La polemica è stata sollevata più volte sui social network: “se sono migranti, se non hanno nulla, se sono in fuga e disperati perché possono permettersi uno smartphone?”. Come se in fatto di disperazione, guerra e migrazioni il tempo si dovesse essere fermato al secolo scorso, alle carovane e alle valige di cartone. Secondo The Indipendent la questione è semplice: chi si pone domande del genere evidentemente è un idiota.
Senza essere così diretti, sicuramente quello che salta agli occhi quanto sia scarsa la consapevolezza delle reali condizioni di vita di chi, da un giorno all’altro, si trasforma in migrante, clandestino, esule, rifugiato. O in una qualsiasi delle mille parole che utilizziamo per indicare un qualcosa che troppo spesso riusciamo a percepire solo nelle dimensioni di eccezionalità e di lontananza.
La Siria per esempio è classificata come un Paese a reddito medio basso, le condizioni generali della popolazione non impediscono quindi a chi parte di possedere uno smartphone dotato di gps e fotocamera visto che ha un costo inferiore ai 100 dollari. Facciamocene una ragione: nel 2015, i migranti hanno lo smartphone, sanno cosa è un selfie, chattano su whazzapp e usano google maps. E questo non significa che siano ricchi, che potevano starsene a casa loro, che non siano disperati.
Perché, come scrive la giovane poetessa Warsan Shireh, «Nessuno mette i suoi figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra».
Durante il viaggio il telefono cellulare si trasforma in uno strumento prezioso per chi, in fuga dall’Africa o dal Medio Oriente, cerca di arrivare in Europa. I rifugiati usano le app di messaggistica come WhatsApp, Viber e Linea per comunicare con i propri cari a casa, far sapere loro dove sono, mandare un selfie per dire una cosa semplice come “sono arrivato” e straordinaria come “sono vivo”.
Attraversano le fontiere utilizzando il gps di Google Maps o e dopo aver già cercato mappe e rotte da percorrere da casa, prima di partire, sempre su internet, sempre su Google. Le parole più cercate su Google in Siria in questi mesi sono: ospedale, respirazione bocca a bocca e il percorso per arrivare in Germania. Tre cose che da sole rendono chiaro il quadro della situazione.
La crisi dei rifugiati che sta travolgendo l’Europa in questi ultimi anni è la prima dell’era digitale. Un tempo pensieri e speranze si consegnavano a lettere e diari, le risposte si cercavano nelle mappe e negli atlanti. Oggi l’esodo è cambiato, come sono cambiati i tempi, e ad ogni passaggio di frontiera, si apre una gara per trovare la rete, una nuova carta sim locale o una rete wi-fi pubblica.
Quando la rotta intrapresa dai migranti prevede un passaggio via mare, in molti salvano il proprio smartphone dall’acqua avvolgendolo in una busta di plastica, in un palloncino o in un guanto in lattice e assicurandoselo sotto il giubbotto di salvataggio prima di salire sul gommone.
E poi c’è chi sale sul barcone pronto all’invio di messaggi sms che lancino l’sos in tempo per far arrivare i soccorsi prima dell’emergenza, ma dopo che si è già oltrepassato il confine. I profughi spesso provengono da zone urbanizzate, in particolare i rifugiati Siriani, e sanno sfruttare al meglio i loro smartphone per rendere quanto più facile e sicuro possibile il loro viaggio.
Nei punti di racconta, nei campi o nelle stazioni dove vengono radunati durante le tappe del tragitto assieme a beni di prima necessità e scarpe vengono forniti punti dove è possibile ricaricare il proprio telefono o accedere al wi-fi. La domanda per questo servizio fra i migranti è altissima. Per esempio alla stazione di Keleti in Ungheria dove erano stati accolti migliaia di migranti, la richiesta energia elettrica e wi-fi è stata talmente alta che Greenpeace ha dovuto montare una tenda più grande per dare risposta alle esigenze di tutti. Alla domanda su cosa sia più importante fra il cibo e la possibilità di caricare il proprio smartphone, molti rifugiati, soprattutto i più giovani, non esitano nemmeno un attimo a rispondere: scelgono la seconda.
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