Sorpresa, la Terza via si specchia nel mondo post grande crisi del 2008 e scopre che le ricette adottate non funzionano e non danno risposte ai problemi della stagnazione permanente, delle diseguaglianze e della precarietà: «decine di milioni della middle class, anche quella alta, che non sanno se riusciranno mai a pagare abbastanza contributi da costruirsi una pensione, persone che entrano nel mercato del lavoro senza prospettive di costruire una carriera a causa di quella che viene eufemisticamente definita “gig economy” per la sua instabilità costante, neolaureati che tra se e la possibilità di darsi una stabilità, comprarsi una casa, hanno una montagna di debiti accumulati per l’università». A descrivere così lo stato delle cose in un saggio di grande interesse è Daniel Alpert, autore nel 2013 di “The Age of Over Supply” che di mestiere fa l’investitore e che assieme a Nouriel Roubini e altri aveva scritto di come e quando sarebbe arrivata la crisi del 2008.
L’interesse del saggio di Alpert sta in due elementi non disgiunti tra loro: i contenuti e il luogo in cui è stato pubblicato. In estrema sintesi il saggio spiega come, in un’epoca di eccesso di offerta (di merci, ma soprattutto di manodopera), per creare lavoro non bastano politiche tradizionali. Il luogo di pubblicazione è però la cosa più sorprendente: il saggio è pubblicato sul sito del think-tank Third Way, Terza via, che si dice moderato e difende l’approccio della sinistra anni 90 all’economia. Ecco, il pensatoio della Terza Via scopre che le ricette utilizzate in questi anni non sono adeguate ai tempi che viviamo e, come ha ironizzato il Washington Post, immaginano politiche “alla Sanders”.
Vediamo un po’. Il dato è semplice: con la globalizzazione e l’ingresso di alcune economie gigantesche nei mercati, l’offerta di manodopera è eccessiva e i lavoratori mal pagati del mondo competono con quelli americani – il discorso vale per l’Europa quasi allo stesso modo – portando verso il basso i salari. Non solo, la ripresa dell’occupazione è molto fatta da lavoro poco specializzato e mal pagato in settori come il commercio e i servizi alla persona – rigidi in termini di domanda, non smettono di creare lavoro, ma non ne creano di buono. Le imprese, poi, sostiene Alpert, non investono in progetti ad alta intensità di manodopera specializzata: il settore americano di punta in questa fase storica è quello della tecnologia informatica, ma per creare software serve un numero relativamente basso di programmatori. Preparati o meno, competitivi o meno, i lavoratori della middle class americana che non eccellono nel loro mestiere, quelli che non escono dalle università migliori, rischiano di non trovare mai un lavoro adeguato. E vivendo la precarietà e l’insicurezza, tendono anche a risparmiare quel che guadagnano, deprimendo così i consumi. Un quadro non dissimile a quando capita in Italia, con la differenza che l’economia Usa è tutto sommato dinamica, quella italiana molto meno.
Cosa fare allora? Costruire ponti. O meglio, fare in modo che più persone ottengano posizioni lavorative ben pagate. Un risultato che, secondo Alpert non si ottiene abbassando le tasse o tenendo bassi i tassi di interesse: due strade percorse che non hanno cambiato la dinamica. Alpert ritiene che nemmeno l’aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora – una campagna portata avanti in molti Stati, che ha ottenuto successi, l’ultimo dei quali nello Stato di New York – sarebbe abbastanza. In effetti i 15 dollari l’ora del salario minimo contribuiscono a mettere più soldi in tasca sono al segmento più basso del mondo del lavoro. La soluzione è dunque far crescere la domanda interna attraverso un programma di infrastrutture – che del resto negli Usa sono spesso vecchie e cadenti. Facciamolo dire a lui:
La strada per Alpert è «Assorbire manodopera in eccesso attraverso una rivitalizzazione intensa delle nostre infrastrutture comuni attraverso la spesa pubblica. Ci sono chiaramente molte altre cose che il governo degli Stati Uniti potrebbe fare per migliorare il quadro economico interno e il benessere dei cittadini: migliorare l’equità fiscale, sviluppare un sistema di assistenza sanitaria universale, razionalizzare le relazioni con alcuni partner commerciali, far crescere l’accesso all’istruzione superiore, proseguire nella riforma delle istituzioni finanziarie, aumentare il salario minimo, e ristrutturare ulteriormente dei debiti rimasti dalla bolla degli anni 2000. Alcuni di questi passi sono controversi, altri meno, ma più o meno tutti avrebbero qualche effetto benefico sul modo incrementale l’economia e le persone degli Stati Uniti. Ma nessuno invertirebbe in maniera drastica il ridimensionamento della ricchezza nelle mani del lavoro».
La proposta di Alper suona molto New Deal: spendere più di mille miliardi di dollari in 5 anni in trasporti, energia, acquedotti e così via. Suona un po’ socialista, ma non lo è. Idee diverse ma simili le avanzava a febbraio su Foreign Affairs (e oggi sul suo sito) Larry Summers, Segretario al tesoro di Bill Clinton e capo del consiglio economico di Obama nei primi anni della sua presidenza. Nemmeno Summers è un estremista di sinistra, anzi, assieme a Robert Rubin è l’architetto di alcune delle deregulation che hanno contribuito a creare alcune delle bolle finanziarie degli ultimi decenni – «ci sbagliammo» disse Clinton nel 2010 parlando dell’assenza di regole imposte sui derivati. Eppure, parlando di «Stagnazione secolare» e fotografando la situazione, Summers torna a parlare con insistenza di Keynes suggerendo una riforma del sistema fiscale e qualsiasi misura che «aumenti la quota di reddito di quella porzione di popolazione con propensione al consumo». Summers parla di aumento dei salari minimi, incentivi alla sindacalizzazione, superamento della dipendenza dai combustibili fossili- ovvero investimenti in ricerca in quella direzione. Negli Usa del 2016, che pure hanno superato la crisi occupazionale e di crescita da qualche anno, si discute animatamente e seriamente di queste cose anche in ambienti che venti anni fa proponevano ricette diverse dalle attuali. Ora guardate a Bruxelles e chiedetevi che fine abbia fatto quella miseria che era il piano Junker.