Sulla Novaja Gazeta lei raccontava quello che vedeva. Né più e, soprattutto, né meno. Perché questo era il dovere di un giornalista, per lei, Anna Stepanovna Politkovskaja.
Scriveva della Cecenia, dell’occupazione indebita russa del territorio, e scriveva della continua lesione dei diritti umani e civili della popolazione. Andava, vedeva i proiettili e le ferite sui muri e sulle persone, viveva con loro, con entrambe: ferite e persone. E scriveva. Degli ospedali, dei militari, russi e ceceni, dei campi profughi.
E ogni suo articolo era una denuncia ben precisa, che arrivava dritta non solo al cuore di chi la leggeva, ma anche alla “sensibilità” del potere. Arrivava a Putin, bersaglio principale assieme al suo governo dei suoi reportage e soprattutto di libri molto critici (Come per esempio A Small Corner of Hell: Dispatches From Chechnya, 2003 – Cecenia, il disonore russo) sulla conduzione della guerra. In Cecenia, in Daghestan, in Inguscezia
Non erano attacchi politici, quelli di Anna: erano resoconti, brandelli ricostruiti di realtà. Perché Anna è «una persona che descrive quello che succede a chi non può vederlo».
Non solo: te lo fa sentire. Leggendo le sue righe, cammini nella steppa russa, nei gelidi inverni ceceni, nelle case dei profughi buie come tane di topi. E questo da fastidio. Far vedere la realtà al mondo, per l’equilibrio di un potere dittatoriale è ben più pericoloso di qualsiasi minaccia o sanzione di organismi internazionali; di qualsiasi dichiarazione di leader europei o statunitensi.
Per questo motivo, la sera del 7 ottobre 2006, Anna Politkovskaja, smetterà di scrivere. L’hanno fermata con un proiettile in testa, nell’ascensore della sua abitazione a Mosca, mentre tornava a casa. È il giorno del compleanno di Vladimir Putin. Coincidenze. Il giorno dopo, la polizia russa sequestrò il computer della cronsita con tutto il materiale dell’inchiesta che la giornalista stava compiendo. Coincidenze. Il mandante dell’omicidio non è mai stato scoperto. Coincidenze.
Minacce di morte e tentativi di avvelenamento ne aveva collezionati. Sapeva di camminare sotto mira, e che sarebbe stato fatto di tempo. Tanto che nel 2005, un anno prima di essere assassinata, in una conferenza di Reporter Senza Frontiere a Vienna sulla libertà di stampa, denuncia:
« Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. Infatti, una persona può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato una informazione. Non sono la sola a essere in pericolo e ho esempi che lo possono provare. »
In ogni caso, purtroppo per chi pensava di eliminarne l’azione dirompente, l’assassinio della giornalista della Gazeta ne ha fatto un simbolo che ha mobilitato perfino la grigia e omertosa gelida opinione pubblica russa e portando il suo lavoro a conoscenza del mondo intero, amplificandone ancor di più il valore e l’operato.
In Russia oltre 200 giornalisti uccisi dal 1993
Fare il giornalista in Russia è diventato sempre più pericoloso a partire dagli anni 90. L’assassinio di Anna Politkovskaja ebbe enorme risonanza e fu, di fatto, uno dei primi casi a portare alla luce e far discutere l’opinione pubblica mondiale del tema.
Prima che Anna Politkovskaja venisse ammazzata sulle scale del palazzo in cui abitava, il 7 ottobre 2006, soltanto chi si interessava da vicino alle guerre cecene conosceva il nome di questa giornalista coraggiosa, dichiarata avversaria della politica di Vladimir Putin. Da un giorno all’altro, il suo volto dall’aria triste e decisa è diventato in Occidente un’icona della libertà d’espressione.
Emmanuel Carrère
Ma Anna non è stata la sola, le fonti russe parlano di oltre 200 uccisioni, anche se i rapporti pubblicati fin ora dalle organizzazioni internazionale parlano “solo” di diverse dozzine di omicidi. In particolare l’International Federation of Journalists ha commissionato un’ampia inchiesta in merito e reso pubblico un database online che documenta la morte o la sperizione in Russia di circa 300 giornalisti a partire dal 1993.
Oltre a una forte campagna per la libertà di stampa e la tutela di chi fa informazione, l’IFJ ha fornito anche una guida a disposizione dei reporter la cui vita è messa a rischio da inchieste e articoli sui quali stanno lavorando.
Non solo per mano di Putin.
A rischiare la vita per raccontare i fatti sono in molti anche fuori dalla Russia. Come la Politkovskaja sono stati uccisi molti altri giornalisti in tutto il mondo. In Messico per esempio la desaparecion non sembra essere un fenomeno solo del passato e le proteste contro le autorità politiche e la polizia colluse con i trafficanti di droga e colpevoli della sparizione forzata di molti reporter. L’ultima in ordine temporale è l’appello #MexicoNosUrge rivolto all’Unione Europea per intervenire e tutelare i giornalisti in pericolo. Infatti, in questi ultimi cinque anni, durante il governo del priista Javier Duarte de Ochoa sono stati assassinati 15 giornalisti e tutti gli omicidi sono rimasti impuniti.
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Tornano alla mente però anche tutti quei giornalisti uccisi nel nostro Paese per mano della Mafia, della Camorra, della Ndrangheta, del terrorismo o di giochi politici sui quali ancora non è stata fatta chiarezza.
C’è per esempio Peppino Impastato, voce di Radio Aut, dalla cui vita è stato tratto il film di Marco Tullio Giordana “I cento Passi”. Ucciso dalla mafia perché ormai sapeva troppo. Come lui Cosimo Cristina, cronista dello storico quotidiano parlemitano “L’Ora” – un punto fermo nella lotta contro le cosche siciliane – assassinato nel 1960 a Termini Imerese. Lo stesso destino toccò anche ai suoi colleghi di testata Mauro De Mauro e Giovanni Spampinato.
C’è stato anche, Giancarlo Siani, corrispondente de “Il Mattino di Napoli“, impegnato in un’inchiesta sui traffici illeciti della camorra e sul punto di pubblicare un libro che denunciava i rapporti fra politica e criminalità degli appalti nella gestione degli appalti post-terremoto dell’Irpinia, prima di essere “fatto fuori” a soli 26 anni con 10 colpi di pistola alla testa mentre era a bordo della sua Citroën Méhari.
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Anche il terrorismo ha avuto le sue vittime nel mondo dell’informazione. Carlo Casalegno, vice direttore de La Stampa, fu assassinato nel 1977 dalle Br perché insisteva a scrivere dalle colonne della sua rubrica che non andava concessa tolleranza o impunità ai gruppi violenti. Stessa fine di Casalegno per Walter Tobagi del Corriere della Sera che, in quelli che erano gli anni di piombo, era solito riflettere sulla responsabilità del giornalista di fronte all’offensiva delle bande terroristiche. Tobagi non poté parlare a lungo perché eliminato dalla Brigata XXVIII marzo, un gruppo terroristico di estrema sinistra.
Ma un altro tratto è comune a tutte queste vite: il coraggio di lottare per la libertà e di raccontare le cose come stanno. Come diceva Anna.