Franco Lorenzoni, maestro elementare, ha scritto il libro I bambini pensano grande (Sellerio). Left lo ha intervistato sulla riforma della Buona scuola, appena approvata alla Camera.
Maestro Lorenzoni, il ddl 2994 Buona scuola servirà a eliminare la disuguaglianza che esiste nel sistema scolastico italiano?
Io credo che la scuola, oggi, più che di un’ennesima malariforma raffazzonata abbia bisogno di formazione, di tanta formazione di qualità, che sia soprattutto autoformazione. Per provare ad innovare credo che la via maestra dovrebbe essere quella di dare spazio e respiro alle buone pratiche portate avanti da insegnanti impegnati e persuasi che, giorno dopo giorno, propongono a bambini e ragazzi una didattica che prova ad includere davvero tutti. Se fossimo un paese serio, più che di riforme improvvisate, di cui la scuola non ne può più, dovremmo attivare un lungo e radicale processo riformatore della durata di minimo 10 anni, in cui pezzo a pezzo ripensare tutto il sistema di istruzione a partire dalla didattica, che è il fulcro di ogni azione educativa. Ma per attivare questo processo virtuoso e moltiplicare le sperimentazioni sul campo che una minoranza di insegnanti conducono con tenacia, il principale ostacolo è mettere i docenti gli uni contro gli altri, che sembra la conseguenza principale a cui porteranno i veleni contenuti nel pessimo disegno di legge uscito dalla Camera dei deputati. Se esaminiamo con attenzione i dati delle indagini più attendibili, si scopre che le scuole che funzionano meglio sono quelle in cui c’è maggiore collaborazione tra docenti, in cui un buon numero di insegnanti riescono a lavorare in gruppo costruendo a fatica frammenti significativi di quella comunità docente, che è fattore indispensabile per tentare un rinnovamento radicale della didattica, di cui tutte le scuole hanno fortemente bisogno. Il problema è che questa formazione continua in servizio dovrebbe portare, poco a poco, a dare vita a gruppi di ricerca e sperimentazione, perché nella scuola, per lavorare bene e rispondere con efficacia ai tanti bisogni sociali che premono dal territorio, si devono condividere le difficoltà e lavorare in gruppo. Da soli non ce la si fa. Del resto non è un mistero che i segmenti di scuola che funzionano meglio sono le scuole dell’infanzia e le primarie, dove c’è maggiore scambio e collaborazione tra i docenti, mentre quelle che sono in maggiori difficoltà sono le scuole secondarie di 1° e 2° grado, dove i professori lavorano generalmente nel più assoluto isolamento.
A questo proposito penso dovremmo avere più coraggio e immaginare ad esempio, negli Istituti Comprensivi che ormai si sono diffusi ovunque e raggruppano scuole dell’infanzia, elementari e medie, osare cambiare gli orari di lavoro e prevedere, in tutti e tre gli ordini, ore settimanali di programmazione, che attualmente ci sono solo nella primaria. Naturalmente adeguando proporzionalmente i salari.
Ma per far questo credo che noi insegnanti, oltre ad opporci e lottare contro i danni che porterà la sedicente “Buona scuola”, come è giusto fare, dovremmo farci uno spietato esame di coscienza e domandarci quanto riusciamo, come singoli e come categoria, a rendere le nostre scuole capaci di attenuare le tante discriminazioni che crescono nella società perché la scuola, se non è meglio della società che la circonda, cosa ci sta a fare?
Che impressione ha dell’operato di Matteo Renzi?
Quando Renzi presentò il suo governo sostenendo che la scuola era una priorità, in molti si è sperato che provasse a fare la prima cosa che un capo di governo dovrebbe fare occupandosi in prima persona di scuola, cioè cominciare a destinare una quota più alta della spesa pubblica alla pubblica istruzione, visto che siamo il 21esimo Paese in Europa e investiamo in istruzione poco più della metà di ciò che investono i Paesi del nord. Purtroppo assai presto si è capito che era pura retorica truffaldina, che spacciava per nuove assunzioni l’obbligatorio consolidamento di una parte dei precari richiesto dall’Europa e, per il resto, proponeva una serie di misure parziali e contraddittorie, senza alcuna visione di insieme. Il gruppo di esperti che ha concepito la Buona scuola sembra avere una unica ossessione: quella di introdurre il merito come elemento di divisione tra i docenti, con proposte del tutto discutibili. Chi abita le scuole sa bene che ci sono insegnanti che lavorano di più: preparano materiali, promuovono progetti, aprono la scuola all’esterno, innovano la didattica sperimentando nuove strade. Il modo migliore di premiarli, a mio avviso, dovrebbe essere quello di pagarli di più per le ore aggiuntive che fanno e poi – cosa assai più importante – dare loro la possibilità di condividere ciò che di buono stanno sperimentando, coordinando e guidando momenti di formazione rivolti ai colleghi, in particolare i nuovi che arriveranno nei prossimi anni in grandi numeri, perché in Italia abbiamo il corpo docente tra più anziani d’Europa e, nei prossimi 15 anni, circa la metà degli insegnanti attualmente in servizio andranno in pensione. Per questa attività di autoformazione interna naturalmente dovrebbero essere pagati. Per il resto la Buona scuola prevede qualche ora in più di arte, musica, ginnastica, inglese e forse l’introduzione di una improbabile educazione alimentare, senza domandarsi, ad esempio, perché la storia dell’arte non potrebbe e dovrebbe intrecciarsi in modo assai più interessante e proficuo con l’insegnamento della storia, che da molti punti di vista dovrebbe essere rivisto radicalmente.
Viene molta rabbia quando si vede che il tema che maggiormente manca nel progetto della Buona scuola è quello dell’inclusione, assolutamente prioritaria in una scuola come la nostra, che ha ancora tassi di dispersione scolastica impressionanti e porta solo un ragazzo su cinque ad iscriversi all’Università.
I nostri piccoli tecnocrati che lavorano intorno alla trasparente Giannini sono digiuni di scuola e si muovono con superficiale arroganza. Non hanno infatti avuto alcuna curiosità di conoscere e incontrare ciò che realmente si prova a fare nelle scuole. Si sono limitati a citare la Montessori, Don Milani e Malaguzzi, senza darsi la pena di ragionare su ciò che quelle pratiche indicavano, cioè un’idea di scuola aperta e capace di prendersi cura davvero di tutti, difficilissima da realizzare.
Che cosa pensa dei premi in denaro per i docenti più bravi valutati dal preside e dal suo staff?
La questione è stata impostata nel peggiore dei modi fin dall’inizio, quando è venuta fuori l’incredibile proposta che voleva premiare il merito degli insegnanti a costo zero, sbagliando sia nel merito che nella forma. Il cattivo maestro che regala caramelle per premiare i bambini migliori compie un atto assai discutibile educativamente. Ma se, per donarle ai migliori, arriva a rubarle ai bambini che ritiene più somari, non solo compie una palese ingiustizia, ma scatena una guerra tra i bambini. Ecco, questo era ciò che proponeva il primo documento della Buona scuola, che sembrava voler trasformare i Collegi dei docenti in tante case del grande fratello, dove un terzo dei docenti si ritrovava ad essere nominato e poi escluso dagli scatti di anzianità.
Ora è chiaro che la scuola deve migliorare, ma non è dando un po’ di soldi ad alcuni e mettendoli contro gli altri che la si migliora, e ancor meno dando ai Dirigenti scolastici e ai suoi collaboratori il potere di decidere chi pagare di più.
Non credo esista nessun criterio oggettivo per valutare la qualità didattica di un insegnante, tante sono le variabili che bisognerebbe tenere in considerazione. Come ho già detto, a chi innova andrebbe data la possibilità di socializzare le sue scoperte e le sue esperienze, offrendogli la possibilità di costruire momenti di crescita culturale di cui si possano giovare tutti gli insegnanti, pagando questo lavoro aggiuntivo. Dentro il Movimento di Cooperazione Educativa, di cui faccio parte, chiamiamo questa pratica la madre dello yogurt, perché sono percorsi che si possono diffondere solo corpo a corpo.
Premiare i docenti favorirà la disuguaglianza?
Alcuni dati che emergono dalle prove Invalsi mostrano che in Italia esistono ancora una grande quantità di scuole che distribuiscono bambini e ragazzi nelle diverse sezioni in base al censo o alle condizioni culturali delle famiglie, per cui ci sono le sezioni dei migliori ed altre, le ultime, destinate agli scarti, magari affidate a insegnanti di passaggio. È molto triste dirlo, ma se questa è ancora la realtà di troppe scuole, ci possiamo fidare dell’insieme dei Dirigenti scolastici? Non sono loro che orientano le iscrizioni? Conosco Dirigenti bravissimi, soprattutto donne, che si fanno in quattro per rendere le loro scuole davvero aperte a tutti e sperimentano tutti i modi possibili perché l’insieme dei docenti provi a far proprio il dettato costituzionale, che vorrebbe la scuola come principale luogo di attenuazione delle discriminazioni dovute agli svantaggi sociali e ambientali, ma so anche quanto sia grande la fatica che fanno e quanto scarso sia il riconoscimento e il sostegno che ricevono dal centro, dal Ministero. Nessuno premia e dà finanziamenti adeguati a chi sperimenta davvero. La loro esperienza mostra che non sono allenatori, che scelgono sul mercato gli insegnanti migliori, magari aiutati da sponsor privati come ora si vorrebbe, ma creatori di ponti, creatori di comunità, e infatti riescono nella loro impresa solo quando intorno a loro si forma un bel gruppo che assume la responsabilità del fare scuola come ricerca permanente. Una delle poche cose buone del ddl riguarda la formazione obbligatoria, già prevista in una legge voluta dalla ministra Carrozza. Ma al solito c’è il trucco, perché non sono previsti fondi consistenti per avviare un piano esteso di formazione in servizio che, per funzionare, dovrebbe coinvolgere attivamente centinaia di migliaia di insegnanti. Le leggi attuali hanno abolito i tradizionali programmi, sostituendoli con indicazioni generali e traguardi di competenze, che invitano i docenti e le scuole autonome ad elaborare curricoli sensati per quel territorio e quegli alunni. Il problema è che, se non c’è ricerca nelle scuole, finisce che i programmi, buttati fuori dalla porta, rientrano dalla finestra attraverso i libri di testo, che spesso non sono di buona qualità. Così ora i programmi, nella maggior parte dei casi, li fanno gli editori che, per vendere, le provano tutte e negli ultimi anni hanno inondato le scuole di test di bassa lega che imitano le prove Invalsi, vera e propria pornografia editoriale. Questo uno dei motivi per cui è così urgente e necessario il lavoro di ricerca dei docenti nelle scuole.
Per la formazione dei docenti, cosa si deve fare?
Gran parte delle facoltà di Scienze della formazione vanno come minimo ripensate. Ci sono corsi di studio in cui gli studenti non leggono neppure un libro: solo manuali. Ma una ragazza o ragazzo si può innamorare della conoscenza studiando solo su manuali o dispense, a volte scritte pure male?
Credo che le università dovrebbero costruire un rapporto più organico e continuativo con le scuole. Forse dovremmo sperimentare rovesciamenti radicali e immaginare che siano le scuole più attive ad adottare qualche facoltà universitaria.
Ci sono stati nel passato e ci sono alcuni esempi di facoltà che lavorano in stretto contatto con gruppi di insegnanti in modo non sporadico e i risultati si vedono, perché migliora l’università e migliora la scuola. All’inizio degli anni Settanta Lucio Lombardo Radice mandò i suoi studenti universitari nelle classi di Emma Castelnuovo ad imparare come si insegna la matematica ed Emma, con il loro aiuto, organizzò delle esposizioni matematiche di cui ancora si parla in Europa. Il problema è che in Italia dei grandi innovatori si parla solo dopo che sono morti, guardandosi bene da provare ad attuare ciò che sperimentavano. In recenti laboratori sulle Nuove Indicazioni per il curricolo alcuni insegnanti di un liceo scientifico di Terni sono stati coinvolti ed erano stupiti ed entusiasti nel vedere come le insegnanti di scuola dell’infanzia e della scuola primaria lavoravano collaborando tra loro. Ecco, quando daremo la possibilità alle maestre di scuola dell’infanzia di condividere il loro lavoro insegnando qualcosa di metodo ai loro colleghi delle superiori, forse si muoverà qualcosa.
Per affrontare i grandi problemi che ha un lavoro difficile come il nostro, dobbiamo davvero trasformare le scuole in centri di ricerca, ma questo processo è difficile da far partire perché si deve creare, alla base, uno spirito di cooperazione che contrasta quell’idea di gerarchia che permea i documenti del governo.
L’arretramento culturale del Paese lo scontiamo a tutti i livelli, a partire dai ministri, che vogliono lasciare ciascuno la sua “pisciatina” per segnare il territorio. La Moratti era una manager e voleva scuole condotte come aziende, guidate da presidi manager. Ha reintrodotto i voti nella primaria pensando che così rendeva seria la scuola e anticipato l’età di ingresso dei bambini, che tanto male sta facendo ai più piccoli. La Gelmini si è spesa per rimettere il grembiule ai bambini e reintrodurre il maestro unico, ma l’unica cosa di cui è stata capace è stato tagliare oltre 8 miliardi alla scuola elementare. Ora Renzi dice che è finito il tempo del 6 politico agli insegnanti, riecheggiando gli strali della Mastrocola contro Don Milani e il ’68. Il panorama è davvero sconfortante.
Che cosa ne pensa dell’alternanza scuola-lavoro?
Su questo punto ho una posizione molto laica e vorrei si riuscisse a ragionarci senza pregiudizi. Non credo debbano essere le aziende a dettare tempi e programmi alle scuole, perché non mi sembra un buon modo di affrontare il terribile problema della disoccupazione giovanile. Ma mi hanno parlato di esperienze, attuate in scuole di altri Paesi, in cui i ragazzi passano alcune settimane, negli ultimi tre anni di scuola, nei luoghi di lavoro più diversi, a volte scelti da loro, a volte proposti dalle scuole. Ecco, io penso che per un ragazzo di 17 o 18 anni possa essere di grade stimolo entrare fisicamente per qualche tempo nel mondo del lavoro, conoscendone direttamente i problemi, purché non diventi, naturalmente, sfruttamento di lavoro camuffato. Ritengo infatti che la presenza di oltre due milioni di ragazzi che smettono di studiare senza lavorare sia una delle maggiori tragedie del nostro paese, sulla quale noi insegnanti ci interroghiamo troppo poco.
Se una massa così considerevole di nostri ex alunni smettono di studiare penso che qualche responsabilità ce l’abbiamo anche noi insegnanti, dalla scuola dell’infanzia alle superiori. È chiaro, infatti che, se questo accade, vuol dire che negli anni della scuola non siamo riusciti a far vivere momenti di rispecchiamento culturale in cui ragazze o ragazzi hanno potuto riconoscersi in un racconto, un mito, una musica, una pittura o un nodo concettuale – filosofico, scientifico o matematico – che li portasse a confrontarsi con l’infinito e i misteri del cosmo. Se non riusciamo a proporre la cultura come specchio in cui imparare a conoscere se stessi, come si fa poi a chiedere di fare sforzi ai più giovani, visto che ogni processo di conoscenza è impossibile senza fatica?
Ciascuno di noi, se deve superare un grande ostacolo, ha bisogno di vedere oltre per trovare il senso di quello sforzo. E chi è il garante nella scuola di quest’oltre spesso lontano e poco visibile costituito da cultura, arte e scienza e dalla loro storia, se non l’adulto, l’insegnante.
In un tempo in cui le tecnologie apparentemente facilitano tutto e il mercato ci plasma, rendendoci a forza consumatori compulsivi, educare allo sforzo è compito prioritario, perché senza sforzo e approfondimento e durata non ci si può opporre alla semplificazione imperante, che svuota ogni critica e avvilisce il pensiero.
Che idea di società c’è dietro all’idea di scuola propugnata dal ddl?
L’idea di una società immutabile, in cui ogni opposizione all’ingiustizia è vana, perché il mondo va così. La stessa idea che ritiene che per contenere l’immigrazione bisogna bombardare gli scafisti. Una drammatica semplificazione del mondo, senza respiro e senza futuro.
Io credo che noi dobbiamo ripartire dall’articolo 3 della Costituzione, perché è la scuola costituzionale quella dove può avvenire “il miracolo di trasformare dei sudditi in cittadini”, come auspicava Piero Calamandrei.
Il problema è che non si tratta di un miracolo, ma di un faticosissimo lavoro da fare insieme. Chi insegna non sceglie gli allievi che ha di fronte, eppure, se ha coscienza del suo lavoro e un minimo di super io che gli ricordi l’enorme responsabilità che distingue il suo lavoro, prova poco a poco a trasformare quel gruppo in una comunità viva, in cui ci sia posto per ciascuno. Cioè fa ogni sforzo per accogliere con intelligenza differenze talvolta difficili da gestire. Solo una scuola in cui la democrazia sia resa viva a ogni livello dall’operare concreto dei più persuasi, può tentare di affrontare i difficilissimi compiti che abbiamo di fronte in un Paese in cui crescono disuguaglianze e discriminazioni e perfino nuove forme di schiavitù, che ai miei occhi sono intollerabili. Per costruire una cultura della convivenza abbiamo bisogno di letteratura, musica, grande arte e bellezza. Abbiamo bisogno di tanta cultura per cercare di capire un mondo sempre più incomprensibile, e chi la può fornire ai più se non la scuola pubblica, la scuola di tutti, in cui noi adulti abbiamo tanto da imparare dai ragazzi?
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