La polemica sul polo scientifico di Milano e della sua gestione da parte dell’Istituto italiano tecnologico approda su Nature e Science. Al centro del dibattito, i finanziamenti dall’alto e le regole della ricerca

A fine mese, forse, i primi nodi del “gran pasticcio dello Human Technopole” giungeranno al pettine. E molti, a iniziare del governo Renzi, dovranno scoprire le loro carte. L’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova dovrà consegnare il progetto scientifico da realizzare nell’area ex Expo di Milano, anche alla luce della revisione critica realizzata dai sette anonimi referees internazionali contattati dallo stesso Iit per una peer evaluation. E il governo dovrà dire se approva o no un progetto per la cui elaborazione ha già investito 80 milioni (un po’ caro, ha notato il Presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano) e per la cui realizzazione è disponibile a investire 1,5 miliardi in dieci anni.

Con queste carte in tavola avremo finalmente la possibilità di effettuare, anche nelle sedi istituzionali, quel pubblico dibattito finora negato su una scelta strategica per la ricerca scientifica italiana, come auspicato dallo stesso Napolitano con un intervento di insolita durezza al Senato.
Ma, intanto, il “gran pasticcio dello Human Technopole” ha travalicato i confini del Paese. La polemica sul futuro centro di ricerca, infatti, infuria anche sulle colonne dell’inglese Nature e dell’americana Science, le riviste scientifiche considerate tra le più autorevoli al mondo.

Da un lato, infatti, c’è chi, come John Assad, neurobiologo americano della Harvard medical school di Boston, approva l’operato del governo, critica l’inefficienza del sistema universitario pubblico e attacca la senatrice Elena Cattaneo; dall’altro c’è chi, come Ernesto Carafoli, già ordinario di biochimica presso il Politecnico di Zurigo, mette in evidenza i limiti della politica di ricerca dell’Italia e l’immotivata asimmetria tra i molti soldi messi a disposizione con approccio top-down (decidono le istituzioni dall’alto), di un istituto di diritto privato per un singolo progetto ancora oscuro (150 milioni di euro l’anno, per dieci anni) e i pochissimi messi a disposizione della ricerca pubblica (31 milioni, per tre anni) con un approccio bottom-up (propongono i ricercatori dal basso e le istituzioni finanziano i migliori).

Questo articolo continua sul numero 21 di Left in edicola dal 21 maggio

 

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