I Negrita sono cinque vecchi amici di scuola e di passioni, il loro nome è un omaggio agli Stones. La band nasce ad Arezzo con la voglia di uscire dalla provincia. E quella provincia la superano presto, con l’album XXX (1997), con la celebre “Ho imparato a sognare”, passando per L’uomo sogna di volare (2005), album realizzato in America Latina. Acclamati con “Mama maé”, già convincenti in “Cambio”, dall’omonimo primo album, sentimentali nella cosmica “In ogni atomo”, sfoderano rabbia nell’album Dannato vivere. Genuini, tra il sanguigno e il melodico, il rock è la loro prerogativa. Tornano nella Hollywood aretina per ripartire. Oggi sono tre: Pau, Paolo Bruni, la voce, Drigo, al secolo Enrico Salvi, e Mac, Cesare Petricich, le due vibranti chitarre. 9 è il loro nono e ultimo lavoro, il loro primo da quando la formazione è composta dai tre. Il passato è un trionfo di vita vissuta, il presente è una ridda di sentimenti, senza tralasciare politica e impegno sociale. Tra i testi, oltre al radiofonico “Il gioco”, il mordace “Poser” e una ballata, “Se sei l’amore”. Liberi e ancestrali, il loro ritmo umano si snocciola in tredici nuovissimi brani. I Negrita solcheranno nuovamente il palco, a partire dal 10 aprile a Firenze, al Mandela Forum, continuando poi per un fitto tour italiano. Qui Pau, frontman dei Negrita, ci racconta la loro nuova avventura artistica.
Nuovo album, nuova formazione. Cos’è cambiato?
Siamo rimasti in tre, abbiamo cercato di ricreare quello che era lo spirito originario. Ti rimbocchi le maniche e riparti quasi da zero, con tutto il background che ti porti dietro. Ci siamo organizzati per ricreare una vera band, ci siamo approcciati al lavoro in sei, con un batterista, un bassista e un tastierista, mai avuto nell’organico.
Come è stato concepito il nuovo lavoro?
Nel 2014 siamo stati coinvolti nel progetto Jesus Christ Superstar, un musical emozionante. La band si è occupata della musica, io invece interpretavo Ponzio Pilato. Durante le rappresentazioni al Sistina di Roma, lavoravo ai primi spunti del disco; abbiamo affittato uno studio per cominciare a elaborare queste mie idee, poi sono arrivate quelle degli altri. Siamo tornati ad Arezzo, per la messa a punto dei pezzi, che, una volta pronti, sono stati portati in Irlanda, in uno studio galattico, per la registrazione, per poi terminare con la masterizzazione a New York, allo Sterling Sound.
Nell’album sembra che vogliate denunciare
un Paese per vecchi. È davvero così?
Questo è un Paese di vecchi, che non si rinnova, gestito da generazioni che non hanno più il polso della situazione. Basta guardare la televisione, sono anni che non riesco a seguire più i canali tradizionali, perché ci sono trasmissioni viste e riviste. Mentre il mondo, invece, si dirige verso un uso dei media completamente differente.
E i talent show riesci a seguirli?
Sui talent ho un’opinione da spettatore. Il mondo che conoscevo io non esiste più. O meglio, di band, di artisti che cercano di farsi strada nell’underground ce ne sono, ma non esistono più i canali. Mi piacerebbe che ci fosse un’alternativa, ma mi rendo conto che le case discografiche in questo momento, hanno preso atto del potere della tv e si sono appoggiate a questo trend. In “Poser” abbiamo ironizzato su quelli che sono i tic di questa società contemporanea, che si ritrova spesso davanti a un monitor, anche quello di uno smartphone, ma rimane incastrata nel meccanismo.
Stare con una major può limitare gli artisti?
Negli anni Novanta la mia generazione è riuscita a produrre tante proposte musicali, che hanno trovato spazio nelle major. Noi, tra i pochi rimasti di quegli anni, siamo rimasti a un buon livello senza ricevere mai pressioni. Siamo ancora una proposta diversa, come lo eravamo nel ’94, abbiamo sempre avuto una certa filosofia, possiamo confrontarci sulla scelta di un singolo, ma i direttori artistici hanno sempre apprezzato e sponsorizzato la fantasia dei Negrita.
Non ti definisci “poser”, infatti. Ma canti “I’m a loser”: perché?
Per lo stesso motivo: se non stai dentro il sistema che cercano di importi, rischi di essere out, quindi un perdente. Nel testo “I’m a loser” è usato per dire: va bene, mi adeguo, sono tranquillamente un perdente… ma lo dico dalla posizione di uno che sta per iniziare un tour di concerti, quindi mi va bene.
C’è anche una traccia del passato nell’ultimo lavoro, il brano “1989”, giusto?
Sì, sono ricordi romantici di ex ragazzi. Era rimasto nel cassetto, scartato per motivi stilistici dal disco L’uomo sogna di volare. È tornato fuori l’anno scorso, riprendendolo ci siamo resi conto che era un pezzo bello, le atmosfere ci hanno riportato ai nostri vent’anni, quando guardavamo il mondo con la meraviglia, con la voglia di scoprire, di viaggiare. Abbiamo voluto raccontare quel periodo, anche con i fatti storici del momento, come il crollo del muro di Berlino. Ci sembrava bello riscriverne per far capire, soprattutto a chi ha iniziato a seguirci da poco, da dove arriviamo.
Infine, l’amore. Cosa volete dirci con “Se sei l’amore”?
La canzone si riferisce all’amore che dovrebbe essere un faro conduttore dell’umanità. Alcuni l’hanno interpretata come una preghiera, ma è il contrario, in realtà è rivolta all’uomo, alla bontà dell’uomo stesso. Un tema che ho sviscerato con tutta la disillusione dei miei 47 anni, quando ti rendi conto che la situazione, nella cronaca mondiale, è distante da un’entità, diciamo, amorosa. Questa cosa ti fa male, soprattutto quando cerchi di crescere un figlio in un mondo come questo. Nel brano parlo con l’amore, che ci può salvare.
Cosa servirebbe per una rinascita culturale e umana?
La situazione politica è stagnante… se arrivasse un leader illuminato, gli farei un monumento! Ma prima di tutto dobbiamo cambiare noi. Siamo un popolo che si lamenta, invece di rimboccarsi le maniche, pur avendo un’energia superiore alla media.