Il 2014 si sta chiudendo con il record assoluto di disoccupazione mai registrato in Italia: a ottobre abbiamo raggiunto 3 milioni e 400mila in cerca di lavoro. Non ci sono mai stati tanti disoccupati in questo Paese e tuttavia le cifre non bastano a descrivere la gravità della situazione. Il tasso di disoccupazione, che misura l’intensità del fenomeno, nel corso dell’anno ha toccato il 13,6 per cento, probabilmente il livello più elevato da quando si misura il dato viene misurato, considerando che i criteri sono diventati più selettivi e i disoccupati non sono tutti coloro a cui manca un lavoro (e un reddito), ma solo coloro che hanno compiuto un’azione di ricerca di lavoro nell’ultimo mese.
Se vogliamo dar loro una faccia, dobbiamo sapere che per oltre la metà sono uomini e che si tratta in larga prevalenza di persone adulte. A queste si aggiungono altre 2 milioni di persone che cercano un lavoro da tempo, ma che nell’ultimo mese non hanno effettuato una specifica azione di ricerca, per questo non sono classificate tra i disoccupati. Si tratta soprattutto di donne, anche loro in larga parte adulte. Non sono “scoraggiate”, come le definiscono le statistiche e i commentatori sbrigativi, non lo sono più di tanti altri in un Paese stremato da una crisi infinita e profonda. Sono semplicemente la dimostrazione che è impossibile cercare lavoro tutti i mesi per anni e anni e che da nessuna parte si trova scritto dove, come e quanto bisogna cercare un lavoro che non si trova.
Nel 2014 lo storico squilibrio territoriale italiano è cresciuto ulteriormente e sempre nella stessa direzione, cioè a svantaggio del Mezzogiorno, mentre la questione meridionale è stata cancellata dall’agenda politica e dalla riflessione pubblica non perché risolta ma per lasciare il posto a una questione settentrionale impellente. I dati indicano però che nel Sud ci sono 400mila disoccupati in più rispetto al Nord, benché vi siano 7 milioni di abitanti in meno. A livello nazionale, il tasso di occupazione nel 2014 è rimasto attorno al 55,5 per cento: significa che in media nel nostro Paese su 100 persone tra i 15 e i 64 anni quasi 45 non hanno un lavoro. Sono troppe le persone che non lavorano, troppe rispetto ai Paesi europei con cui solitamente ci confrontiamo, troppe rispetto all’esercizio universale della cittadinanza, troppe per il funzionamento di un sistema di welfare che garantisca istruzione, salute, previdenza e assistenza pubblica di qualità. Ci dicono infatti che non possiamo permetterci un welfare state universalistico, ma ciò che non dovremmo permettere – per molte ragioni, tra cui l’articolo 1 della Costituzione – è un’occupazione scarsa e sempre più precaria.
Le distanze tra Nord e Sud nei livelli di occupazione sono aumentate pur essendo già ampie e ormai il divario è diventato un abisso: nel 2014 nelle otto regioni del Nord il tasso di occupazione si è mantenuto vicino al 64 per cento, mentre nelle otto regioni del Sud non ha raggiunto neppure il 42 per cento: dietro queste cifre ci sono livelli di benessere economico e sociale molto distanti, che sembrano appartenere a Paesi diversi, perfino lontani. Ma bisogna considerare anche il genere per cogliere pienamente la dimensione delle disuguaglianze tra cittadini e cittadine: al Nord 72 uomini su 100 in età da lavoro hanno un’occupazione, al Sud non più di 53 su 100; al Nord lavorano quasi 57 donne su 100, al Sud non più di 30 su 100. Tra un uomo che vive in una regione del Nord e una donna che vive in una regione del Sud – dello stesso Paese – si sono consolidate opportunità di vita e destini lavorativi enormemente diseguali.
Entro la fine dell’anno quasi certamente si supererà il miliardo di ore richieste e autorizzate di cassa integrazione guadagni. Sarebbe il secondo anno di seguito e questo la dice lunga sulla persistenza delle difficoltà del sistema produttivo dell’Italia. Secondo le stime della Cgil, i lavoratori “a zero ore” sono circa 540mila e in meno di un anno avrebbero perso complessivamente 3 miliardi e 590 milioni di reddito al netto delle tasse, pari a 6.680 euro ciascuno. Se sottraessimo i “cassintegrati” dagli occupati, la base occupazionale si ridurrebbe ulteriormente. Se invece li sommassimo ai disoccupati segneremmo un record ineguagliabile per decenni. Il cosiddetto “posto fisso”, cioè il lavoro dipendente con contratto a tempo indeterminato e orario a tempo pieno di cui quasi l’intera classe politica invoca e prepara la fine da almeno un quarto di secolo, riguarda ormai solo poco più del 53 per cento degli occupati totali, mentre il lavoro a termine continua ad aumentare e sfiora l’11 per cento dell’occupazione complessiva. I lavoratori a tempo parziale (e a retribuzione e contribuzione parziale) sono ormai 4 milioni, per il 75 per cento donne, il 18 per cento degli occupati totali. Tra i lavoratori indipendenti, che in Italia sono più numerosi che altrove, pesa la quota di quelli pseudo-autonomi, occupati in collaborazioni e prestazioni d’opera più o meno occasionale.
Il 2014 finisce male: nessuna politica è proporzionata alla gravità della situazione descritta, e il Jobs act produrrà nuovi problemi e altri danni al lavoro.