È notizia di questi giorni l’annuncio da parte della senatrice Puglisi, responsabile Università della segreteria nazionale del Partito democratico, delle linee guida che ispireranno la Buona università, la nuova riforma che, da qualche mese, è nelle intenzioni del Governo. Maggiore autonomia, contratto a tutele crescenti sul modello del Jobs act anche in università ed interventi sul diritto allo studio sembrano essere i cardini di questa nuova riforma, che ha come fulcro un inasprimento dei criteri di merito al fine di chiarire definitivamente, come dichiarato da Matteo Renzi, che in Italia ci sono atenei di serie A e serie B. Un sistema, dunque, che vede contrapposte le cosiddette eccellenze ad atenei piccoli e poco produttivi.
Questi annunci seguono a diversi articoli pubblicati sulla stampa nazionale che attaccano i tanti difetti che ha l’università italiana. Chi si occupa di istruzione e università come me, sa bene che la massiccia propaganda operata da una certa componente dei media è servita in passato solo a legittimare provvedimenti che hanno ridotto i finanziamenti, distrutto gli atenei in termini di qualità della didattica e della ricerca e reso sempre più precaria una generazione escludendo migliaia di ragazzi dalla possibilità di frequentare l’università. Basta chiedere al mio vicino di casa, o ai miei parenti e scoprire che tutti pensano che gli atenei siano una zona franca da ogni idea di valutazione, costellata di nepotismo. Sebbene sia innegabile che anche nell’Università, come in ogni ambito, esistano questi fenomeni, trovo che sia sbagliato sparare nel mucchio, anche e soprattutto perché, ad un’analisi più attenta, si nota come le leggi, la Riforma Gelmini su tutte, promosse in questi anni, hanno paradossalmente rafforzato baroni e rettori, che dispongono oggi di un elevatissimo potere, soprattutto sul futuro di migliaia di giovani ricercatori.
Secondo l’indagine “Ricercarsi” del 2014 della FLC CGIL solo il 6,7% di dottorandi, assegnisti e precari vengono assunti nell’Università, dato che dimostra come le politiche messe in atto in questi anni, un obiettivo lo hanno raggiunto: escludere migliaia di giovani dalla possibilità di immaginarsi un futuro nel mondo della ricerca. Oramai esiste e lavora nei nostri atenei una massa di ricercatori con le più svariate forme contrattuali, sottoposti ad una situazione di costante precarietà e ricattabilità. Tale situazione appare ancor più grave alla luce del DM 194, emanato la settimana scorsa, che ha di fatto sancito che per soddisfare i vincoli di accreditamento le università possono fare uso di docenti a contratto, dimostrazione di come il Ministero si accontenti di tappare i buchi di una situazione disastrosa sfruttando la piaga del precariato che ormai affligge i nostri atenei.
Altro dato drammatico riguarda gli studenti: negli ultimi 10 anni, sono calate le immatricolazioni all’università del 23%. Come mai? I motivi sono molteplici. Innanzitutto solo in Italia esiste la particolare figura dell’idoneo non beneficiario: uno studente che ha tutte le caratteristiche per ricevere la borsa di studio ma a causa della mancanza di fondi non ne può usufruire; in secondo luogo, l’aumento generalizzato delle tasse universitarie, cresciute di oltre il 70% negli ultimi 10 anni; ed infine il moltiplicarsi dei corsi a numero chiuso, ormai la maggioranza di quelli presenti in università, nega la possibilità di accesso per migliaia di studenti. Queste sono le cause dell’esodo che sta avvenendo nelle nostre università.
È stata descritta in tanti modi e non credo servano altre definizioni, ma è ormai palese che ci troviamo di fronte ad una o più generazioni escluse. Escluse dalla possibilità di accedere ai più alti livelli della formazione, escluse dalla possibilità di realizzare le proprie aspirazioni professionali, escluse dalla possibilità di mettere a frutto il proprio sapere per il miglioramento della società.
Questa condizione è frutto di politiche nel campo dell’istruzione e del mercato del lavoro, il cui obiettivo è sostituire una coscienza collettiva basata sulla stabilità delle prospettiva di vita, con una individualità che accetta la condizione di precarietà esistenziale, la quale rende anche i rapporti umani e personali più fragili. Un’operazione però che non è solo a danno di migliaia di giovani, ma che sta rendendo questo Paese sempre più povero, non solo economicamente, ma soprattutto di idee, di innovazione, incapace di una via di uscita dalla crisi economica che passi attraverso la completa revisione di questo modello sociale e di sviluppo.
È ormai necessario rimettere in campo una discussione, un percorso di partecipazione fuori e dentro l’università tra studenti, precari, docenti che vivono tutti i giorni i nostri atenei che sia capace di immaginare un’idea nuova di Università e di Sapere che mettano al centro il diritto di accedere all’istruzione terziaria e un investimento nella ricerca volto a combattere la precarietà che affligge quel mondo e nell’ottica di una cambiamento culturale che guardi più in generale al futuro di tutto il Paese. Guardiamo con interesse alle pratiche e idee che provengono dalle occupazioni di diversi atenei nel mondo, dalla London School Economics all’Università di Amsterdam, Toronto e molte altre che rivendicano il rifiuto del profilo verticale e manageriale replicato nel mondo accademico, frutto del tentativo di trasferire dal mondo del lavoro i perversi meccanismi di competitività e meritocrazia, e la necessità di nuove politiche di investimento nell’istruzione. Facciamo nostre queste parole d’ordine, pronti a costruire un percorso partecipato che le contrapponga a qualsiasi atto volto a rendere ancora più elitari e precari i luoghi della formazione.
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