La ricerca di una ragione di vita. E di morte. Un bisogno di identificazione forte in cui non esistono chiaroscuri ma una netta linea di demarcazione: quella che ti separa dal nemico da annientare. In questa chiave, il credo religioso è un pretesto, uno strumento che serve per creare una unità d’intenti. Ciò che importa davvero è far parte del gruppo. Essere tra i “giustizieri”. Sono i foreign fighters europei, arruolatisi nell’esercito di Abu Bakr al-Baghdadi, l’autoproclamato “califfo” dello Stato islamico. La “foto di gruppo” che meglio dà conto di questo percorso di una Jihad 2.0 è quella che immortale i “giustizieri” dell’Isis in piedi con le loro vittime sacrificali, 18 prigionieri siriani, in ginocchio, inebetiti, alla totale mercé dei loro carnefici. Immobili, forse drogati, come lo è stato Peter Kassig, l’operatore umanitario americano decapitato e mostrato in un video agghiacciante.
Tra quei tagliatori di teste c’era, secondo la Procura di Parigi, Michael Dos Santos, un 22enne originario della località di Champigny-sur-Marne, alle porte della capitale francese. Dos Santos (rinominatosi Abou Othman) era noto alla polizia da qualche tempo: il giovane aveva l’abitudine di rivendicare attacchi vari o inneggiare sui social network ad atti di violenza, ma nei suoi post il ribellismo contro l’“ordine costituito” non assumeva i caratteri tradizionali del fondamentalismo, segnalava piuttosto il bisogno di condividere una “missione” che lasciasse il segno. Come quella di realizzare non una “comune” ma una “comunità” superiore.
IL BRIVIDO DEL PERICOLO
Tra quei giustizieri c’è anche un altro francese, con una storia per certi versi ancora più illuminante, e inquietante, di quella di Dos Santos. È Maxime Hauchard, anch’egli 22enne e originario di Rouen. Figlio di normanni, con un’educazione cattolica, Maxime si è convertito a 17 anni all’islam e poi si è radicalizzato, compiendo un primo viaggio in Mauritania, tra l’ottobre 2012 e il maggio 2013, per entrare in contatto con gruppi islamisti locali. Ma ne era tornato deluso per non averli trovati sufficientemente estremisti, hanno spiegato gli inquirenti francesi. Nell’agosto di quest’anno è partito alla volta della Siria, via Istanbul, con sedicenti obiettivi umanitari, ma in realtà per unirsi ai jihadisti dello Stato Islamico.
Casi isolati? Non proprio, visto che il governo socialista di Francois Hollande ha rivelato che, tra i 1.132 francesi coinvolti nella jihad, il 23 per cento non è cresciuto in ambienti musulmani. Riflette in proposito Renzo Guolo, tra i più autorevoli studiosi dell’islam radicale: «Va considerata la storia personale di questi ragazzi. Ciascuno cerca in ideologie totalizzanti, in questo caso l’islam radicale, una sorta di bussola che offre certezze e chiavi di comprensione di un mondo sempre più complesso e che quindi disorienta.
L’islam radicale è una sorta di religione politica che come tutte è in grado di dare agli individui risposte certe, magari anche manichee, alle grandi questioni del mondo e anche ai fatti della vita di tutti i giorni»: Questa dimensione “ribellistica” non è solo un connotato dei foreign fighters made in France. Ciò che emerge dalle storie dei singoli e dai social media che amplificano le gesta dei “combattenti di Allah” venuti dall’Europa, è il tratto comune rappresentato dalla percezione di essere impegnati in un’avventura trascinante, è la convinzione di sapere di essere dalla parte giusta del mondo, di essere tra i “puri”.