Lo spunto è questo: su DailyBeast c’è un articolo che stronca l’ultimo lavoro di Roberto Saviano (ZeroZeroZero), accusandolo di aver attinto molto a fonti secondarie e di aver ripreso interi pezzi di articoli pubblicati su altri media e di averli riscritti. Secondo Michael Moynihan ZeroZeroZero è un «libro stupefacentemente disonesto» che è «pieno di reportage e scritti saccheggiati da giornalisti meno conosciuti, include interviste con ‘fonti’ che potrebbero non esistere e contiene numerosi casi di plagio evidente». Oggi su Repubblica, lo scrittore replica alle accuse con un lungo articolo. Non altrettanto lungo del pezzo di Daily Beast, che oltre a stroncare il libro, dedica un fiume di parole al fact checking, segnala le mail spedite a Saviano, cite le sue risposte.
La difesa di Saviano è in parte una spiegazione delle scopiazzature che Moynihan gli imputa e in parte una risposta generale:
Ora, dopo questa lunga ricostruzione, è chiaro o no perché mi si attacca? Perché sono un simbolo da distruggere. Perché le parole, quando restano relegate alla cronaca, sono invisibili: ma quando diventano letteratura, quelle stesse parole, quelle stesse storie, diventano visibili, eccome. Ma si può fare un processo a un genere letterario?
L’articolo, insomma, sarebbe mirato a distruggere Saviano. Oggi in rete impazza l’ironia, si moltiplicano gli attacchi (a DailyBeast e all’autore di Gomorra) e, naturalmente, in molti mostrano solidarietà a Saviano. Il cui metodo di scrivere i libri, raccontare le cose, il cui genere letterario è quello che l’articolo di DailyBeast mette, in fondo, in discussione. È giornalismo? No. È letteratura? Nemmeno. È la traduzione letteraria di fenomeni e cose accadute. Bene. Ma a noi non viene venduto così. In Italia la vulgata corrente è che quello di Saviano sia giornalismo. Oggi scopriamo che non lo è.
È servito il lavoro di fact checking accurato di un media americano. Un lavoro che qui da noi siamo abituati a fare solo in parte, in rare occasioni e per essere rassicurati dall’autore che propone un’inchiesta a una redazione che il suo lavoro sia a prova di querela, inchiesta giudiziaria. Nel mondo anglosassone non è così: l’articolo di Moynihan è lunghissimo, noioso e rigoroso (a prescindere da quel che si pensa sulle sue conclusioni e senza sapere se si tratti di un fact-checking rigoroso, quello dipende dal suo direttore). Il giornalista che scrive una recensione importante sul libro di un personaggio famoso ci lavora. E dopo che lo ha scritto, qualcuno fa il lavoro di verificare che le fonti, le mail, le citazioni siano corrette. Lo si fa anche per le battute dei politici, che poi non possono smentire: a volte vengono richiamati da un secondo giornalista. Anche se il pezzo è per il web e non dice nulla di clamoroso. È un metodo di lavoro.
A noi, qui, non piace lavorare così. A noi piacciono le firme, i personaggi, la lirica, gli eroi da esaltare e, poi, da massacrare. E quindi i personaggi come Saviano, la cui difesa dipinge con precisione questa distanza tra il giornalismo anglosassone e il nostro: io sono un eroe anti-mafia, se non lo fossi DailyBeast non mi attaccherebbe. Sbagliato, DailyBeast attacca perché non gli piace il lavoro e il metodo di Saviano. Una cosa legittima e il fatto che l’articolo di Moynihan stia facendo tanto rumore segnala un tratto caratteristico della nostra sfera pubblica. Non siamo un Paese dove si lavora assieme per costruire qualcosa, combattere un fenomeno, ma un Paese di eroi solitari, paladini senza macchia, martiri. Che si commuove, partecipa, fa il tifo, si indigna. E poi dimentica in fretta la ragione per cui si è esaltato o arrabbiato, mentre criminalità organizzata, politica corrotta, diseguaglianze o devastazione del territorio non passano.
PS polemiche come quella di oggi fanno comunque la fortuna dei media che li ospitano: oggi DailyBeast avrà un record di connessioni dall’Italia e Repubblica un bel po’ di click americani
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