Tutto scorre. L’universo politico e comunicativo di Matteo Renzi è fluido, scivola via veloce, inafferrabile, cambia forma a seconda del recipiente da riempire, sa travolgere gli avversari con la violenza di uno tsunami. Soprattutto, nel grande mare renziano, tutto si mescola in un magma unico, una grande poltiglia che, come un prodotto di marketing, tenta di accontentare il più vasto pubblico possibile. Almeno a parole.
Da Barack Obama a Lorenzo il Magnifico, dai boy scout a Twitter, da Google a Steve Jobs, Matteo è il nuovo premier contemporaneo. Nel Brand Renzi, come spiega Nello Barile, professore di Comunicazione e Pubblicità allo Iulm, «prosegue il progetto comunicativo berlusconiano nel suo essere un mix dirompente tra spontaneismo e pianificazione, concretezza e speranza, tra vita quotidiana e marketing». Il mondo incantato di Matteo, infarcito di futuri dove tutto cambia e presenti costellati da svolte buone e traguardi storici – perché il rottamatore arriva sempre primus, non troppo inter pares -, è caratterizzato da luoghi comuni che gli permettono di fare breccia nel cuore dell’italiano medio. Oltre che in quello di finanzieri e imprenditori pronti a investire, in Leopolde e cene da 1.000 euro, ora che con l’ex sindaco di Firenze hanno trovato il prodotto vincente.
Parola di boy scout
L’attuale presidente del Consiglio ci tiene molto a ricordare il suo passato in bermuda e fazzolettone. «Il mito del boy scout rappresenta un immaginario pop facilmente comprensibile da gran parte del suo elettorato» spiega ancora Barile, quello di un mondo cattolico lontano dai giochi di potere che Renzi ama chiamare, con un tono da Piccolo mondo antico: «L’Italia per bene». «Lascia il mondo migliore di come lo hai trovato», «dare un calcio all’impossibile », sono solo alcune delle massime da retorica motivazionale dello scoutismo. Il premier le riutilizza spesso per dare forza ai suoi discorsi e connotarsi come l’outsider, rottamatore genuino e dunque affidabile. L’altra faccia dell’Agesci è però quella di un’organizzazione dove esiste una rigida gerarchia di comando e si insegna a diventare leader di un gruppo. Un gruppo chiuso però. Chi non rispetta le regole è invitato a uscire. Insomma quelli che non la pensano come te sono per forza gufi.
Firenze culla dell’Italia
Da sindaco di Firenze a sindaco d’Italia, Renzi gioca sullo stereotipo del Bel Paese di cui il capoluogo toscano è un simbolo indiscusso. Dalla Merkel in Germania arriva con una maglia della Fiorentina, a Digital Venice parla un inglese maccheronico ed è sempre il momento buono per sfoderare un orgoglio patriottico da cartolina, o da piccolo amministratore, che lo rende provinciale. D’altronde l’Italia è per la maggior parte provincia e la retorica di Matteo fatta di «abbiamo la grande occasione di cambiare il paese più bello del mondo» è il corollario perfetto del teorema dell’elettore mediano con cui si acchiappano la maggior parte dei voti. Non è strano dunque che ci ricordi il Berlusconi del 1994 con il leit motiv «L’Italia è il Paese che amo». O che The Economist l’abbia raffigurato con in mano un cono gelato, gelato che poi “il Renzi”, per rispondere alla testata inglese, ha ben pensato di offrire, rigorosamente brandizzato, ai giornalisti riuniti a Chigi in conferenza stampa.
Tutto cambia
La cifra del renzismo è il mutamento, «il tempo del cambiamento». Il premier è “il più giovane della storia repubblicana”, si fa chiamare Matteo e si rivolge a tutti per nome, twitta alle 6.45 del mattino, corre e, sempre twittando, ci dice #arrivoarrivo. Inoltre è cool, un “fico” che si veste come Fonzie – giubbotto di pelle e wayfarer in bocca – o completi griffati Scervino. In quasi tutti i suoi discorsi utilizza la parola futuro o afferma che «per l’Italia è un momento storico ». Per dirla con Bauman è un premier “liquido” e, come tale, per natura fisica privo di una forma politica univoca. Le larghe, larghissime, intese diventano la logica conseguenza di una natura dilagante alla ricerca del consenso. Il cambiamento renziano ha come guida la Speranza, spesso personalizzata. «Il principio della speranza professato da Renzi ha in sé qualcosa di paradossale e per questo forse di ancor più convincente. Si tratta di un principio estremamente utopico che intende scagliarsi contro i mulini a vento di uno stato tendenzialmente non riformabile» spiega sempre Barile e continua: «La speranza che irrora la vision renziana è un’operazione di time design. Mira a ridisegnare il presente attraverso l’invenzionecontinua del suo cronoprogramma».
Diventare pop guardando la tv
Se Berlusconi con le sue tv ha costruito la carriera di un ventennio politico, interpretando e plasmando come editore i gusti degli italiani, Renzi si avvicina ancora di più al pubblico generalista perché, mentre il Cavaliere popolava i talkshow dietro le telecamere, lui era seduto con noi sul divano davanti allo schermo a guardare Happy day, Drive in e La ruota della fortuna in cui ha anche assaporato i suoi primi 15 wharoliani minuti di celebrità. Il premier è pop perché gioca sul background culturale della maggior parte degli italiani – tanto andare da Maria De Filippi ad Amici – e parla con lo stesso linguaggio, fatto di stereotipi e opposizioni, dei programmi tv. Ci sono i buoni e i cattivi, i brutti e i belli. Se per Berlusconi l’uso delle televisioni era associato all’abuso dei sondaggi, Renzi al piccolo schermo unisce i social. E rompe la quarta parete della propaganda interagendo con noi su Twitter con l’immancabile hashtag #matteorisponde.
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