L’incantautrice. È così che i più conoscono Cristina Donà. Milanese d’origine e bergamasca d’adozione, Cristina calca i palcoscenici da più di 20 anni. Da quel 15 gennaio 1991, quando aprì – giovanissima – un concerto degli Afterhours. Un’artista da «quattro stelle», tante quante ne diede Robert Wyatt, il genio britannico fondatore dei Soft machine, al suo album d’esordio Tregua (1997). Testi raffinati e note che rapiscono per otto album, fino ad arrivare all’ultimo lavoro – Così vicini (2014) – un invito a «guardarsi negli occhi».
Con Manuel Agnelli è stata di recente a Firenze per il contest rock. Sente la responsabilità nei confronti di chi comincia adesso?
Sì, mi metto nei loro panni. Ogni tanto penso che se dovessi iniziare adesso non saprei da che parte cominciare. Il mercato offre talent da una parte e Sanremo dall’altra, per chi non vuole prendere quella strada che rimane? Rimangono i contest, che sono un’alternativa valida. A Firenze ho trovato una buonissima qualità tra i partecipanti, sia nella musica che nelle parole. Sono contenta di avere avuto questo ruolo.
Perché è necessaria un’alternativa?
Il problema non è l’esistenza dei talent, ma che non esiste il resto. Sono dei contenitori musicali in cui la musica è vista come competizione e basta.
E si esalta l’esecuzione degli interpreti sacrificando l’originalità, e quindi la sperimentazione che quasi sempre arriva dal panorama indipendente.
Certo, è uno show, uno spettacolo, ci sono anche ragazzi davvero bravi e ammiro il loro coraggio nell’affrontare l’osservazione microscopica e i giudizi continui, io non sopporterei una cosa del genere. Però, come dici tu, manca chi sottolinea lo sviluppo della parte creativa che non deve essere per forza “pesante”. Invece la contrapposizione a quel certo tipo di spettacolo è vissuta così, come una cosa “difficile”.
Difficile e pesante, come i vecchi cantautori… lei presta molta attenzione ai testi, pensa che abbia ancora un senso parlare di cantautorato?
Sì. Le parole hanno un peso e un senso anche per gli adolescenti di oggi, lo dimostra il fatto che ascoltino prevalentemente rapper. Non sono tutti così banali o superficiali i “giovani di oggi”. Quello che mi spaventa non è che i ragazzi non siano predisposti ad accogliere dei testi particolari o nuovi, ma è proprio la parte musicale. La vera canzone pop è capace di arrivare a un tessuto complesso con leggerezza, senza diventare superficiali. Guarda De Andrè e De Gregori con quale leggerezza riescono ancora a fare breccia…
Ad ascoltare il suo ultimo album si sente una “leggerezza” rispetto al passato, una sorta di semplificazione. Quindi era voluto?
Sicuramente è un punto di arrivo e forse di una nuova partenza: riuscire ad avere un linguaggio che sia più diretto possibile. Musicalmente sono canzoni abbastanza complesse rispetto alle mie solite, la collaborazione con Saverio Lanza è andata volutamente ad arricchire – e non complicare – la parte musicale a fronte di una semplificazione dei testi. Ci ho lavorato moltissimo: son partita da file lunghissimi e ho scremato fin quando non ho ottenuto il succo di ogni canzone. Questo è legato a una mia esigenza personale, per me scrivere canzoni è un po’ terapeutico, mi aiuta a togliere i se e i ma che soprattutto nei primi lavori anche inconsciamente usavo moltissimo. Anche se più terapeutico ancora è salire su un palco…