cecenia per mantenere forte la pressione contro i terroristi, ovvero i ribelli del cosiddetto emirato islamico del Caucaso.
È contro i fondamentalisti, infatti, che più veementemente si scaglia Kadyrov, soprattutto contro quelli che combattono al fianco dello Stato islamico. Secondo lui i sanguinosi miliziani del Califfato sarebbero sul libro paga degli occidentali, creati in funzione anti russa e guidati direttamente da un agente della Cia quale al Bagdadi. Dove prenderebbero sennò il loro prezioso equipaggiamento?
Il presidente ceceno sfodera una delle sue migliori teorie del complotto per screditare il più possibile i jihadisti di fronte alla popolazione e prepararsi a combattere una nuova guerra contro i “ritornati”. Sono tanti, infatti, gli indizi che inducono a ipotizzare una recrudescenza di violenze legato al rientro di miliziani da Siria e Iraq. Alcuni di loro, ad esempio, potrebbero essere costretti a tornare per via di una tensione crescente con i militanti islamisti siriani. I caucasici denunciano di essere sempre loro in prima linea e sempre loro a subire le maggiori perdite. E nel frattempo anche nella “pacificata” Cecenia sono tornati gli attentati suicidi: all’inizio di ottobre un kamikaze si è fatto esplodere in mezzo a Grozny, uccidendo cinque persone e ferendone 12.
Per ora, però, è in Siria che i jihadisti ceceni stanno dando il loro “meglio”. Tra i militanti dello Stato islamico sono considerati tra i più abili con le armi e tra i più spietati coi nemici. La loro ferocia deriva in molti casi da una totale assenza di prospettive. Molti di loro, infatti, non hanno nessuna casa in cui tornare, perché la loro origine non è né la Cecenia né l’Europa della diaspora, ma quel buco nero geopolitico che si chiama valle di Pankisi. Ufficialmente sotto la sovranità di Tbilisi, in realtà la valle è una terra di nessuno incuneata tra le montagne di Georgia, Cecenia e l’autoproclamata repubblica indipendente d’Abkhazia. Abitata dai poverissimi kisti, una sottoetnia cecena di religione musulmana. È da sempre crocevia di armi, traffici, e combattenti ripudiati dagli eserciti e disconosciuti dalle famiglie.
Nel 2002 Pankisi balzò agli onori delle cronache proprio per i suoi campi di addestramento per jihadisti e anche oggi sembra che la maggior parte dei “ceceni” arrivati in Siria siano partiti proprio da qui. Sicuramente viene dalla valla di Pankisi il rosso Abu Omar Al Shishani, l’uomo che avrebbe preso il comando delle operazioni a Kobane dopo aver guidato l’assalto a Mosul, in Iraq. Il temuto al Shishani gode di un inedito primato: è l’uomo più ucciso del mondo. Per almeno quattro volte, infatti, è stato dichiarato morto da diversi tipi di nemici. L’ultimo è proprio Kadyrov, che a metà novembre ha dichiarato: «Tarkhan Batirashvili, il nemico dell’islam conosciuto come Omar al-Shishani, è stato ucciso. La stessa cosa succederà a chiunque osi minacciare la russia e il popolo ceceno». Il presidente l’ha scritto su Istagram, il suo social network preferito, che lui usa come vero e proprio ufficio stampa. Ma la foto allegata, secondo Radio Free Europe, non sarebbe affatto quella del cadavere di al Shishani, sebbene sia stata già usata altre tre volte da varie fazioni curde per rivendicare l’uccisione sempre dello stesso comandante.
Ma Kadyrov non ama le smentite e pur di evitare di essere contraddetto potrebbe anche rinunciare al suo grande amore per Instagram, optando per una soluzione drastica: chiudere internet in tutta la Repubblica. «C’è stato un giorno in cui sognavo che tutta la Cecenia avesse Internet», ha dichiarato a ottobre, «Ma ora sono favorevole a chiuderla. Anche se in termini politici, economici e sociali sarebbe un grande passo indietro, smetterremo di ucciderci l’uno con l’altro. Tutte le case oggi hanno accesso alla Rete e tutte le persone sono libere di ascoltare i sermoni dei fondamentalisti wahabiti. È questa la ragione per cui i nostri preti sono così attivi sui social network».