Da Rebibbia l’appello dei reclusi per una detenuta. «Ha una patologia psichiatrica, non può stare qui». L’avvocato: «Incarcerata nonostante fosse già stata dichiarata incompatibile con il carcere»
«Scarceratela, sta male, non può rimanere in carcere». Una petizione firmata da 1200 firme di detenuti di Rebibbia solleva il velo sulla storia di A.F., madre di un loro compagno di cella. Una storia in cui il dramma della malattia si aggiunge a quello della reclusione. «Noi detenuti del carcere di Rebibbia siamo indignati e offesi di essere venuti a conoscenza di un episodio che ci obbliga a intervenire compatti per denunciare pubblicamente una gravissima situazione che, se non sarà tempestivamente risolta in senso positivo, potrà degenerare in tragedia». La signora, dopo la sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato la sentenza d’appello a 5 anni e otto mesi di reclusione, è stata portata a Rebibbia, lo stesso carcere dove è recluso il figlio, condannato per reati legati al traffico di stupefacenti. «Ma A.F. ha una patologia riconosciuta sin dal 1998, addirittura le prime manifestazioni della malattie risalgono al 1993», afferma l’avvocato Lucia Gargano che insieme al collega Angelo Staniscia ha presentato l’istanza di sospensione dell’esecuzione della condanna al magistrato di sorveglianza. «Adesso il magistrato ha chiesto al carcere una relazione sanitaria e speriamo che presto la situazione si risolva e che la signora venga affidata alla custodia domiciliare, seguita dal personale sanitario. Intanto per adesso è stata ricoverata in infermeria». A.F., racconta l’avvocato «soffre di disturbo di personalità, una patologia seguita e documentata dal Centro di igiene mentale di Ostia. Prendeva farmaci e spesso è stata ricoverata dopo aver compiuto gesti autolesionistici», continua Lucia Gargano. «Quando venne arrestata, nel 2012, era stata subito scarcerata perché dichiarata incompatibile con il regime carcerario. Nel momento in cui la sentenza è diventata definitiva, hanno eseguito la condanna ignorando questa cosa», afferma l’avvocato. A Rebibbia è incarcerato anche il marito di A.F. Entrambi i genitori infatti, sono stati condannati per associazione, «un reato dilatato» afferma l’avvocato. Un dramma nel dramma. A cui si aggiunge quello di A.F. in cui «ogni istante di permanenza in istituto può costituire una seria minaccia per l’incolumità e la vita della reclusa», scrivono i detenuti. Continuano, reclamando giustizia. «In questo caso non si tratta di un beneficio o di una regalia, una delle tante dispensate in tempi recente a detenuti cosiddetti eccellenti, ma di un atto di giustizia da applicare a un essere umano riconosciuto invalido al 100 per cento e, pertanto, da destinare a cure specialistiche in un ambiente che non sia quello carcerario». La petizione si conclude con la richiesta di rispettare il diritto alla vita e alla salute di una cittadina detenuta alla quale, pur gravata da una condanna, si devono riconoscere e applicare le garanzie di tutela sancite dalla nostra Carta Costituzionale».