New York – La peggiore campagna della storia d’America si è conculsa nel modo peggiore immaginabile. Ohio, Pennsylvania, forse Michigan e Wisconsin tutta la cintura industriale in decadenza ha voltato le spalle ai democratici che votava da diverse elezioni e deciso di credere a quel che le ha raccontato Donald Trump. La gente che Bruce Springsteen canta nelle sue ballate più strazianti vuole tornare a contare. E per farlo si affida alle promesse di un candidato che parla come loro, non ha mai governato nulla, né è mai stato eletto, non ha fatto il militare.
È stata una notte lunghissima, molti Stati sono assegnati per pochi voti, ma fin dalle prime proiezioni tra i democratici serpeggiava lo sconcerto. Per ogni Stato si aspettavano con ansia i dati delle contee dove vivono le minoranze e delle città. E a New York, la città di Trump, ma sua nemica, tutti nei bar, per strada, nella metropolitana non si staccavano dai cellulari o dagli schermi per capire cosa stesse succedendo. A New York, i giovani di successo l’America che ha votato Trump non la conoscono. Nel Bronx, a Staten Island, invece, probabilmente, molti vecchi figli di immigrati lo hanno votato. Anche loro sentono che il sogno americano gli sta evaporando tra le mani.
Nelle città e nelle aree dove vivono le minoaranze Hillary ha vinto, ma con molti meno voti di quelli necessari per portare a casa lo Stato. E molti meno di quanto ne prese Obama nelle stesse contee. Per i democratici è un disastro: perdono la Casa Bianca, non riprendono il Senato. E ora Trump nominerà un giudice alla Corte Suprema facendola tornare conservatrice – e la giudice Ginsberg, liberal, è più che ottuagenaria.
La voglia di tornare a contare delle aree rurali, delle contee marginali, delle piccole città dove le high street si sono svuotate di negozi e nulla sembra rimpiazzare quel che scompare ha vinto sullo scarso entusiasmo dei giovani e delle minoranze. E le donne non si sono spaventate abbastanza. Oppure i maschi si sono spaventati molto loro all’idea di eleggere una donna. La volontà di tornare a contare ed “essere grandi”, ha cambiato la storia della politica americana. La rivolta dell’elettorato americano contro Washington ha spazzato via la candidata che come nessun altro rappresentava l’establishment. I democratici si mangeranno le mani per quattro anni per aver scelto di dare carta bianca a a Hillary Clinton, una pessima candidata che non ha saputo stringere una relazione con la gente – lo hanno fatto al posto suo Obama, Biden, Michelle e Sanders, ma sulla scheda c’era il suo nome.
Per mesi abbiamo erroeamente sostenuto che Clinton era una pessima candidata ma che contro Trump ce l’avrebbe fatta. Niente di più sbagliato: Hillary avrebbe potuto vincere contro un altro pezzo dell’establishment, contro Jeb Bush, o contro un candidato ultraconservatore come Ted Cruz. Non contro l’uomo che aveva una storia da raccontare, la raccontava bene e si comportava costantemente in maniera opposta al senso comune. Il senso comune dei media e di Washington.
Come in Francia, Gran Bretagna, Ungheria in forme diverse e peculiari, anche gli Stati Uniti hanno ceduto al populismo. Non è una novità. Non tanto e non solo perché il populismo, questo connubio di parole per il popolo diseredato, rabbia e – qui – di una specie di razzismo non esplicito (o meglio, non teorizzato) ha una storia, vanta dei partiti e delle figure che hanno condizionato la vicenda politica nazionale – il People’s party a fine 800, Huey Long, governatore della Louisiana a inizio 900. Ma perché dalla vittoria di Obama a stanotte, abbiamo assistito solo a vittorie della protesta, degli outsider contro il potere. Contro la stessa Hillary, contro Obama nel 2010, di Obama contro il miliardario Romney, negli anni di Occupy Wall Street. E poi al successo clamoroso dello stesso presidente eletto e di Bernie Sanders alle primarie. Molti che votarono Obama otto anni fa, oggi hanno votato repubblicano. È una contraddizione solo se la giudichiamo con parametri tradizionali. Se registriamo il fatto che la gente è stufa e stanca, ha paura del futuro e non trova risposte, allora capiamo perché si affida a chi annuncia il cambiamento. Qualsiasi esso sia.
Parlando alla platea entusiasta e incredula ha parlato di unire il Paese, avere grandi rapporti con tutti i Paesi, sognare in grande, elogiato Hillary Clinton. È un personaggio che vuole piacere a tutti e ha promesso di lavorare con i democratici, parlato di infrastrutture. Ha moderato il suo messaggio, insomma. Come e se riuscirà a farlo è difficile da dire: il partito che lo ha accettato controvoglia è più conservatore di lui, odia più di lui i democratici e si prepara a una vendetta sena prigionieri per far dimenticare gli otto anni di Obama. Nemmeno questo sarà facile: togliere l’assicurazione sanitaria a 20 milioni? Stabilire che il matrimonio gay non è più costituzionale?
Clinton non ha parlato. Mandando in platea il capo del suo staff, John Podesta, ha fatto l’ennesima pessima figura: chi perde concede con un discorso. Lei forse parlerà oggi (domani in America). La sua carriera politica è finita. Il 2016 ha spazzato via le dinastie Bush e Clinton.
I democratici e la campagna Hillary2016 hanno sbagliato mille cose. Dato per scontato il voto ispanico contro il nemico dei messicani, quello degli afroamericani, non hanno avuto un messaggio, una narrazione e hanno sottovalutato Trump. Il nuovo presidente se ne è infischiato dei sondaggi, nonha seguito le regole della politica, ha snobbato i media ma ha saputo usarli a suo piacimento nonostante fossero quasi tutti schierati contro di lui. E violando le regole ha vinto. Facendo perdere i poteri forti – coni quali cercherà di stringere alleanze – e smentendo sondaggisti e media che evidentemente non conoscono il Paese che raccontano. La maggioranza silenziosa, quella che si rivoltò contro gli anni 60, i diritti civili ed elesse Nixon dando via alla rivoluzione conservatrice, non parla con i sondaggisti ma vota. E oggi ha cambiato la faccia dell’America e del mondo. Cosa ci sia da aspettarsi davvero non lo sappiamo. Non è ancora mattina in America.