«Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza». Questa frase di Gramsci, ormai diventata cult, non era frutto di retorica propaganda. Per l’autore dei Quaderni dal carcere rappresentava una precisa scelta politica, spiegata in centinaia di pagine. La scuola veniva considerata un elemento fondamentale per la formazione dell’uomo – scriveva proprio così – e quindi la politica di sinistra che si ponesse l’obiettivo di cambiare la società avrebbe dovuto per forza potenziare e promuovere l’istruzione dei suoi cittadini. Si è appellato a Gramsci anche Matteo Renzi nel suo discorso al Lingotto alla ricerca di una “egemonia culturale” per il Pd. Peccato che l’ex presidente del Consiglio sia stato l’artefice di una riforma della scuola semifallita, come del resto ha riconosciuto lui stesso dal palco di Torino: «Pensavamo che investire tante risorse sulla scuola fosse importante ma le modalità con cui lo abbiamo fatto sono discutibili».
A quasi due anni da quella legge 107 voluta fortissimamente dall’ex premier insieme a Stefania Giannini, l’unico ministro a essere “licenziato” dal governo Gentiloni, che cosa sta accadendo alla scuola italiana? E soprattutto, con quale idea di istruzione si può ripartire? Perché è indubbio che mai come adesso il sistema scolastico italiano necessiti di contenuti, di didattica, di una visione generale. In questi ultimi due anni il dibattito si è focalizzato infatti soltanto su singoli problemi dell’organizzazione scolastica, mentre in queste settimane si parla molto degli otto decreti attuativi.
Left questa settimana propone una ricerca un po’ più approfondita su quale potrebbe un’idea di scuola valida oggi, in una società complessa, in cui i bisogni culturali ed educativi dei bambini e dei ragazzi italiani cambiano in continuazione. Così nell’ampio sfoglio di primo piano affrontiamo il problema della formazione dei docenti con Giuseppe Bagni, presidente del Cidi (centro di iniziativa democratica degli insegnanti. Il quale auspica una maggiore collaborazione tra mondo accademico e mondo della scuola, superando quella separazione esistente fino a oggi che ha impedito una vera ricerca nella didattica delle discipline. Bisogna che si riacquisti fiducia nell’insegnante, dice. Con Giorgio Crescenza, che ha curato insieme con Angela Maria Volpicella Una bussola per la scuola (Edizioni Conoscenza) cerchiamo di definire quella “scuola che educhi a pensare, che valorizza le differenze” così diversa da quella che emerge dalla riforma renziana. Il saggio di Crescenza e Volpicella, con il contributo di pedagogisti ed insegnanti, vuole dare anche degli strumenti concreti, delle coordinate pedagogiche soprattutto.
Franco Lorenzoni, maestro elementare, esperto di educazione e autore di un libro appassionato sulla scuola primaria, I bambini pensano grande (Sellerio 2014), in un’ampia intervista racconta che cosa sia adesso la scuola elementare, un luogo in cui gli studenti arrivano quasi fosse un “pronto soccorso culturale”. C’è da ricostruire tutto, relazioni e metodo didattico, cose non impossibili da realizzare e che tanti insegnanti riescono a creare ognuno nella propria scuola. «Non c’è da una parte una scuola accogliente, che cura le relazioni, e dall’altra una scuola seria e rigorosa che istruisce – dice Lorenzoni – . Questa contrapposizione la creano ad arte opinionisti come Galli della Loggia. La scuola diventa capace di costruire e diffondere cultura tanto più riesce ad essere accogliente, tanto più è in grado di curare le relazioni reciproche». Anche Lorenzoni tocca il tema della formazione degli insegnanti auspicando un miglior funzionamento delle facoltà di Scienza della formazione.
Ma a cosa serve la scuola? Risponde con una sua analisi Elisabetta Amalfitano, docente di Filosofia e autrice del libro Le gambe della sinistra (L’Asino d’oro, 2014) e di Dalla parte dell’essere umano. Il socialismo di Rodolfo Mondolfo (L’Asino d’oro, 2012). «A scuola impariamo a essere liberi», scrive Amalfitano. Perché significa pensare, scegliere, realizzare se stessi. E anche rifiutare un’idea di essere umano che certa cultura e politica propongono. Insegnare è un atto politico, nel senso più alto del termine. «Conoscere non è solo rapporto tra individuo e mondo, ma tra individuo e individuo: a scuola impariamo a vivere e a pensare insieme agli altri, socraticamente. La scuola è il luogo dove si realizza a pieno la dimensione sociale, dove è possibile rompere il muro dell’impossibile, dove si trasmette ai ragazzi l’idea che ce la possono fare, che possono cambiare, migliorare, essere diversi da come sono soliti pensarsi».
Infine, dopo il fallimento della Buona scuola cosa deve fare la sinistra per la scuola? Mentre il candidato alla segreteria Pd Michele Emiliano si limita a dire che bisogna «azzerare la legge 107», e mentre un breve accenno viene anche dallo scissionista Bersani, a sinistra del Pd in questo momento storico non si nota una grande attenzione al problema dell’istruzione e della conoscenza dei più giovani. Eppure, come hanno dimostrato le politiche scolastiche di altri Paesi europei, investire nella scuola, sarebbe fondamentale per lo sviluppo complessivo della società e dell’economia. Giuseppe Benedetti nel suo commento suggerisce un percorso: riprendere il pensiero pedagogico di Antonio Gramsci che già negli anni 30 si trovava a combattere sia contro l’idealismo gentiliano della scuola d’élite che contro il positivismo socialista che considerava la scuola solo come base propedeutica al lavoro. Nella sua idea di unità, di fusione tra sapere intellettuale e professionale, sta forse una possibilità di uscita anche per la scuola italiana di oggi. Dopo trent’anni di riforme che si contraddicono a vicenda ognuna portatrice di verità che non corrispondono alla realtà delle giovani generazioni, ripartire da Gramsci può rappresentare un segnale di speranza anche per la sinistra che troppo spesso perde una visione generale dei problemi. E quello dell’istruzione necessita davvero di uno sguardo a 360 gradi.
Di scuola italiana parliamo sul numero di Left in edicola