A Faenza, è in corso l'appuntamento con la musica indipendente italiana, fino al 4 ottobre. Left e la rivista musicale ExitWell, hanno aspettato il #nuovoMei2015 con una serie di interviste ai protagonisti di questa edizione. Chiudiamo in bellezza con il vincitore del SuperMeiCircus, Giovanni Truppi
Un concentrato di ironia, dolore, tenerezza e sorpresa che sfreccia nella sua testa. E, attraverso la sua voce, arriva dritta alla tua pancia. Giovanni Truppi è una raffica di pugni nella bocca dello stomaco. Che, però, ti piace. E non appena ha finito, tu hai già voglia che lui ricominci da capo. Cantore del dentro e del fuori di testa, Truppi ha tre dischi all’attivo: C’è un me dentro di me (Cinico Disincanto, 2010), Il mondo è come te lo metti in testa (I Miracoli – Jaba Jaba Music / Audioglobe, 2013) e Giovanni Truppi (Woodworm / Audiglobe, 2015). Napoletano, classe 1981, è uno dei protagonisti della nuova edizione del Mei, dove oltre a esibirsi verrà incoronato “capo freak” del Super Mei Circus.
Tu ti chiami Giovanni e il tuo nome «è un plurale», canti in “Il mondo è come te lo metti in testa”. «Siamo tantissimi qui dentro. E più lo capisco, più mi rassegno allo sgomento». State tutti bene?
(ride) In questo momento non c’è male. Sai, essendo così tanti è facile che qualcuno di noi possa avere qualche problemuccio, ma poi si riesce a trovare sempre un equilibrio, in modo che il malessere di uno non pesi sugli altri.
Quando ti ascolto mi chiedo: quel modo diretto e preciso di leggere la realtà, dentro e fuori dalla testa, è ragionato o ti viene proprio di pancia?
Entrambe le cose, ci sono contemporaneamente questi due “colori”. Nei testi, uno dei colori che mi piace molto usare è la colloquialità. Quando mi accorgo di aver fatto dei ragionamenti pesi cerco di metterci un elemento che stemperi, al contrario quando registro pensieri spontanei ci lavoro un po’ per non lasciare la cosa alla semplice colloquialità.
Sei al tuo terzo disco, ognuno dei quali sembra avere un’impronta e un’atmosfera diversa. È così?
Il primo disco mi fa sempre pensare a una tesi di laurea, come quando cerchi di far vedere che hai imparato delle cose, e io studiavo la canzone, com’era fatta e come si poteva fare. Ci sono cose alle quali sono molto affezionato, ma in generale è un disco che mi crea un po’ di problemi perché lo considero un po’ troppo scolastico e un po’ poco coraggioso. Il secondo disco è completamente opposto al primo. Se nel primo avevo cercato di stare dentro le regole, nel secondo ho cercato di fare il contrario: non di cambiare appositamente alcune regole, ma di fare come mi pareva. Per il primo album ho lavorato tanto in studio – che poi era a casa mia – per gli arrangiamenti e l’editing, per far quadrare le cose. Invece il secondo è stato registrato in presa diretta in una settimana, anche meno. Dal punto di vista tecnico-musicale è una cosa molto diversa, e anche abbastanza impegnativa. Ricordo che sapendo cosa dovevo fare, quando arrivai in studio, avevo molta paura di non portare a termine il lavoro.
E il terzo album è una via di mezzo?
Sì, rimane una certa libertà però recupera dal primo il gusto di lavorare sugli arrangiamenti.
I dischi si pensano, si scrivono, si arrangiano e poi si devono pure produrre. Tu come hai fatto?
Il primo album ha avuto una gestazione di anni, ci ho potuto lavorare tantissimo grazie all’aiuto di amici, molti amici. Avere tanto tempo e tanti amici mi ha permesso di portare a casa il disco e questa cosa si sente, si sente che è un disco casalingo. La seconda volta, la scelta artistica di avere due strumenti registrati in presa diretta mi ha permesso di abbattere i costi. Diciamo che preferisco scegliere di avere meno cose ma di qualità.
Usciamo dalle sale di registrazione. Nel tour 2013-2014 hai tenuto più di 100 concerti in due anni. Sembrerebbe che il live sia il tuo punto forte, è così?
A me piace molto stare anche in studio. Forse la cosa che mi piace meno è stare a casa a scrivere, è la parte più faticosa perché non so mai dove andare, quindi a volte mi dispero. Poi, però, penso che questo è necessario per i creativi, che sono come degli esploratori, devono scoprire quindi è normale che si perdano.
Tu, il pianoforte e la chitarra, sul palco, siete una cosa sola.
Ho cominciato a suonare il pianoforte a sette anni, ricordo che veniva il maestro a casa. E l’ho studiato per una decina d’anni, privatamente, ma devo dire di non essere stato un allievo molto brillante, non mi piaceva studiare. La chitarra, invece, eccetto un paio di lezioni, l’ho studiata da me, ho cominciato a 14 anni e l’amore non si è mai spento.
La copertina dell’ultimo album – firmata da Cristina Portolano – illustra una sorta di foto di gruppo dei personaggi di cui narri le storie. Reali, immaginari, autobiografici, chi sono?
È una mischia di tutto quello che hai detto, alcuni reali, altri inventati, altri ancora metaforici. E in realtà, poi, si mischiano anche tra di loro. Prendi lo stesso Giovanni, io non sono poi così come mi dipingo. Nelle canzoni hai così poco tempo che i personaggi sono per forza di cose ridotte, diventano bidimensionali, sloganistici. Ognuno di noi è multiforme e questo in una canzone non lo puoi rendere.
Difficile, ma non impossibile. Qualche volta ci sei riuscito, prendiamo, per esempio, il protagonista di “Ti voglio bene Sabino”. Chi è Sabino?
Un mio collega di lavoro. Mi sorprendeva il fatto che mi stessi affezionando a una persona semplicemente perché la vedevo con frequenza, in quel momento con lui non ci parlavamo nemmeno, ma mi accorgevo che dentro di me accadeva un processo strano. E mentre mi accorgevo di questa cosa, il fatto che vedessi un estraneo più delle persone che amavo e amo mi faceva innervosire. Quindi quella canzone è venuta fuori in maniera del tutto spontanea.
A Faenza verrai incoronato come “capo freak” del Super Mei Circus. Laddove c’erano le etichette adesso cosa pensi di trovare?
Non sono d’accordo sul fatto che le etichette non ci sono più, ho pubblicato l’ultimo disco con un’etichetta è per me è stato importantissimo. Fondamentale come contributo logistico, economico, mi ha permesso di fare cose che non avrei potuto fare.
Che vuol dire per te “indipendente”?
Ieri Cesare Basile rispondeva alla stessa domanda di un giornalista, dicendo che «indipendente è una minchiata». Non so bene che dirti, per me l’indipendenza è artistica, a prescindere dallo scaffale economico e dalla filiera lavorativa dove ti vai a inserire. E l’indipendenza, sia artistica che economica, va garantita anche contrattualmente. Ma, davvero, il termine è così ampio che spesso non so nemmeno di cosa si parla. Una cosa è certa, c’è un grande equivoco: dire che l’indipendenza è un genere musicale è un errore gravissimo, intellettualmente, linguisticamente, esteticamente.
Ci vediamo a Faenza, “Stai andando bene Giovanni”.
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