Il nuovo presidente della Commissione europea vuole una «lettura più politica» del patto di stabilità. Preferisce alla presidenza della Grecia «un volto già noto», nella fattispecie quello dell’ex commissario all’Ambiente Stravos Dimas, candidato della destra. Promette 315 miliardi per la crescita, ma non dispone di più di 21. Vuole lavorare affinché la Gran Bretagna resti nell’Unione (è uno dei 5 punti del suo programma) ma bacchetta il premier Cameron perché «fa politica sulla pelle degli immigrati». Si mostra flessibile sulle questioni economiche per accattivarsi Italia e Francia, però all’occorrenza si irrigidisce per non scontentare la Germania. Corteggia la Turchia ma minaccia la Russia, che di Ankara è alleata. Rigetta gli accordi sull’ambiente, tranne poi far marcia indietro in meno di 24 ore.
Aveva detto: «Avremo un cambio di passo», ma non aveva precisato che avrebbe scelto, almeno per il momento, il ritmo della giravolta. Jean-
, primo presidente della Commissione europea eletto dall’europarlamento, in 50 giorni di mandato ha collezionato gaffe, accuse pesanti (vedi il dossier Luxleaks) e schiaffi diplomatici, come la richiesta di mantenere Lady Ashton – ex Alto rappresentante – al tavolo dei negoziati sul nucleare iraniano. La sua Commissione si muove ancora incerta sulla direzione da prendere, in politica estera come nelle questioni comunitarie. Di certo c’è che Juncker ha ben chiaro che nonostante il suo sia un mandato più rappresentativo di quello del suo predecessore – lo ha scelto il Parlamento su indicazione dei partiti vincitori delle elezioni – il fossato tra opinione pubblica ed Europa, come ha detto di recente, «non è una invenzione dei populisti o degli euroscettici. Li si può accusare di averlo sfruttato, non di averlo creato».
Juncker vuole ricucire l’Europa al suo interno, ma intanto l’Europa deve capire come muoversi all’esterno, perché non c’è Unione senza una visione di insieme che tenga conto dei mutamenti globali. L’orizzonte dei prossimi anni è nero, tra le spinte razziste dell’estrema destra, presente in quasi tutti gli Stati membri, e l’incubo dell’Esercito islamico che bussa al Vecchio Continente. L’alleanza – sempre meno stretta – con gli Stati Uniti non può bastare, né la Nato può essere l’unico strumento difensivo su cui contare. Il mondo non si esaurisce sull’asse Usa-Ue, ora che i Paesi emergenti sono emersi e l’Europa è al centro di una regione sempre più debole sia politicamente che economicamente. A Est le prospettive non sono rosee e la politica di allargamento non produce in automatico miglioramenti nei Paesi interessati.
Finora «la strategia adottata ha consentito margini di manovra alla Russia», avvertono gli analisti europei del Carnegie endowment for international peace: a forza di fare richieste troppo pressanti in termini di governance, si rischia di perdere potenziali alleati e cederli a Mosca. «Ma occorre far capire alla Russia che non può impiantare un impero alla sua periferia», ribatte José Ignacio Torreblanca, direttore del progetto “Reinvention of Europe” dell’European council on foreign relations. «In questo senso il nuovo Alto rappresentante si è mosso bene, conciliando le diverse posizioni degli Stati membri e arrivando a una scelta comune». Ma le sanzioni, avverte la stessa lady Pesc Federica Mogherini, «sono efficaci all’interno di una strategia, non sono un fine in sé». Quale però sia la strategia, ancora non è chiaro. Che tipo di pericolo rappresenta Mosca? Da un lato la Polonia parla di «minaccia concreta che ha bisogno di una risposta “muscolosa”», dall’altro la Svezia per bocca del premier Kjell Stefan Löfven minimizza lo sconfinamento della Russia nel suo spazio aereo e marittimo. A chi dar retta? Di sicuro, lamenta Juncker, «troppi Stati membri dipendono da fonti energetiche concentrate a Est». Di conseguenza, finché la Ue non diventerà «il numero uno dell’energia rinnovabile» che Junker auspica, sarà bene tenerne conto nelle relazioni con il Cremlino.
Costruire partnership multilaterali per superare le crisi attuali e quelle future. Per molti questa è la strategia migliore su cui dovrebbe concentrarsi la nuova Commissione e il suo Alto rappresentante. Più che con gli Stati, dunque, l’approccio dovrà essere con le organizzazioni di cui fanno parte. In questo senso i primi passi di lady Pesc sono stati positivi, sostiene Torreblanca: «Mogherini ha spostato il suo ufficio nel palazzo della Commissione per lavorare con gli altri commissari. Sembra una cosa logica, ma con la signora Ashton non era così. È importante invece che l’Unione abbia un approccio globale a questioni globali e che queste vengano regolate dai commissari preposti». Ad Ankara, nelle scorse settimane, Mogherini è arrivata affiancata da due commissari. Ma non dovunque l’approccio funziona.
«Durante il pranzo, i ministri discuteranno la situazione in Libia». Così era scritto nel programma della riunione (il 15 dicembre scorso) del Consiglio Affari esteri della Ue. C’è da sperare che il pasto sia stato molto lungo e che i capi delle diplomazie europee siano arrivati a una conclusione concreta sulla “situazione in Libia”, peraltro determinata – anche, ma non solo – dalla fretta mostrata a suo tempo da alcuni Paesi europei. Un problema «per la sicurezza, per l’immigrazione irregolare e per le risorse energetiche», hanno sottolineato.
Negli ultimi mesi la Ue ha stretto una serie di accordi (persino riesumando la vecchia Unione per il Mediterraneo) per contrastare l’immigrazione via mare, che al 90 per cento ha come punto di partenza le coste libiche. Ma non ha una strategia per quello che riguarda il “nemico” reale, che per ora si chiama ancora Al Qaeda nel Maghreb islamico ma che si sta frantumando in fazioni sempre più propense ad allearsi con l’Esercito islamico. «La risposta deve essere politica», si ripete, ma nel frattempo alcuni Stati membri chiedono una opzione militare che gli Usa, è evidente, non garantiscono e che la Ue non ha i mezzi per garantire. Ma una presa di posizione forte sul Medioriente potrebbe arrivare con il voto sulla Palestina: un atto politico che Federica Mogherini sembra sostenere e che Juncker, ancora prima di essere Commissario, auspicava. «L’Europa farebbe anche un favore agli Stati Uniti», sostiene Torreblanca. «Washington non può fare alcuna pressione su Israele ma non disdegna che lo faccia Bruxelles, come nel gioco del poliziotto buono e del poliziotto cattivo. L’Unione può essere la leva attraverso la quale far capire a Netanyahu che per molti Paesi la pazienza è finita: inutile sostenere a parole una trattativa per la soluzione a due Stati se poi si crea una Nazione ebraica, che de facto ha chiuso i negoziati».