Ovunque c’è un popolo che soffre, un popolo oppresso; ovunque si fa scempio dei diritti umani, ovunque i poveri, gli indifesi, vengono depredati da poteri corrotti e senza scrupoli. Ovunque una comunità rivendica libertà e giustizia, lui è dalla loro parte. È una vita dalla parte dei più deboli quella di Desmond Tutu, 84 anni, premio Nobel per la Pace 1984, assieme a Nelson Mandela, per la sua lotta contro il regime dell’apartheid. Primo arcivescovo nero di Città del Capo, tra gli altri riconoscimenti internazionali ha ricevuto il premio Albert Schweitzer per l’Umanitarismo nel 1986; il premio “Pacem in Terris” nel 1987; il premio per la Pace di Sydney nel 1999; il premio per la Pace Gandhi nel 2007; la Medaglia presidenziale per la Libertà (Usa) nel 2009 e il premio Templeton nel 2013. Tutu è da sempre sostenitore del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.
E oggi, in un Medio Oriente in fiamme e con il terrorismo qaedista che colpisce nel cuore dell’Europa con l’“11 settembre” francese, acquista ancor più valore, ciò da lui più volte ribadito pubblicamente: «Noi ci opponiamo all’ingiustizia dell’occupazione illegale della Palestina. Noi ci opponiamo alle uccisioni indiscriminate a Gaza. Noi ci opponiamo all’indegno trattamento dei palestinesi ai checkpoint e ai posti di blocco. Noi ci opponiamo alla violenza da chiunque sia perpetrata. Ma non ci opponiamo agli ebrei». Nel sostenere la campagna internazionale per il boicottaggio economico d’Israele, Tutu ha affermato: «Chi continua nei propri affari economici con Israele, contribuisce a perpetuare uno status quo assolutamente ingiusto. Coloro i quali contribuiscono al temporaneo isolamento di Israele stanno affermando che tanto gli israeliani quanto i palestinesi hanno lo stesso diritto a dignità e pace».
Per le sue prese di posizioni a sostegno dei diritti del popolo palestinese, Lei è ritenuto dai falchi israeliani un nemico dello Stato ebraico.
Trovo profondamente ingiusta questa accusa che provoca in me un sentimento di dolore. Per mia fortuna, posso annoverare tra i miei più cari amici persone di fede ebraica. E così vale per tanti cittadini israeliani. Io non ho mai messo in discussione il diritto di Israele a vivere all’interno di frontiere sicure. Ma questo non giustifica ciò che Israele ha fatto e continua a fare a un altro popolo per garantire la propria esistenza. Le mie visite in Terrasanta sono state per me un viaggio nel passato, un doloroso viaggio nella memoria, nel dolore. Ha riaperto antiche ferite. Nell’umiliazione dei palestinesi ai check point ho rivisto ciò che noi neri provavamo in Sudafrica quando un ufficiale ti impediva di passare. Un’umiliazione sistematica, quella praticata da membri delle forze di sicurezza israeliane, che non risparmia neanche le donne e i bambini. Ho visto madri pregare inutilmente per potersi recare in un villaggio vicino per poter assistere gli anziani genitori impossibilitati a muoversi. Quei check point, assieme al Muro, isolano villaggi, spezzano comunità; quei check point sono l’espressione di un dominio che segna la quotidianità di decine di migliaia di palestinesi. Li prostra, li umilia. Essi mi riportano indietro nel tempo, al Sudafrica dell’apartheid. Ai miei amici israeliani ed ebrei non mi stancherò di ripetere che Israele non potrà mai ottenere la sicurezza attraverso le recinzioni, i muri, i fucili. La sicurezza potrà essere realizzata solo quando i diritti umani di tutti saranno riconosciuti e rispettati. È una lezione della storia che viene dal mio Paese, il Sudafrica.
Le autorità israeliane ribatterebbero che loro esercitano il diritto di difesa…
In passato, anche recente, ho condannato chi in Palestina è responsabili dei lanci di missili e razzi su Israele. Costoro non fanno altro che alimentare il fuoco dell’odio e rafforzare gli estremisti che usano strumentalmente la causa palestinese per propagandare odio e seminare terrore. Io sono contro ogni forma di violenza. Ma occorre essere chiari, il popolo di Palestina ha tutto il diritto di lottare per la propria dignità e libertà. Penso alle sofferenze inflitte alla popolazione di Gaza, non solo con le armi ma anche con l’embargo che dura ormai da anni, una punizione collettiva contraria non solo al Diritto umanitario ma anche alla Convenzione di Ginevra. Penso al Muro in Cisgiordania, alle terre espropriate ai palestinesi per costruire insediamenti o ampliare il Muro. Lo Stato d’Israele agisce come se non esistesse un domani. Ma non esiste una sicurezza fondata sulla sofferenza inflitta quotidianamente a un altro popolo.
Una lezione che i Grandi della Terra sembrano non avere inteso. Cosa si sente di dir loro?
A loro, ma anche a ciascuno di noi, perché ognuno nel proprio ambito è padrone dei suoi atti e dei suoi silenzi, direi che chiudere gli occhi di fronte a ingiustizie come quelle perpetrate verso il popolo palestinese, vuol dire essere corresponsabili di quelle ingiustizie. Non agendo hanno scelto di stare dalla parte dell’oppressore. Oggi si torna ad agitare lo spettro della guerra al terrorismo. Una guerra che tutto giustificherebbe, anche l’uso sistematico della tortura. Ma la guerra al terrorismo non sarà mai vinta se continueranno a esserci persone, in ogni angolo della terra, pronte a commettere atti disperati a causa della povertà, della malattia e dell’ignoranza.
Vorrei restare sul tema dell’uso della tortura nella lotta al terrorismo. Lei è stato promotore, assieme ad altri 11 Nobel per la Pace, di un appello al presidente Obama su questo delicatissimo tema.
Va dato merito al presidente Obama di aver ammesso che gli Stati Uniti hanno fatto uso di tecniche di tortura negli interrogatori di presunti terroristi. Questa ammissione rappresenta il primo passo verso la fine di uno dei capitoli più tristi e inquietanti nella storia degli Stati Uniti. Ma la trasparenza da sola non basta. Vanno perseguiti i responsabili di quegli atti, così come il presidente Obama deve dar seguito alla promessa, finora inevasa, della chiusura di Guantanamo. Questo è un obbligo che l’America ha verso il mondo. Perché il suo cattivo esempio è stato utilizzato per giustificare l’uso della tortura dai regimi di tutto il mondo: se lo fa l’America perché non possiamo farlo anche noi? La tortura è sempre e comunque un atto spregevole, diabolico, ingiustificabile, contro cui è un dovere, oltre che un diritto, ribellarsi. Non c’è niente di peggio che rassegnarsi alle ingiustizie. Questi sono giorni di letizia e di festa per i cristiani nel mondo. Ma anche in questi momenti, bisogna chiedersi come si possa israeliano fare a credere in un messaggio così rivoluzionario come il Vangelo e restare indifferenti di fronte al dramma della povertà, della fame e della miseria, che investe centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. La speranza non deve abbandonarci mai, ma a essa deve accompagnarsi la determinazione ad agire per dare un senso concreto a parole come giustizia, fratellanza, solidarietà. E non c’è niente di più educativo che ascoltare la voce dei poveri.
Il Summit mondiale dei Nobel per la Pace svoltosi dal 12 al 14 dicembre scorsi a Roma, è stato dedicato a Nelson Mandela, a un anno dalla sua scomparsa. Se c’è un uomo che può rinverdirne la memoria, questo indubbiamente è Lei. Cosa ha reso davvero grande Nelson Mandela?
Vede, non sono pochi nella Storia a essere ricordati come vincitori. C’è chi ha condotto rivoluzioni, chi ha sconfitto il nemico sul campo. Ma in pochi hanno saputo coniugare vittoria e giustizia. Nelson è tra questi pochi. Per questo, soprattutto per questo, è stato un grande. Non solo per come ha combattuto ma per come ha saputo vincere. Con lo spirito di giustizia, mai di vendetta. Non è da tutti riuscire ad essere, nell’arco di una vita, il leader amato, osannato di un movimento di rivolta e, successivamente, a essere visto, accettato, come il presidente di tutti i sudafricani, al di là del colore della pelle, dell’appartenenza etnica o religiosa. Nelson Mandela c’è riuscito. Con Madiba non ho condiviso solo la lotta contro il regime dell’apartheid. Ciò che ci ha ancor più legati è stata l’idea, dalla quale è nata “La Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana (istituita dall’allora primo ministro Nelson Mandela nel 1995, che operò dal 1996 al 1998, oggi presieduta da Tutu, ndr) è che fare giustizia significa risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare le vittime quanto i criminali, ai quali va data la possibilità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso. La riconciliazione non è qualcosa che ti mette comodo, non ti permette di fare finta che le cose siano diverse da come sono, la riconciliazione basata sulla falsità o sulla mistificazione della realtà non è vera riconciliazione e non può durare. Sono sempre stato convinto, e ciò non vale solo per il Sudafrica, che senza perdono non c’è futuro.