Quando parliamo di istruzione, non stiamo trattando una questione corporativa, né di un conflitto sindacale. In gioco c’è uno dei pilastri della nostra Repubblica. Per questo, prima di qualunque azione nel sistema educativo, bisogna meditare sulle conseguenze a lungo termine. Invece, lo stile del presidente del Consiglio è stato più o meno quello di un elefante in una cristalleria. Un ddl sofferto perfino nella redazione che, nonostante la propaganda su una fantomatica consultazione pubblica, non ha tenuto conto delle numerosissime critiche avanzate sugli aspetti organizzativi e pedagogici. Se aggiungiamo il fatto che su assunzioni e disciplina contrattuale non c’è stato il coinvolgimento delle parti sociali, possiamo concludere che il dialogo è stato pari a zero.
Venendo al testo: è il compimento dell’opera iniziata dalla Gelmini senza sporcarsi neanche la punta delle dita. Gli interventi più consistenti hanno riguardato gli artt.1 e 2, che definiscono i compiti della scuola e i suoi doveri nei confronti della società. Qui si sono sbizzarriti, precisando con grande abbondanza tutte le discipline che ricadranno sul sistema d’istruzione: lingua italiana agli stranieri, lingue straniere, diritto, pace, dialogo interculturale, educazione all’autoimprenditorialità e al risparmio… Chi più ne ha più ne metta: con interlocutori di ogni tipo, Camere di Commercio, Università, cooperative sociali, musei, qualunque cosa si muova sul territorio nel pubblico e nel privato. Magnifico. Tutto a costo zero. Infatti puntuale arriva la formuletta: senza oneri aggiuntivi per lo Stato, senza variazioni di costi, nei limiti delle risorse disponibili.
In compenso, sono penetrati nel testo qua e là i segnacoli d’interessi molto specifici: equipollenza alle lauree di istituzioni che non sono Università, coinvolgimento di cooperative, tutele e riconoscimenti speciali a quelle fondazioni che sono la testa di ponte della nuova visione privatistica dell’istruzione. Restano alcuni nodi che fanno saltare sulla sedia tra cui quello sul dirigente scolastico che continua a scegliere gli insegnanti. Insanabile è il concetto di fondo, ovvero che il corpo docenti, per la Costituzione, non lavora per il progetto discrezionale di un singolo, ma per il valore nazionale dell’istruzione e dell’educazione, nella varietà, nel senso critico, nella laicità.
Il paradosso è che i dirigenti diventano autonomi nella scelta dei loro insegnanti, ma loro sono selezionati e assegnati alle scuole in una trafila che è tutta politica, che passa dal ministro, attraverso la catena dei dirigenti dipendenti dalle nomine governative, dal Miur agli uffici scolastici regionali e provinciali. Una selezione che riproduce il peggio della tradizione italica. Basta vedere cosa è successo negli ultimi concorsi: una serie di contenziosi infiniti dalla Lombardia alla Campania, graduatorie annullate, commissari che hanno esaminato mogli…
C’è poi la valutazione del merito dei singoli docenti. L’art.11 che lo istituisce lo fa in modo alquanto sibillino. Infatti, se al Ds è stato affiancato un comitato di valutazione, resta intatto il problema di come e quanti valuteranno. Né si accoglie l’idea che nella scuola non esiste il merito individuale, ma l’azione è efficace solo se è collegiale e condivisa tra tutti, studenti e famiglie compresi. Insomma, nella scuola si sta consumando la distruzione del concetto dei diritti. E quando il diritto diventa qualche cosa che solo chi ha i soldi può farsi riconoscere, vuol dire che abbiamo perso tutti.
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*senatrice Gruppo misto, prima firmataria della Lip (legge di iniziativa popolare per la Buona scuola della Repubblica)