Lo scandalo Volkswagen ci consegna un quadro devastante che va al di là della sfera economica. Siamo di fronte a un fatto di gravità estrema che invade ogni altra dimensione relazionale umana. È ancora possibile, di fronte alla macchina infernale del progresso tecnologico, mettere al centro l’uomo in un’altra possibile esistenza? Una domanda che appare forse eccessiva e retorica in un momento di crisi occupazionale, ma che scaturisce da una preoccupazione profonda che riguarda la democrazia reale, cioè la possibilità per tutti di essere informati su quelle mutazioni dei processi produttivi anche di settori strategici. Non basta firmare o no un contratto al buio senza avere la piena consapevolezza della strategia complessiva dell’azienda. Insomma, ho l’impressione che molti in realtà non conoscano nulla della reale portata dei nuovi strumenti tecnologici in mano alle multinazionali, meno che mai del loro reale impatto sull’uomo, sull’ambiente e sulla stessa condizione operaia. La “truffa” globale del secolo ci dice proprio questo: oggi siamo in presenza di un autoritarismo globale, di una strategia delle multinazionali, che deliberatamente negano ogni informazione, ogni interferenza anche governativa che possa anche lontanamente far conoscere e controllare ogni piega delle strategie e dei loro processi produttivi. Il vulnus democratico è enorme. Mi sono ricordato che Bruno Trentin negli anni Settanta diceva che al centro dell’iniziativa sindacale dovevano esserci il controllo e le informazioni sulle strategie industriali. Ecco, l’errore in cui non dobbiamo cadere è pensare che lo scandalo Volkswagen sia un fatto del tutto isolato. Penso ai casi più gravi della Foxconn, al caso Ilva, ai richiami di veicoli difettosi e alle multe milionarie a importanti aziende automobilistiche. I fautori della “Qualità Totale” non si rendono conto che per perseguire ciecamente gli alti livelli di profitti imposti dalla competitività globale devono necessariamente trascurare la condizione umana e la sostenibilità ambientale. Dall’ultima indagine della Fiom-Cgil sulle condizioni di lavoro alla Sata Fca di Melfi, è emerso proprio questo: l’incremento della velocità delle linee di montaggio, l’aumento dei ritmi e delle saturazioni e la modifica delle turnazioni, oltre a peggiorare le condizioni di salute stanno minando fortemente la vita dei lavoratori anche nei momenti familiari e sociali. Noi di Pomigliano nel 2010 avevamo già visto tutto. Produzioni esasperate fino al limite dell’umano sono quelle che Pietro Ingrao chiamava: “Oscenità delle disuguaglianze crescenti”. Per questo sono molto contento che i miei colleghi americani dopo la prima fase della paura abbiano dimostrato tutto il loro dissenso con il 65 per cento dei No nei confronti delle proposte aziendali che contenevano, secondo il loro punto di vista, un peggioramento delle condizioni di lavoro sia in fabbrica, che fuori. Per non parlare poi dell’assenza di garanzie contro una delocalizzazione in Messico. Il valore del No dei miei colleghi americani ha lo stesso significato etico del nostro No a Pomigliano del 2010, con l’aggravante che da noi fu imposto senza la possibilità di trattativa. È famosa la nostra esclusione. Oggi, oltre al rientro della Fiom in Fiat grazie alla magistratura, molti nodi, di là dall’eccellente andamento della nuova Panda e di altri nuovi modelli, stanno venendo al pettine. Ma una cosa in questi giorni mi ha ridato un filo di speranza. È ciò che è accaduto in Svezia, dove in molti luoghi stanno riducendo l’orario di lavoro a parità di salario. L’obiettivo è stato spiegato molto bene, sia dal governo che dai manager delle aziende: il progresso tecnologico non può comprimere il diritto alla felicità. La vera sfida che abbiamo di fronte è quella di riappropriarsi della propria vita familiare, di quell’economia della reciprocità solidale che riannodi quei legami tranciati da un liberismo ottuso e selvaggio. Questa è una vera e propria lezione di democrazia per tutti noi.
*Antonio Di Luca è un operaio della Fiat di Pomigliano