Linguaggio schietto, vivo, ritmato. Che schiocca come un colpo di frusta. E al tempo stesso ammalia con la musicalità interna delle frasi. È una prosa poetica e insieme feroce quella che lo scrittore turco Hakan Günday usa per mettere a nudo i criminali che lucrano sulle speranze dei migranti. Lo fa nel romanzo Ancòra (Marcos y Marcos) raccontando chi scappa da guerre e fame, rischiando la vita per cercare di raggiungere l’Europa. Lo fa indagando i carnefici, senza fare sconti a nessuno.
E la vicenda del romanzo è tanto più dirompente perché è vista con gli occhi di un bambino, Gazâ, figlio di un trafficante, Ahad, che gli insegna a tenere a bada i migranti da trasportare in camion fuori dalla Turchia. Il padre lo educa a diventare spietato nel fare la guardia alle persone che aspettano un barcone senza sapere nulla di quel che accadrà. «I trafficanti sono gli unici a sapere cosa c’è al di là dell’attracco. E cinicamente mercanteggiano illusioni» dice Günday che martedì 14 giugno apre il Festival Letterature di Roma, insieme a Claudio Magris in una serata di “Memorie migranti”.
La micidiale lezione che Ahad dà a suo figlio è “rassegnati”, “la legge della sopravvivenza è vita mea mors tua“. Gazâ obbedisce. Arrivando a lucrare sulle bottigliette d’acqua che avrebbe dovuto distribuire gratis, avendo osservato che i migranti in quelle condizioni non possono ribellarsi e sono disposti a tutto. Sembra drammaticamente aver perso gli affetti, il senso dell’umano, si sente morto dentro. Ma proprio quando precipita così in basso, accade qualcosa, riesce a vedere la disperazione di queste persone e a vergognarsi di se stesso. E allora scappa lasciandosi alle spalle il padre e la sua educazione alla disumanità. Con in tasca un origami, una rana di carta verde, che gli ha regalato un piccolo clandestino afghano, Gazâ inizia un lungo viaggio, che è anche interiore, alla ricerca di se stesso. Che Hakan Günday scandisce capitolo per capitolo prendendo a prestito termini dalla pittura “sfumato”, “chiaroscuro”, “cangiante”…A poco a poco nella mente di Gazâ rifioriscono colori, emozioni, passioni che aveva “dimenticato” . «Ho immaginato che quel viaggio per lui potesse essere come una rinascita» racconta lo scrittore che da alcuni anni è tornato a Istanbul , dopo aver vissuto in Europa .
«Gazâ è come un bambino soldato in Africa – approfondisce -. Un bambino che nasce in queste condizioni può cambiare la sua situazione? Il suo è un viaggio verso lo specchio, il suo passato è così mostruoso che non riesce a vedere se stesso, non riesce a vedere chi è veramente, viaggia per poter diventare un uomo diverso dal padre. Come se quel viaggio fosse per poter vedere il proprio volto, sapere chi è davvero, al di là di tutte le aspettative culturali, familiari che lo avevano modellato fino a quel momento. E come se dovesse liberarsi del ruolo di mostro che gli è stato assegnato dagli adulti». La scelta di un protagonista del romanzo così giovane, del resto non è casuale, sottolinea l’autore di Ancòra. «Perché i bambini fanno domande, chiedono perché. E gli adulti sono chiamati a rispondere. Anche se più spesso, dicono “questo lo capirai da grande”, che in verità sottintende “a questo ti abituerai quando sarai grande”».
E invece Gazâ non chiude le orecchie, non si rassegna a quel ripetuto “daha” dei migranti. In turco significa “ancòra”, una delle poche parole turche che le migliaia, se non a milioni, di migranti trasitati in Turchia nel corso degli anni e pronunciano, per chiedere acqua, cibo, una possibilità.
«Ho scritto questo libro nel 2013 – ricorda Hakan Günday -, all’epoca ai naufragi di migranti erano dedicate poche righe sui giornali, non c’erano informazioni, non c’erano i loro nomi, né perché emigravano. L’unica identità che avevano era quella di morto. Dopo aver attraversato migliaia di chilometri e diventavano visibili agli occhi dei più solo da cadaveri. Sui giornali non si diceva nulla neanche di quelli che trafficavano con la loro vita. Scrivere questo libro è stato per me un po’ come studiare come funzionano le dittature e il linciaggio.
Volevo ridare un volto e un’identità a chi era diventato solo un trafiletto». L’Occidente e la stessa Turchia hanno una responsabilità in tutto questo? «Le persone che vediamo all’addiaccio fuori dalla nostra finestra sono il risultato di secoli di disuguaglianze. Molte tragedie che vediamo adesso in tv ci vedono responsabili. Siamo stati noi a distruggere la Siria, mandando armi, partecipando al conflitto di quel paese, appoggiando ora l’uno ora l’altro. Ma siamo stati responsabili anche con il nostro silenzio. Abbiamo creato un vacuum, un vortice di violenza, ora tocca a noi ricostruire la Siria dopo aver combinato tutto questo».