«E’ tutto un complotto», ha sbottato il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov alle Nazioni Unite. «L’obiettivo principale delle sanzioni occidentali è un rovesciamento di regime a Mosca!». La teoria della cospirazione è una costante della storia russa: dai tempi dello zar tutte le disgrazie del Paese vengono attribuite al volere di nemici esterni, sempre occidentali e possibilmente plutogiudaici massonici.
La colpa di Obama and friends, nel 2014, è quella di sostenere i “fascisti” ucraini, quelli che hanno rovesciato il filo russo Yanukovic e distrutto la sacra unione tra Kiev e Mosca. Ma in passato gli occidentali hanno complottato in mille altri modi: riconoscendo il Kosovo per favorire le dichiarazioni di indipendenza all’interno della Federazione Russa, sostenendo i “cattivi” ceceni per alimentare la disgregazione del Caucaso, aiutando la Georgia per minare i confini meridionali del Paese. Per non parlare di tutti quelle organizzazioni di infiltrati euro-americani che si fanno chiamare ong e poi invece di fare del bene ai diseredati si mettono a sostenere i sovversivi.
Le teorie del complotto hanno sempre fatto breccia nel cuore del popolo russo, anche perché l’Occidente ha fatto ben poco per smentirle. Dagli aiuti del finanziere Soros alle rivoluzioni arancioni allo sventolare i diritti umani solo quando serve vincere un negoziato, gli Usa non hanno mai brillato per coerenza. E la diffidenza partorita dalla guerra fredda non si è mai dissolta, tanto più quando i russi se la passano così male come quest’anno. A novembre 2014 un numero nefasto ha unito i tre vertici della crisi moscovita: 62. Sono gli anni che ha compiuto Putin, i dollari che costava un barile di petrolio e il valore di scambio di uno svalutatissimo rublo. E quando ci si mette anche la cabala a fare il gioco del nemico, il complotto plutogiudaico è servito.
La crisi ucraina ha buttato la Russia in ginocchio. Il 2014 si chiuderà con una crescita prossima allo zero e il 2015 sarà segnato dalla recessione. Americani e europei hanno “punito” i russi con sanzioni che hanno limitato l’accesso delle loro banche ai mercati occidentali e le importazioni di beni tecnologici. Mosca ha risposto con misure restrittive sull’agroalimentare europeo. Ed ecco che il valore del rublo ha cominciato a crollare e l’inflazione a salire. E per 144 milioni di cittadini russi gli smottamenti economici rievocano sempre lo stesso spettro: la crisi degli anni Novanta, quando la mala gestio della transizione tra comunismo e capitalismo ridusse alla fame la maggior parte della popolazione.
È stato Putin a risollevare il Paese con un paio di guerre in Cecenia e la nazionalizzazione di gas e petrolio, ottenuta tramite eliminazione degli oligarchi avversi. Ma oggi Putin non combatte contro i cattivi caucasici, oggi mina l’integrità territoriale di un vicino prezioso della Ue. E il mondo finanziario sa che l’Occidente non se ne starà a guardare. La fiducia degli investitori cala e le riserve russe non sono così elevate da garantire la stabilità del Paese di fronte a una crisi come quella del 2008. Eppure il presidente ha cercato di rassicurare i suoi elettori proprio sostenendo che la Russia ce la può fare da sola. Nel suo discorso alla nazione del 4 dicembre ha promesso che sosterrà il rublo e la piccola e media impresa facendo ricorso ai fondi di riserva, ha parlato di innovazione e persino di una timida liberalizzazione, ma non ha fornito dati certi né annunciato misure abbastanza drastiche da convincere i suoi concittadini. Allora ha provato a conquistarli promettendo di colpire i corrotti come se fossero traditori della patria, colpevoli di attentato alla sicurezza nazionale. Ma le sue parole suonano poco credibili a un popolo assuefatto alle bustarelle da un secolo.
E la sfiducia dei russi sembra confermata dai fatti: il 9 dicembre la Banca centrale è intervenuta per risollevare il rublo acquistando 4,5 miliardi di dollari, eppure la valuta russa ha continuato a crollare, scendendo addirittura a 54,25 rubli per dollaro. Il prezzo del petrolio scende e il costo di mantenere la Crimea a sale. Il presidente non sembra avere un piano B rispetto alla strategia di sempre: massicce esportazioni di risorse energetiche. E la sua debolezza emerge quando prospetta la collaborazione col nemico di sempre: gli Usa. Si tratta di lotta al terrorismo e alla diffusione del virus Ebola, ma anche di una nuova cooperazione per la crisi in Siria.