Muore Bernardo Provenzano, il capo dei capi, il boss di Cosa Nostra che capì per prima che per fare affari e sopravvivere la mafia doveva imparare a sommergersi. S’è raffinato, Provenzano nel corso della sua carriera criminale: da ladro di bestiame ed esperto di macellazione clandestina sotto l’ala protettrice di Luciano Liggio agli inizi degli anni cinquanta Provenzano il “ragionere” (come lo chiamavano per non citarne il nome gli appartenenti di Cosa Nostra durante la sua latitanza) è arrivato fino al trono più alto della consorteria criminale siciliana.
Lo chiamavano ‘u tratturi per la ferocia con cui eliminava i nemici. Negli annali della storia rimane la scena con cui il 10 dicembre del 1969 uccise il boss Michele Cavataio nella cosiddetta “strage di viale Lazio” stordendolo prima con il calcio della sua Beretta e poi finendolo a colpi di pistola.
Provenzano è stato, assieme a Totò Riina, la guida della seconda guerra di mafia che ha portato i corleonesi da semplici villani a capi indiscussi di Cosa Nostra. Erano gli anni ’80 quando Riina e Provenzano insediarono la nuova “commissione” composta da uomini fedeli alla loro linea.
Poi ci furono le stragi, il ’92, Falcone e Borsellino e poi gli attentati del ’93. L’Italia scossa da una controffensiva mafiosa che sembrava non voler finire. Quando in quell’anno arrestarono Totò Riina (che dentro Cosa Nostra sono in molti a pensare che “fu venduto” proprio dallo stesso Provenzano) zio Binnu prende in mano il comando e comincia a confezionare la mafia moderna: basso profilo, usare meno pallottole possibile, niente stragi e un lento processo di immersione che diventa poi normalizzazione. Cosa Nostra diventa liquida e Provenzano un fantasma.
Quarantatré anni di latitanza però non avvengono per caso: Provenzano forse non doveva essere preso e il cordone di sicurezza che ne garantiva l’anonimato e la protezione non fu composto solo da mafiosi. Quando nel 1993 il pentito Cancelli si costituisce e dichiara di essere disponibile a fare da esca per un appuntamento con il capo dei capi i Carabinieri decisero di non muoversi. Diranno che lo pensavano morto.
Poi c’è la vicenda ancora non del tutto chiarita del boss Ilardo: il reggente mafioso di Caltanissetta divenne confidente del colonnello Michele Riccio svelando il luogo della latitanza di Provenzano a Mezzojuso. Dice Ilardo che il Colonnello Mario Mori non gli dette uomini e mezzi per poter intervenire. Ilario viene ammazzato. E il fantasma di Corleone rimane libero.
Una serie di circostanze che rimangono senza risposta: se Provenzano è rimasto in libertà così a lungo forse a qualcuno, nelle stanze dei bottoni, faceva comodo così: il processo sulla trattativa Stato – Mafia indaga anche su questo.
Poi c’è l’arresto del 2006. Quelle immagini così poco confacenti all’epica del personaggio: un vecchietto ammuffito rinchiuso in un casolare nei pressi di Corleone circondato da formaggi, santini e i pizzini, i minuscoli foglietti scritti a macchina con cui comunicava all’esterno. È proprio la fitta rete di postini dei pizzini a tradirlo e a permetterne la localizzazione.
Ma anche in carcere, Provenzano, è stato un punto interrogativo: prima lascia intendere di essere disposto a parlare (durante un incontro con il senatore Beppe Lumia e l’europarlamentare Sonia Alfano e poi interrogato dai magistrati di Palermo) e proprio quando sembra possibile vedere un filo di luce e verità ecco la malattia: Provenzano peggiora, dicono che abbia tentato il suicidio con un sacchetto di plastica, racconta al figlio di essere stato picchiato in carcere fino a diventare vegetale. E oggi muore. Come sempre con un tempismo perfetto.