Nel 1995, il film di animazione Ghost in the Shell aveva prefigurato un futuro distopico in cui le macchine sviluppavano forme di controllo sugli esseri umani. Ambientato nel 2029, mostrava androidi dotati di anima; uomini con organi o arti meccanici; cervelli dotati di estensioni cibernetiche costantemente connessi in Rete, e quindi vulnerabili ad attacchi informatici; insiemi vastissimi di dati alla base di modi di ricordare e di percepire l’esistenza diversi da quello umano.
Il futuro del film di Mamoru Oshii è forse troppo estremo. Eppure, sembra ormai chiaro che entro il 2030, le macchine potrebbero sostituire l’uomo in molti ambiti.
Da almeno due anni a questa parte, Tokyo punta forte sullo sviluppo di intelligenza artificiale e della robotica. La commissione per la competitività economica del governo giapponese ha recentemente sottolineato quanto questa sarà fondamentale per raggiungere l’obiettivo dei 600 trilioni di yen (circa 5mila miliardi di euro) di Pil entro il 2020.
A causa del rapido invecchiamento della popolazione, nel 2060 il Giappone avrà probabilmente a disposizione metà della forza lavoro attuale. Ad oggi, i robot sembrano offrire una valida alternativa per evitare che la terza economia mondiale scivoli in basso nei ranking globali.
Un discorso che sembra già avviato è quello dell’assistenza agli anziani e ai malati. Al momento, secondo il ministero del Welfare giapponese nel Paese-arcipelago ci sono 1,7 milioni di impiegati nel settore dell’assistenza agli anziani.Tra qualche anno potrebbero non bastare più.
E a fronte di politiche migratorie restrittive e difficoltà burocratiche per le lavoratrici straniere del settore, l’inserimento dei robot rimane per il governo una delle strade più facilmente percorribili per evitare ripercussioni politiche.
Sempre secondo il ministero del Welfare, che nel 2013 aveva condotto un sondaggio tra più di 1.800 persone, il pubblico vede di buon occhio i robot-badanti. Questi ridurrebbero il peso fisico, psicologico e finanziario delle cure sui familiari, e, al tempo stesso, avrebbero un effetto positivo sull’indipendenza dell’assistito. Insomma, in termini di efficienza, i robot avrebbero un notevole vantaggio rispetto all’uomo. Rimane, però, il loro aspetto freddo e inquietante.
Per ovviare in parte al problema, a febbraio 2015, il Riken, uno dei più prestigiosi istituti di ricerca scientifica del Paese, ha presentato Robobear, un automa con tutte le funzioni per l’assistenza sanitaria – in particolare, sollevare e spostare una persona dalla sedia a rotelle al letto, o alla vasca da bagno, e viceversa – ma dall’aspetto rassicurante. I suoi 140 chili di cavi e ingranaggi sono sormontati da una testa metallica da orsacchiotto in stile fumetto giapponese.
Negli ultimi due anni, i robot hanno fatto il loro ingresso anche in altri settori, come l’assistenza ai clienti, l’ospitalità alberghiera e perfino il cinema. Da aprile 2015, Nao, progetto di punta – insieme a Pepper, il robot in grado di “leggere le emozioni umane”, in vendita da giugno dell’anno scorso – della joint-venture tra Softbank, il primo operatore telefonico di rete mobile giapponese, e la francese Aldebaran, accoglie i correntisti della Ufj Mitsubishi in due filiali a Tokyo offrendo loro informazioni sui servizi della banca in cinque lingue. Ad agosto, in un parco divertimenti nei pressi di Nagasaki, Giappone sud-occidentale, ha aperto un hotel interamente gestito da automi: lo Henna (“strano”, in giapponese) Hotel.
Questo articolo continua sul numero 24 di Left in edicola dall’11 giugno