Apre i battenti il Museo Archeologico nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria, restaurato in tutte le sue sale (per un costo di 30 milioni di euro). Dal 30 aprile è possibile addentrarsi nella storia antica della Calabria e non solo, dalla preistoria all’età romana. Visitando l’intero percorso dell’esposizione permanente, inclusi i Bronzi di Riace. I quattro piani di Palazzo Piacentini custodiscono migliaia di reperti straordinari: bronzi, ceramiche decorate, gioielli, mai esposti e tenuti per decenni nei depositi. L’annuncio è stato dato da Carmelo Malacrino, che da sei mesi dirige il museo reggino. L’ archeologo Salvatore Settis auspicava da tempo la piena realizzazione del Museo della Magna Grecia. Ecco il suo punto di vista, in un’intervista pubblicata su Left in occasione dell’uscita del volume Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace .
Quando furono ritrovati, per caso, da un sub il 16 agosto 1972, a largo di Riace, in Calabria, la notizia della scoperta dei due Bronzi passò quaasi in sordina sui media locali. Lo ricostruisce il volume Sul buono e cattivo uso dei Bronzi di Riace, scritto dall’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis con altri e pubblicato da Donzelli. Ma quando furono esposti a Firenze nel 1980 suscitarono subito grande interesse. Tanto che la mostra fu prolungata e poi riproposta a Roma, su invito del presidente Sandro Pertini Ma all’epoca molti archeologi sottovalutarono il fenomeno, quasi derubricandolo a fatto di costume.
Professor Settis, quella calda risposta di pubblico nel 1980 conteneva invece un’intuizione sull’importanza dei Bronzi di Riace?
A mio avviso è il fatto più nuovo che emerge da questo libro. Ho provato a dirlo. E lo hanno scritto anche gli altri autori senza che ci fossimo messi d’accordo. In quella occasione, di fatto, la professione di archeologo fallì il suo bersaglio. Chi gestì la scoperta non ne intuì l’importanza. Li vollero trattare al pari di altri reperti senza comprenderne la straordinaria singolarità. Ma i Bronzi di Riace, come il libro racconta e documenta, hanno acquistato fama mondiale ed è in continua crescita. Fu un movimento popolare a chiedere il prolungamento di quella mostra senza pretese che a Firenze doveva durare solo tre settimane. E stata la folla a riconoscere – pur non avendo competenze professionali – l’assoluta unicità di questi pezzi. Credo che da tutto questo si debba ricavare una lezione: la cosiddetta cultura popolare, spesso trattata dall’alto in basso dagli intellettuali, contiene in sé germi di consapevolezza che andrebbero letti e sviluppati quando si fanno delle mostre, che non di rado in Italia risultano superficiali; non offrono molto perché sono fatte solo per attrarre persone che però escono senza sapere qualcosa di più.
La vicenda dei Bronzi di Riace può essere una cartina di tornasole dei beni culturali in Italia?
La commissione nominata dal ministro Dario Franceschini, che si è espressa perché i Bronzi non si muovessero da Reggio per andare all’Expo, mi pare sia stata un buon segno. Ora il segnale successivo che aspettiamo è l’apertura del museo di Reggio Calabria nella sua interezza perché possa essere un vero museo della Magna Grecia. È stata una grande delusione che sia rimasto chiuso per tanti anni, nonostante avesse avuto finanziamenti speciali per il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia. Addirittura i lavori erano stati affidati alla Protezione civile – cosa molto singolare – proprio con l’idea che così i lavori si sarebbero conclusi in tempo per quella ricorrenza. Sono passati ancora degli anni e il museo di Reggio è ancora chiuso, eccetto quelle due stanze.
Il neo direttore del museo Carmelo Malacrino prende posizione in questo volume…
È uno dei venti nuovi direttori di musei nominati con la nuova riforma Franceschini e ha manifestato intenzioni molto positive. Il testo che ha scritto per questo libro mi pare sia la sua più chiara dichiarazione programmatica. Ora va aiutato, spero lo facciano tutte le autorità, dallo Stato in giù. Per rendere possibile l’apertura completa del museo e per farlo funzionare, creando strategie di comunicazione che permettano di attrarre il pubblico che merita. Rendendo chiaro che lì non ci sono questi due Bronzi e poi il deserto. Ma anche altre opere sensazionali. Certamente i Bronzi rifulgeranno sempre come la cosa più importante, ma ci sono altre opere coeve che meritano.
Per fare un esempio?
I cosiddetti Pinakes di Locri. Sono una serie di rilievi su terracotta di straordinaria qualità. Rappresentano scene del mito greco, con Persefone, Plutone e altre divinità, in uno stile straordinariamente sofisticato. Si tratta di uno dei più bei prodotti dell’arte della Magna Grecia. Anzi, direi dell’arte greca del V secolo a C., periodo a cui risalgono anche i Bronzi di Riace. Il museo di Reggio dunque può diventare il luogo del dialogo, del confronto fra l’arte della Magna Grecia e quella della Grecia. Perché non c’è dubbio che i Bronzi di Riace siano opera di un maestro greco. Insomma, ora bisogna aprire davvero tutto il palazzo di Reggio con le intere collezioni esposte per bene. Spero che accada nel giro di pochi mesi o di un anno. Visto che era stata annunciata l’apertura nel 2011.
In questo volume il direttore Malacrino scrive anche che un museo, per dirsi tale, deve fare lavoro scientifico, produrre conoscenza e poi fare una adeguata valorizzazione. Il dibattito politico non è molto chiaro su questo punto. Quanto è importante unire tutela e valorizzazione?
È un grande equivoco che tutela e valorizzazione possano seguire strade separate. Questo è avvenuto in Italia a livello di linguaggio giuridico per una malintesa spartizione della torta fra Stato e Regioni. Uso volutamente questa metafora sapendo quanto sia pesante. Nella temperie degli anni Ottanta e Novanta, quando si voleva dare alle Regioni la loro parte, qualcuno si inventò che lo Stato fa tutela e le Regioni fanno la valorizzazione. Ma in qualsiasi Paese al mondo – in Francia, come negli Stati Uniti o in Germania – è del tutto chiaro che la tutela e la valorizzazione fanno parte di un processo unico. Al Louvre o al Metropolitan Museum si metterebbero a ridere se qualcuno domandasse chi di voi fa la tutela e chi la valorizzazione. Tutti fanno l’una e l’altra. Sono basate su una piattaforma comune che è la conoscenza. E alla conoscenza si arriva con la ricerca. Leggere queste parole di Malacrino mi ha fatto un enorme piacere. Ritengo che chiunque fra questi venti nuovi direttori, o altri, abbia un minimo di buonsenso e di professionalità non possa che riconoscere nella ricerca il momento generativo, la radice di qualsiasi lavoro di valorizzazione. Come si faccia a valorizzare qualcosa che non si conosce, io proprio non lo so.
La riapertura delle sei domus a Pompei e quella del museo nazionale dell’Abruzzo a L’Aquila sono passi positivi. Intanto però lo Sblocca Italia promette ancora cemento mentre le soprintendenze sono indebolite e sottoposte alle prefetture. Come sta procedendo il ministro Dario Franceschini?
A me pare un percorso a zig zag. Alcune cose vanno bene. Il caso delle riaperture a Pompei è senz’altro positivo. La legge Madia, che sottopone le soprintendenze alle prefetture, è stata e resta un pessimo segno. Certo non è stato il ministro Franceschini a prendere l’iniziativa però l’ha subita. Fra l’altro nella legge di stabilità è stato introdotto all’ultimo momento un codicillo che dà al ministro la facoltà di accorpare le soprintendenze. Io spero che non la eserciti. Il rischio è che venga messo tutto insieme: l’archeologia, la storia dell’arte e quant’altro, seguendo il modello siciliano. La Sicilia è l’unica Regione che ha ottenuto l’autonomia sui beni culturali: le soprintendenze dipendono dagli assessori, non dal ministro. In Sicilia spesso soprintendenti e direttori di musei sono stati nominati a prescindere dalle loro competenze, per cui possiamo trovare un bibliotecario preposto a un’area archeologica o viceversa. Sarebbe un fatto davvero negativo se, oltre ad essere sottoposti ai prefetti, i soprintendenti non potessero più operare sulla base delle proprie competenze tecnico professionali. È poi del tutto negativo lo Sblocca Italia. O per meglio dire il Rottama Italia come recita il titolo di un libro a cui ho collaborato con molti altri (edito da Altreconomia ndr). Questo provvedimento fa del paesaggio carne di porco con una assoluta deregulation che, a mio avviso, è anti costituzionale.
Dopo Paesaggio Costituzione, cemento e Costituzione incompiuta, sta per uscire un nuovo libro sulla Costituzione per Einaudi?
Si tratta di una raccolta di articoli scritti sul tema della Costituzione negli ultimi cinque anni. Anna Fava ha selezionato miei interventi che non riguardano solo paesaggio e beni culturali, ma anche, per esempio, l’articolo 81 sul pareggio di bilancio. Il governo Monti lo modificò senza che nessuno in Parlamento fiatasse. Penso che quella sia stata la prova generale per la modifica costituzionale che stiamo subendo adesso. Spero che il libro possa costituire un promemoria per i lettori che avranno la pazienza di leggerlo: vista la sveltezza con cui si muove il nostro presidente del Consiglio rischiamo tutti di dimenticare attraverso quali tappe e con quali modalità improprie questa riforma costituzionale sta procedendo.
Colpisce la voragine che si è venuta creando fra l’articolo 9 della Carta e il modo in cui i governi Berlusconi, e non solo, hanno trattato le opere d’arte svuotandole di significato, facendone dei feticci, al più un brand. Una gestione neo liberista dell’arte ha causato tutto questo?
Per rispondere bisognerebbe cominciare con il dire che cosa è un’opera d’arte. Io credo che gli affreschi di Giotto, o per esempio la Commedia di Dante, siano strumenti per pensare. Penso che siano delle costruzioni molto complesse di persone molto intelligenti che hanno cercato di offrire agli altri esseri umani testi (in senso lato) sui quali riflettere riguardo alle cose che vedono, ma anche sulla vita e sul mondo. Questa è la vocazione iniziale dell’arte, dovrebbe essere in primo luogo una riflessione sulla cittadinanza e su se stessi. Il processo di estetizzazione dell’arte, cioè il processo per cui gli affreschi di Giotto o il Partenone o i Bronzi di Riace sono soltanto una cosa bella davanti alla quale genuflettersi senza pensare è un modo per anestetizzare la potenzialità rivoluzionaria dell’arte. L’arte serve se si allontana dalla quotidianità ma non per proiettarci in un’estasi come se dovessimo avere le stimmate da un momento all’altro o un qualche contatto con il divino. Ci fa interrogare sul perché Dante ha scritto quei versi, perché Giotto ha fatto quegli affreschi, come mai c’è il Partenone, con quale intenzione è stato fatto, perché hanno investito tutti quei soldi e quella intelligenza. Se pensiamo a tutto questo con grande serietà, cioè storicamente, ne ricaviamo anche una lezione per il tempo presente. La neutralizzazione attraverso l’estetizzazione crea una bellezza generica che non serve a nulla ed è questa la “reificazione” sulla base della quale poi si possono costruire dei discorsi che depotenziano l’arte, dandole un significato di una fuga dal presente, anziché di richiamo all’intelligenza, alla responsabilità individuale e alla responsabilità collettiva.
Come valuta questa strana idea che hanno i politici italiani di usare le opere come star da mandare in tour, per il G8, per l’Expo, eccetera? A cosa serve?
Serve solo a chi non pensa e vuole che anche gli altri non pensino. Portare i Bronzi all’olimpiade o al G8 è un’idea particolarmente originale? Non mi pare. Portare i Bronzi di Riace all’Expo come un simbolo dell’Italia quando non sono neanche opere italiane, che senso avrebbe? Non furono neanche fatte dai greci dell’Italia meridionale, ma in Grecia. Finirono a Riace per puro caso, perché probabilmente quel giorno ci fu una nave in tempesta che li dovette buttare fuori bordo per poter salvare la vita dei marinai. Portarli all’Expo sarebbe stata la solita rincorsa alle icone anziché fare ricerca per una vera comprensione e conoscenza. Certo è vero che bisogna rivolgersi alla bellezza. E nei Bronzi ce n’è molta. Ma non c’è bellezza senza storia. @simonamaggiorel