È un tumore che colpisce quasi seimila donne ogni anno in Italia. Il cancro all’ovaio è un «killer silenzioso» perché non sempre i sintomi sono facili da riconoscere e spesso si manifestano tardivamente, quando la patologia è già in fase avanzata. Quasi l’80 per cento delle diagnosi avviene quando le possibilità di guarigione sono limitate. Complici il modo subdolo, asintomatico, con cui si sviluppa, la scarsa informazione e strumenti di diagnosi, fin qui, non altrettanto efficaci di quelli che si utilizzano, per esempio, per il tumore al seno.
Una ricerca dell’Istituto Mario Negri ora prospetta una importante svolta. La diagnosi precoce del carcinoma ovarico si potrà fare con l’analisi del sangue. «Si tratta di un campo di ricerca ancora largamente inesplorato» spiega Maurizio D’Incalci, capo dipartimento di oncologia dell’Istituto diretto da Garattini «I dati vanno presi con cautela e validati in ulteriori studi». Ma «L’analisi comparativa dei profili di miRNA serici di 168 pazienti affette da tumore sieroso ad alto grado e di 65 donne di età simile, ma non affette dalla stessa malattia, ha tuttavia evidenziato delle differenze importanti e riproducibili. In particolare vi erano delle differenze nell’espressione di tre miRNA denominati miR1246, miR595 e miR2278».
I miRNA sono delle piccole molecole di RNA che svolgono importanti funzioni regolatorie. «Sono molecole molto stabili e per questo si è scoperto di recente che vengono utilizzate dal tumore e dai tessuti del nostro organismo come degli importanti messaggeri intracellulari», spiega una nota diffusa dall’Istituto Mario Negri. In sintesi «funzionano sia all’interno della cellula sia dopo essere rilasciati in circolo come messaggeri di un processo tumorale o infiammatorio».
Interessante anche il fatto che lo studio pubbicato su Cancer letter ( clicca sul titolo della rivista di oncologia per leggere l’originale in inglese) dica che questa ricerca potrà servire anche per stabilire se gli stessi biomarcatori sono potenzialmente utili per misurare l’efficacia della terapia in modo più sensibile rispetto alle valutazioni tradizionali di tipo radiologico.
«La possibilità di rintracciare nel sangue di un paziente le molecole che sono rilasciate dai tumori – conclude Maurizio D’Incalci – rappresenta un nuovo, valido strumento, anche meno invasivo, per migliorare i percorsi diagnostici e terapeutici».