Con una piattaforma digitale i cittadini lanciano proposte e partecipano all'amministrazione della città. E possono anche segnalare i casi di corruzione. La sfida catalana spiegata dall'economista italiana chiamata da Ada Colau a guidare l'assessorato all'Innovazione

C’è una domanda che da qualche tempo turba i media italiani, provocando immediate reazioni e il sorgere di schieramenti contrapposti. La domanda è: la web democracy può rappresentare una via d’uscita alla crisi della partecipazione politica da parte dei cittadini?

Che l’argomento sollevi un polverone si è visto anche all’inizio di aprile quando la sindaca di Roma Virginia Raggi e l’assessora Flavia Marzano hanno presentato la proposta di modifica dello statuto comunale di Roma Capitale introducendo strumenti di democrazia diretta – così l’hanno definita – come petizioni online, bilancio partecipato e referendum senza quorum. Subito c’è stato chi ha fatto notare che non ci sarebbe niente di nuovo sotto il sole, visto che le petizioni e i referendum sono strumenti di partecipazione popolare previsti anche dalla Costituzione. Danilo Toninelli, il deputato M5s membro della Commissione affari costituzionali, ha replicato dai microfoni da “Tutta la città ne parla” su di Radio3 che in 70 anni non sono state fatte le leggi attuative dei principi relativi alla democrazia diretta enunciati nella Carta e che i sindaci italiani non sono proprio usi a rispondere alle petizioni in consiglio comunale.
I Cinque stelle a Roma vorrebbero quindi passare dalle parole ai fatti. L’esperienza capitolina, in effetti, non è casuale. Roma è una delle città italiane, insieme a Torino, Milano e Napoli, ad avere un filo diretto con Barcellona, la capitale catalana dove la democrazia partecipata online fa parte della vita quotidiana dei cittadini. E dove dal mese di giugno 2016 è assessora all’innovazione tecnologica un’economista italiana, Francesca Bria. Prima di essere chiamata dalla sindaca Ada Colau, che guida la città grazie alla vittoria del suo movimento Barcelona En Comù, Bria aveva lavorato ad un progetto europeo gestito dall’agenzia inglese Nesta e indirizzato allo studio della democrazia digitale in Europa. Il progetto aveva coinvolto i Pirati tedeschi, Podemos, il M5s e alcune esperienze di mutualismo dal basso. «L’obiettivo era vedere quale uso della tecnologia si faceva negli altri Paesi e come stavano cambiando i partiti politici», dice l’economista a Left. Quel lavoro di sperimentazione e di analisi sulla costruzione di nuove piattaforme digitali è stato il nucleo fondante della sua attività a Barcellona. Il ruolo di Bria è infatti quello di coordinare e definire la strategia digitale della città catalana. Un percorso “naturale”, dopo la vittoria di Colau. «Barcelona En Comù ha un’esperienza di governo piuttosto nuova e nasce proprio con la caratteristica della democrazia partecipata, perché nella storia stessa della sindaca c’è proprio il provenire dai movimenti popolari. La partecipazione dei cittadini alla politica pubblica è uno dei cardini di questa esperienza di governo».
L’applicazione della democrazia digitale – spiega – avviene per le politiche della casa, del diritto all’abitare, fino alla pianificazione urbanistica e al bilancio partecipato. «Anche noi abbiamo un Pam, un documento di programmazione per questo mandato amministrativo ed è stato scritto con la partecipazione di 30mila cittadini, attivi sia online che offline, attraverso assemblee di quartiere e consulte più o meno tradizionali», continua Francesca Bria, che spiega anche come funziona il portale Decidim Barcelona attraverso cui i cittadini lanciano proposte per «implementare i nostri progetti».
Ma perché la parte tecnologica è così importante? «È come se avessimo cocreato un workshop di politica pubblica. E lo facciamo con una tecnologia molto intuitiva, perché la nostra applicazione è anche sui cellulari. E poi lavoriamo molto sull’analisi dei dati, e per spiegare ai cittadini il problema da risolvere, utilizziamo anche le infografiche e mettiamo a disposizione open data». Perché, spiega Francesca Bria, «non basta un’esperienza meccanica, non si tratta di mettere un click o un like, perché si possa parlare di democrazia partecipata». Occorre, invece, che la conoscenza del problema sia diffusa, che i cittadini siano informati, che i problemi da risolvere siano argomentati, visualizzati con tutti i dati a disposizione: «Rispetto alla partecipazione automatica nei social media o rispetto alla news consumata in fretta, noi stiamo lavorando sul senso della partecipazione dei cittadini anche rispetto ai bisogni dei loro quartieri». Anche perché la web democracy da sola non avrebbe efficacia: «c’è la continua interazione tra la partecipazione alla piattaforma digitale e le assemble nei quartieri», precisa l’economista.
La trasparenza delle amministrazioni, un obiettivo così difficile da raggiungere in Italia, visto anche l’insuccesso del Foia (Freedom of information act) dopo 4 mesi dalla sua entrata in vigore, a Barcellona sembra ormai una realtà acquisita. «Tutti i dati si possono verificare, c’è un continuo feedback anche con operatori del data journalism. E, d’altra parte, visto che Barcelona En Comù come Podemos è arrivata al potere anche per via di una critica serrata alla casta e alla corruzione istituzionale, abbiamo messo tutti i dati, anche i nostri», dice ridendo Bria. Non solo: è possibile anche segnalare gli eventuali abusi di potere o episodi di corruzione: «Abbiamo creato una infrastruttura, la Bustia etica, basata sulla tecnologia di decrittazione dei dati, che protegge l’anonimato e che viene usata anche da Wikileaks. Così incentiviamo il wistleblowing interno con la protezione delle fonti».  Anche in questo caso Barcellona è una città apripista in Europa.
Ma quali sono i possibili rischi della web democracy? «Il problema c’è quando non si vede che questi processi di organizzazione online non sono un’alternativa alla forma di partecipazione nel territorio, nelle piazze, attraverso la discussione, il dibattito», dice ancora Bria: «La rete non può sostituire questo rapporto di partecipazione dal vivo». E allora, continua l’assessora, non si può liquidare la questione della democrazia digitale secondo la dicotomia democrazia sì o democrazia no, ma su come viene praticata. «Del resto la partecipazione digitale è ormai diventata parte integrante della vita delle persone, quindi è normale che se ne faccia un uso politico», sottolinea. Come ha fatto notare sempre sulla trasmissione di Radio3 Nadia Urbinati, «la web democracy è reale e globale e non ci può scandalizzare tanto. L’innovazione tecnologica che inventa strategie nuove e di pratica politica di cittadinanza, non la si può fermare. Nel senso che la democrazia è per sua natura, dai tempi antichi, aperta alle innovazioni che devono risolvere problemi d partecipazione. Non si può né demonizzare né esaltare».
Secondo Francesca Bria, di fronte alla crescente mancanza di fiducia dei cittadini nei confronti delle politiche di austerità, «l’unico antidoto, l’unica risposta possibile ai populismi di destra che fanno leva proprio sulla insoddisfazione, sulla delusione e sulla protesta, sono queste forme di democrazia diretta. Solo in questo modo i cittadini riprendono il protagonismo nella politica e si mettono in gioco. La lezione che viene dalla Spagna è proprio questa: allargare gli spazi della democrazia, se no vince il populismo di destra».

(da Left n.16 del 22 aprile 2017)

Una laurea in Filosofia (indirizzo psico-pedagogico) a Siena e tanta gavetta nei quotidiani locali tra Toscana ed Emilia Romagna. A Rimini nel 1994 ho fondato insieme ad altri giovani colleghi un quotidiano in coooperativa, il Corriere Romagna che esiste ancora. E poi anni di corsi di scrittura giornalistica nelle scuole per la Provincia di Firenze (fino all'arrivo di Renzi…). A Left, che ho amato fin dall'inizio, ci sono dal 2009. Mi occupo di: scuola, welfare, diritti, ma anche di cultura.