Chiudendo la convention di Cleveland il candidato repubblicano dipinge un Paese in preda al caos, promette pugno duro e presenta se stesso come l'unica soluzione possibile

L’America è al collasso, il numero degli omicidi è in aumento, i nostri poliziotti in pericoli e torme di terroristi si aggirano per le nostre città. La colpa è di Obama e con Hillary Clinton tutto rimarrà uguale.

«Né io né nessuno in questa sala ha mai visto o conosciuto un’America più pericolosa. Questo presidente ha abbandonato le inner cities americane». Il discorso apocalittico di accettazione della nomination da parte di Donald Trump è privo di ricette precise per come risolvere la situazione catastrofica che lo stesso candidato repubblicano dipinge. La ricetta è una e una sola: «Io e solo io posso rimettere le cose a posto, far tornare l’America grande». Perché? Perché vi amo, conosco il sistema come nessun altro e solo io sono in gradi di cambiarlo e aggiustarlo, perché sono la vostra voce e perché non firmerò mai e poi mai un accordo commerciale sbagliato.

Trump scommete sulla paura generate in questi giorni dalla morte dei poliziotti a Dallas e Baton Rouge e dalle proteste degli afroamericani, come all’inizio e durante la sua campagna per le primarie ha scommesso sulla paura degli immigrati e del terrorismo. L’America deve chiudersi in se stessa, venire a patti con dittatori e personaggi scomodi, lasciare che gli alleati della Nato se la cavino da soli e gettare nel cesso i trattati commerciali che hanno portato le fabriche in Cina e Messico. Il programma è questo. Più, naturalmente, un taglio delle tasse per i più ricchi accompagnato da tagli alla spesa equivalenti. Il campione di scacchi Kasparov, fuggito negli Usa dalla Russia di Putin, twitta: «Ho ascoltato questo discorso molte volte, non suona bene nemmeno in russo».

Ecco, se c’è uno specifico nel programma di Trump è quello su spesa e tasse. Per il resto non sappiamo nulla. Se non che l’America che dipinge non è il faro sulla collina pieno di speranza descritto da Ronald Reagan, convinto di essere migliore dell’Impero del male sovietico e, quindi, destinato a vincere. Il reaganismo è morto con Trump e il movimento isolazionista, conservatore che lo sostiene. A tornare è la versione precedente del conservatorismo Usa, quello di Nixon e degli anni in cui, la maggioranza silenziosa, spaventata dai movimenti di protesta, dalle Pantere nere, dalla rivoluzione sessuale, delusa e depressa dal Vietnam, in fuga dalle città troppo violente e in preda a un’epidemia di droga scelsero di voltare le spalle al progressismo degli anni ’60. Come scrive Megan McCain, figlia del senatore candidato del 2008, «Il partito di cui ero parte è morto»

 

Cosa altro è il suo «La prima cosa che farò è riportare sicurezza: costruiremo un muro alla frontiera per fermare gli immigrati, le gangs e la loro violenza e il fiume di droga che si riversa sulle nostre comunità», se non un vecchio disco fascistoide proveniente da un’altra era geologica? Che infatti è piaciuto molto all’ex Gran capo del Ku Klux Klan David Duke (che si potrebbe candidare alla Camera)

Oggi gli Usa non sono in preda a una crisi simile, ma assistono come tutto il resto del mondo a trasformazioni epocali, che ne ridimensionano il potere assoluto avuto dal 1989 al 2001 – e perso anche grazie alle catastrofiche avventure dell’ultimo presidente repubblicano in Iraq e Afghanistan. E, a differenza per dire dell’Europa, hanno risposto al cambiamento reagendo piuttosto bene. Certo, negli anni di Obama la Cina non è scomparsa e neppure la minaccia del terrorismo. Ma non è aumentato il crimine, i flussi migratori si sono ridimensionati e i posti di lavoro aumentati.

Ma numeri e realtà non sono il forte di Donald Trump, che promette Legge&Ordine, e dipinge Hilary Clinton come la marionetta dei poteri forti che come Segretario di Stato ha lasciato un’eredità di «Morte, distruzione, morte e debolezza» e tutti i media e le corporation sono con lei perché vuole lasciare le cose come stanno.

Trump ha fatto un discorso per i suoi. Del resto in una intervista rilasciata al New York Times ha detto: «Quel che rimane da questa convention è l’aver constatato che piaccio alla gente». È vero, c’è un pezzo d’America bianca, non giovane e spaventata dal cambiamento che adora il miliardario newyorchese, le sue parole forti, le sua sparate. Ma per il resto l’America del 2016 non sembra un Paese terrorizzato e in reda a una crisi epocale tale da affidarsi a uno sceriffo platinato come Trump. Se c’è una parte del discorso che il candidato repubblicano fa che potrebbe funzionare con l’elettorato moderato è proprio quella per cui Clinton non cambierà le cose mente lui, il non politico che conosce il business, è pronto a trasformare l’America e farla tornare grande. L’outsider tutto promesse e niente piani definiti contro il sistema immobile è l’unica chiave possibile per TheDonald. Se riuscirà a convincere gli americani saranno dolori per tutti. Hillary avrà bisogno, per fermarlo, dell’entusiasmo della sinistra e i suoi lo hanno capito. Lo slogan del mattino, della campagna Clinton è: l’unico ostacolo tra Trump e la Casa Bianca siamo tutti noi.