A inizio 2016 il Centro europeo antiterrorismo dell’Europol (l’Ectc creato dopo gli attentanti di Parigi) ha diffuso un rapporto sul nuovo modus operandi del Daesh in Europa, frutto delle audizioni dei responsabili delle intelligence e delle polizie dei Paesi membri. Ad essere presi in esame sono i combattenti stranieri, che per l’Onu sarebbero 25.000 provenienti da 100 nazioni.
Nel caso dei foreign fighters, si legge nel dossier, «la componente religiosa e la radicalizzazione, nel reclutamento è sostituita da elementi sociali come la pressione dei pari e i modelli di ruolo»: coetanei che vivono la stessa condizione, motivandosi a vicenda, creandosi un personaggio quasi come in un video game tragico. Ci sono poi i legami sociali, come l’appartenenza a «comuni gruppi sociali, etnici, area geografica e lingua». Il tutto «può avvenire molto rapidamente» e l’età gioca un ruolo determinante: «I più giovani si trovano a essere più impressionabili e rapidamente radicalizzabili, rispetto ai candidati più anziani».
Per l’Ectc, in questo processo «possono svolgere un ruolo anche considerazioni personali», ma alla base di questa scelta c’è «anche la prospettiva romantica di essere parte di un’importante ed emozionante sviluppo», in quanto questi «kamikaze si vedono più come eroi che come martiri religiosi». Tanto da agire, «come dimostrano le riprese di Parigi, in maniera emotivamente distaccata». L’elemento nuovo emerso dalla ricerca è che «prima che entrassero a far parte del Daesh a una percentuale significativa di combattenti stranieri (il 20% secondo una fonte, anche maggiore secondo un’altra) sono stati diagnosticati problemi mentali». Mentre l’80% «ha precedenti penali che variano dai reati minori ai più gravi, che sembrano differire a seconda del Paese».
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