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Dalla favoletta sull’abolizione della “riforma Fornero” all’incubo. Così il governo Meloni peggiora il sistema pensionistico

Dalle promesse agli incubi. Potremmo definire così l’ennesimo intervento sul sistema previdenziale da parte di un Governo che, partito dalla promessa di cancellare la legge Fornero, sta facendo di tutto per farla rimpiangere.
La manovra di bilancio indica, ancora una volta, che dietro alle singole misure in materia previdenziale c’è una scelta molto precisa e chiara: la rinuncia a qualsiasi riforma che possa avere le caratteristiche dell’equità e della solidarietà. Nessuna risposta per le giovani generazioni, nessun confronto su come dare soluzioni alle discontinuità, nessun interrogativo sull’impoverimento costante delle pensioni in essere che, già penalizzate da un carico fiscale più alto che in tutta Europa e maggiore anche rispetto ai lavoratori, subiscono la continua perdita del potere d’acquisto stante le incessanti manomissioni al sistema della rivalutazione. L’Italia è uno dei Paesi in cui l’età di pensionamento è più alta e in cui continuano a morire sul posto di lavoro lavoratori anziani.
Dopo la scelta scellerata di dare seguito seguito al meccanismo di adeguamento dell’età pensionabile in riferimento all’aspettativa di vita, che significherà maturare il diritto alla pensione di vecchiaia a 67 anni e 3 mesi nel 2027 e a 67 anni e 5 mesi nel 2029, e quella di sospendere o rendere nulle sostanzialmente tutte le forme di flessibilità in uscita a partire da opzione donna, ci ha pensato il maxiemendamento del Governo a completare la stangata a danno dei lavoratori.
Nel maxi-emendamento si prevede, infatti, il progressivo allungamento delle finestre di decorrenza delle pensioni anticipate fino a sei mesi dal 2035 che, nei fatti, considerando anche l’adeguamento alla speranza di vita già citato, porta l’accesso alla pensione anticipata a 43 anni e 9 mesi di contribuzione nel 2035.
Le persone saranno costrette a lavorare più a lungo, e rischiano di aumentare, in ragione dei processi di espulsione dai luoghi di lavoro, i periodi che rimangono scoperti fra lavoro e pensione. A questo si aggiunge la penalizzazione che si vuole introdurre sul riscatto degli anni di laurea. Il riscatto di questo periodo, infatti, varrà per la misura dell’assegno pensionistico, ma i contributi pagati non saranno conteggiati pienamente per il calcolo del tempo di accesso al diritto previdenziale. Alcune stime ci dicono che chi riscatterà la laurea potrà, nel 2035, dover avere oltre 46 anni di contribuzione prima di andare in pensione.
Ancora una volta lo Stato cambia le regole, lo fa certamente con e per una logica di risparmio ma, in realtà, lo fa per determinare la rottura del principio di affidamento fra Stato e lavoratori e di certezza del diritto previdenziale, soprattutto nei confronti di chi avrà un ingresso tardivo nel mercato del lavoro e carriere più discontinue.
Dopo le levate di scudi sui giornali, la Presidente del Consiglio ha subito promesso che le norme sul riscatto della laurea non saranno retroattive. Non si tratta di bontà né di comprensione della gravità degli interventi che si sommano; semplicemente qualcuno deve averla avvisata della probabile incostituzionalità di una norma così pasticciata.
Ma restano le intenzioni per il futuro. Resta un partito, la Lega che fa propaganda ogni giorno con il suo Segretario e Ministro dei Trasporti, salvo poi, con il Ministro dell’Economia, smantellare chirurgicamente il diritto a una pensione dignitosa.
Ascolteremo certamente ancora le promesse di Salvini e Durigon per i mirabolanti interventi a favore delle pensioni che si faranno nel 2026. Rimangono, infine, i fatti. E i fatti ci dicono che, com’è sempre accaduto negli ultimi anni, le destre colpiscono il lavoro e i diritti, a partire da quello previdenziale.

Olimpiadi 2026. Tutto regolare, per definizione

La cancellazione dell’abuso di ufficio smette di essere una discussione astratta e diventa cronaca giudiziaria. A Milano la procura chiede l’archiviazione del filone sulle assunzioni “vip” legate alle Olimpiadi invernali 2026. Le carte parlano di favoritismi, segnalazioni “caldamente” inoltrate, carenze di trasparenza, benefit difficili da giustificare. Le conclusioni restano scritte nero su bianco. La conseguenza penale evapora. L’abuso di ufficio esce dal codice e con lui esce anche il reato. 

La riforma voluta dal ministro Nordio e approvata dalla maggioranza nel luglio 2024 produce così i primi effetti concreti. Indagini che arrivano a un punto fermo, ricostruzioni complete, responsabilità descritte, e poi il vuoto giuridico. I pubblici ministeri lo scrivono con chiarezza: i fatti restano, la sanzione penale cade. Resta solo il possibile giudizio contabile, con gli atti trasmessi alla Corte dei Conti per valutare danni erariali. Sul piano penale la partita si chiude. Anzi, a ben vedere non si apre nemmeno.

Dentro quel vuoto scorrono cognomi pesanti, contratti ben pagati, rimborsi, auto con autista, chiamate che arrivano dal potere. Tutto documentato. Tutto definito “malsano” dagli investigatori. Tutto incapace di superare la soglia del processo. L’abolizione dell’abuso di ufficio agisce come una spugna: pulisce il quadro giudiziario lasciando intatta la fotografia politica.

La promessa era tutelare gli amministratori “inermi” davanti alla firma. Il risultato visibile riguarda grandi eventi, fondazioni opache, reti di relazione. La legge cambia e la realtà si adegua, con una rapidità che impressiona. Le indagini restano come racconti morali, privi di sbocco penale.

Dite la verità. Davanti a questo esito, davanti a inchieste lavate via per scelta legislativa, ora vi sentite davvero più garantiti?

Buon venerdì.

Foto di Wusel007 – Opera propria

Prima gli insulti, poi gli errori

Avevano ragione i “poveri comunisti”. La ministra dell’Università aveva definito gli studenti di Medicina che la contestavano ad Atreju “inutili”. Quelli esasperati gridavano che il semestre filtro di medicina ideato dal governo fosse un pasticcio burocratico che rischia di fare perdere un anno di studi (e di progettazione della propria vita), sottolineando che le prove contenessero anche degli errori. “Inutili” e “poveri comunisti” sono state la risposta ufficiale del governo.

Poi la ministra ha detto che sì, c’erano due errori nella prova, spiegando che per tutti «nel caso della seconda domanda sbagliata, verrà riconosciuto un punto. Quindi nel compito di fisica si partirà da un punto. È vero, c’era un errore nel documento».

Infine, dal ministero sono trapelate voci che la ministra starebbe rivedendo il semestre filtro dopo l’incontro con il Consiglio nazionale degli studenti universitari (Cnsu), l’organo consultivo di rappresentanza degli studenti iscritti ai corsi di laurea, di specializzazione e di dottorato di ricerca delle università italiane, composto da 30 membri, che si è insediato qualche giorno fa. Al question time alla Camera Bernini spiega che «questa è una riforma che cammina con gli studenti» e «non vi erano certezze su quello che sarebbe accaduto e su quali sarebbero stati i risultati d’esame». Per questo, spiega la ministra, ci saranno dei «correttivi».

Par di capire quindi che i poveri comunisti avessero buone ragioni. Talmente buone da modificare le posizioni di una ministra che fino a pochi minuti prima li irrideva. Resta quindi una domanda: chi è inutile in tutta questa storia?

Buon giovedì.

Foto WP

Dal ponte sullo Stretto al plauso di Mosca: la giornata tipo di Salvini

Nel giro di poche ore Matteo Salvini incassa due colpi. Ora sta lì, stordito all’angolo, anche se conoscendolo si può scommettere che sia convinto di avere vinto ai punti.

La Corte dei conti ha ripetuto per l’ennesima volta che il ponte sullo Stretto di Messina, quel ponte sullo Stretto di Messina, è un guazzabuglio da dilettanti. I problemi economici, strutturali e ambientali del progetto del MIT non sono un’invenzione dei comitati e dei cittadini che da mesi scendono in piazza (grazie!). Quel progetto è fatto male. Non sta in piedi, verrebbe da dire. Figuratevi il ponte che aveva in mente. Così, alla seconda bocciatura (l’altra era del 17 novembre), i soldi destinati al circo di propaganda del leader della Lega (780 milioni) vengono spostati al 2033. Tanti saluti da Messina.

Nel frattempo Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri del criminale Vladimir Putin, esprime la sua più ampia soddisfazione per avere in Italia un alleato come Salvini che non nasconde la sua irrefrenabile piaggeria per la Russia. L’imbarazzo è tale che perfino il leghista, presidente della Camera, Lorenzo Fontana decide di intervenire per smentire il suo segretario.

La maggioranza di questo governo è una combriccola scassata tenuta insieme dalla recitazione bifronte di Giorgia Meloni che per ora ancora funziona. Tajani è già stato congedato dai Berlusconi, anche se finge di non avere sentito. La Lega sfaldata attende il suo segretario sulla riva del fiume. Fratelli d’Italia è unita dall’abbuffata di prebende.

Basterebbe avere qualcosa di appena più credibile.

Buon mercoledì.

Sugli Stati Uniti Carlo Rovelli ha ragione, ma per motivi sbagliati

In un suo articolo sul Corriere del 10 dicembre, Carlo Rovelli plaude alla svolta americana come viene prefigurata nella National Security Strategy (Nss) resa pubblica nei giorni scorsi come ad «un raggio di luce nel buio dell’attuale situazione politica internazionale». La svolta, secondo Rovelli, sarebbe che gli Usa riconoscerebbero che era stato un errore sostenere che il mondo dovesse essere da loro guidato.

Più di metà del Pil mondiale proviene oggi da Paesi che non fanno parte dell’Occidente. Anche se non vi è un’altra evidente “superpotenza”, il mondo è oggi multipolare. Non so però quanto sia vero che la Nss riconosca questa multipolarità, accettandola, come afferma Rovelli. E non è chiaro neppure che l’alternativa sia per l’Occidente difendere il suo dominio globale– come questo avrebbe fatto finora, a partire dagli stessi Usa – con guerre ininterrotte. Accettare che il mondo sia multipolare dal punto di vista economico non significa accettare, automaticamente, che lo sia anche dal punto di vista militare e dell’influenza globale. Tutto, invece, fa pensare che, proprio perché il mondo è ormai ineludibilmente multipolare dal punto di vista economico, gli Stati Uniti, avendo perso il primato, vogliono fare in modo di restare l’unica e dominante super-potenza militare.

Tutto il resto, nell’articolo di Rovelli, torna, a partire dalle giustificazioni che gli Europei – e i loro diretti “eredi” come Stati Uniti e Canada – hanno dato del loro predominio in nome del “progresso” e, più di recente, della “democrazia”. «Il ri-bilanciamento economico è già avvenuto», dice Rovelli, «e l’Occidente è a un bivio storico: scatenare l’inferno per cercare di preservare ancora per un po’ il dominio militare e politico sul mondo. Oppure accettare il multilateralismo, le legittime aspirazioni di vastissime aree del pianeta a seguire la loro strada, culturale e politica, senza piegarsi al volere occidentale». Ma siamo sicuri che Trump e gli Usa si stanno muovendo in quella direzione, addirittura «capaci di guardare un po’ più in là del loro naso»?

Tanto per cominciare, Trump sta facendo il cow-boy con il Venezuela – anzi, meglio, il pirata – mentre “compra” le elezioni in Honduras e Argentina (a caro prezzo, di cui gli stanno rendendo conto a casa sua). Il prossimo nel mirino sembra essere l’Ecuador di Petro. E perché? Perché vuole il dominio assoluto – militare e politico, ma anche economico – sul continente americano, secondo una tutta sua dottrina Monroe rivisitata. In secondo luogo, gli Stati Uniti, e con loro gli Europei, si erano sempre fatti paladini del diritto internazionale, arrivando ad affermare che, se c’era qualcosa di cui si macchiavano le autocrazie non poteva che essere illegale e contro i diritti umani, mentre le democrazie, per definizione, non potevano che agire nel bene e per il bene. Ma essi hanno “reinterpretato” quel diritto, prima andando a mettere il naso in casa d’altri – in Serbia (Kosovo), in Iraq, in Libia, in Siria – come in Ucraina (in cui dal 2004 hanno pescato nel torbido, solo per portarla dalla parte della Nato) e chiudendo entrambi gli occhi di fronte alle violazioni di quello stesso diritto internazionale da parte di Israele fin dalla sua nascita. Da sempre – e soprattutto da quando è finita la guerra fredda – gli Usa hanno agito per affermare il proprio dominio. E proprio ora che quello economico viene meno, va rafforzato quello militare, avendo in mente di mettere in riga la Cina e i suoi eventuali alleati.

Lo scenario internazionale sta cambiando. Gli Usa vogliono giocare la partita da soli, l’isolazionismo gli serve a quello. Magari facendosi amiche le autocrazie che possono essere utili, come quella russa, liberandosi del peso del sostegno alla Ue (e incentivando, invece, i rapporti bilaterali con i paesi europei), per poi concentrarsi sulla propria supremazia militare sul mondo. E l’economia, in questo, può servire a fiaccare nemici e “amici” (mettendoli in ginocchio per renderli più mansueti), nella convinzione che dove non arriva il soldo arriva il fucile. È una vera strategia da super-potenza solitaria e suprema, altro che multilateralismo.

Certo, «L’Europa non ha bisogno degli Stati Uniti. Non ha bisogno di armarsi, tanto meno al livello folle del 5% dei Pil, quando quasi nessuno nel mondo spende a questo livelli». Certo, «l’Europa non ha ragione di avere paura della Russia», né «ha necessità di ‘punire’ la Russia e sentirsi l’arbitro del mondo», come afferma Rovelli. Si dia da fare per far valere le istituzioni internazionali – e quindi agisca su Israele – e si troverà «alleata a tre quarti del mondo». «L’Europa si adoperi per affrontare in maniera multilaterale, assieme, i problemi veri dell’umanità». Ma non perché anche Trump sia di quell’avviso: non lo è affatto, e farà di tutto per affermare la supremazia Usa (e negli Usa, dei “veri” americani). Certo, «è un’opportunità», per l’Europa, ma sono le destre di tutti i Paesi a non volerlo, perché – come Trump – vogliono un mondo dove a dominare sia il suprematismo bianco (e occidentale).

in apertura disegno di Marilena Nardi

Per loro il Paese sicuro è quello senza dissenso

Crediti: M.Bariona

Nel mondo ideale di Giorgia Meloni e Matteo Salvini un ministro qualsiasi, perfino Piantedosi, deve essere libero di acciuffare un imam a caso, rinchiuderlo in un Cpr e poi firmare un foglio di via per l’Egitto. Se quell’imam si chiama Mohamed Shahin, sta a Torino da decenni con la sua famiglia, è stimato anche da ambienti cattolici (“buonisti”, scrive stamattina Il Giornale) e in Egitto rischia la vita, sono fatti suoi.

Del resto, sempre il quotidiano diretto ora da Tommaso Cerno definisce il presidente Al Sisi “un moderato”. Quindi, ricapitolando: Shahin brutto sporco cattivo, il carnefice di Giulio Regeni invece è una brava persona. Il manicheismo di governo funziona così: buoni e cattivi, bianco o nero. Il mondo è così meravigliosamente semplice, da quelle parti.

Nel Paese democratico che il governo vorrebbe scassare via referendum invece la detenzione e l’espulsione rimangono, seppur flebilmente, ancorati a quel vecchio vizio del diritto. Così quando un giudice mette nero su bianco che non basta essere antipatico al governo (e utile ai suoi giornali) per essere un terrorista, la dirimpettaia di Garbatella che sta a Palazzo Chigi strepita. «Con questi giudici la sicurezza è impossibile!», ha dettato ieri ai suoi editorialisti proni. E loro, stamattina, furiosi a vergare titoli dalla fine del mondo.

Era prevedibile. Per questa destra il Paese sicuro è quello in cui non c’è possibilità di incorrere nel dissenso, nemmeno in un’argomentata obiezione. È la sicurezza della rendita delle proprie idee, oltre alle posizioni. Per questo l’istinto di comandare si mangia qualsiasi possibilità di provare a governare.

Buon martedì.

In foto fiaccolata a Torino per la scarcerazione di Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn Al Khattab di San Salvario, Torino, novembre 2025. foto di Marioluca Bariona Crediti: M.Bariona

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Leva per davvero?

Le recenti mobilitazioni studentesche in Germania contro l’ipotesi di reintroduzione della leva dimostrano che i giovani non gradiscono ed anzi respingono la retorica militarista dei loro governanti così come l’ipotesi di essere mobilitati per andare in guerra.
Questo è senza dubbio un fatto positivo.
Tuttavia per mettere a fuoco una questione così delicata bisognerebbe chiarire cosa è “fuffa” e cosa è sostanza nelle bellicose esternazioni dei “volenterosi” governanti europei. Le dichiarazioni di reintroduzione della leva come passo necessario per sostenere una guerra contro la Russia nei prossimi anni è senza dubbio da considerare “fuffa”. Non solo perché si parla di leva volontaria (un nonsenso) ma perché per mandare i coscritti in guerra non serve necessariamente la leva ma servono invece due cose ben precise: la mobilitazione generale a seguito di una dichiarazione di guerra ufficiale o la mobilitazione generale a seguito di una invasione subita. Per fare la guerra (senza dichiarazione ufficiale) ossia per portare la guerra oltre i propri confini, invadere ed occupare territori di Paesi terzi servono invece, udite udite, i volontari. Perché?
Perché per qualsiasi governo la gestione politica dei morti volontari risulta molto più semplice dei morti coscritti: era il loro mestiere. E in più i volontari molto difficilmente disertano…
La guerra è quindi diventata un’opzione agile e molto utilizzata in politica estera proprio grazie al volontariato professionale. Molti ancora oggi credono che la sospensione della leva sia stata una vittoria dei movimenti pacifisti e non violenti ma è piuttosto evidente che si tratta di un abbaglio se non dell’esatto contrario. Primo perché l’esercito non venne abolito ma ne venne semplicemente trasformato l’assetto da difensivo ad offensivo, secondo perché ciò che venne di fatto abolito, ossia cancellato, fu proprio il diritto all’obiezione di coscienza quello sì una conquista di civiltà. Il riconoscimento di questo diritto e la parificazione del servizio civile a quello militare fu definitivamente spazzato via in favore del mestiere delle armi e della ricattabilità sociale della truppa volontaria.
Il nuovo modello di difesa basato sul volontariato professionale è stato introdotto a seguito di una precisa richiesta degli Stati Uniti rivolta ai propri partner al summit Nato di Roma del 1991. Dopo il crollo sovietico e dopo la prima guerra del Golfo venne imposto un cambio repentino e radicale di dottrina per le forze armate europee: non più fanteria d’arresto per resistere ad una eventuale fantomatica invasione sovietica ma corpo di spedizione con una truppa professionalizzata (con una ferma di almeno 4 anni) in grado di integrarsi negli standard tecnici ed organizzativi anglo-statunitensi di proiezione di forza. Non è questa una congettura di chi scrive o “un gomblotto che non ce lo dicono” ma è invece indicato in modo chiaro negli stessi Libri Bianchi della Difesa che hanno accompagnato tutto il processo.
Ed ecco la vera notizia: da oltre un trentennio i governi (centrodestra e centrosinistra) di quasi tutti i Paesi europei hanno fatto la guerra e sostenuto invasioni (senza dichiararle ufficialmente come tali e persino contro direttive ONU) utilizzando non eserciti di leva bensì eserciti di volontari.
Nessun governo avrebbe potuto spedire in Iraq o Afghanistan un coscritto, contro la sua volontà, senza adeguato addestramento ma soprattutto senza dichiarare guerra a quei Paesi.
In questo lungo arco temporale non abbiamo difeso il Paese da invasioni ed aggressioni ma abbiamo noi invaso ed aggredito demolendo il così detto diritto internazionale, destabilizzando e gettando nel caos intere regioni e provocando milioni di morti grazie ad un mix letale fatto di bombardamenti, scontri a fuoco e sanzioni.
E, incredibile ma vero, riuscendo con ciò ad affossare anche gli stessi interessi nazionali classicamente intesi.
La saldatura sempre più stretta tra ministero della Difesa, ministero degli Esteri e ministero dello Sviluppo Economico con l’industria bellica nazionale ha naturalmente accompagnato la belligeranza permanente trasformando i governi in piazzisti d’armi e le missioni militari in vetrine e banchi di prova per i prodotti nazionali. Questo è oggi il nodo centrale che bisognerebbe aggredire: possono essere le esigenze commerciali dell’industria bellica a determinare politica estera, industriale e di difesa di un Paese?
Se oggi si torna a parlare di leva (volontaria) e guerra alla Russia lo si fa per giustificare la corsa agli armamenti e al tempo stesso rilanciare in maniera più estesa l’opzione del reclutamento volontario perché tutti gli eserciti soffrono una crisi di vocazione che i governi vogliono e devono colmare per mantenere e rilanciare la belligeranza. Oggi come ieri nessun governo europeo si assumerà la responsabilità di obbligare giovani e meno giovani ad andare in guerra senza dichiararla. Ma la guerra si farà comunque perché lo straripante riarmo in corso indica una chiara necessità “di mercato”.
Dove? Il confronto diretto con Russia e Cina è davvero improbabile perché una guerra contro questi due Paesi ci condurrebbe diritti verso un suicidio termonucleare assicurato.
Se prendiamo per buone le indicazioni contenute nei documenti ufficiali di riferimento come la Bussola Strategica europea, i teatri operativi che hanno in mente i nostri grotteschi governanti potrebbero trovarsi in Africa e in Asia dove Russia e Cina sono diventati partner produttivi, finanziari e militari di molti governi mentre l’America Latina sembra essere tornata, almeno nelle intenzioni, il giardino di casa degli Stati uniti…
Fermare il folle riarmo nazionale ed europeo e mollare la Nato è l’unica strada su cui ci si dovrebbe concentrare per scongiurare le guerre a venire e per rilanciare politiche di distensione internazionale, cooperazione e giustizia sociale. Concentriamoci su questo e sul disarmo nucleare perché la leva, come ha chiarito lo stesso Crosetto “non la vuole nessuno”… Per i governanti “volenterosi” è molto più conveniente mandarci a morire volontari. Trasformare la truppa in un corpo sociale separato a disposizione del governo di turno è un modello di militarizzazione collaudato che ha funzionato sia per fare la guerra che per far regredire la democrazia costituzionale.

Ben venga Atreju

Ben venga Atreju, anzi, raddoppiamola se possibile. Ben venga Atreju per dissipare vicinanze scambiate per opposizione. Ci sono i giovani meloniani che gridano «Bravo!» a Calenda mentre attacca Salvini, chiedendogli di sostituire il leghista nella compagine di maggioranza. C’è Matteo Renzi che improvvisa lazzi con Crosetto e Donzelli.

Come scrive il giornalista Simone Alliva, «Atreju è la foto dell’opposizione italiana: invitata, ordinata, parlante. Sale sul palco della destra, litiga un po’, punge a turno, poi scende. Non sfida il potere: lo arreda».

Ben venga un’altra Atreju, presto, prestissimo, per ascoltare Giorgia Meloni che vorrebbe citare per danni i giudici che hanno fatto rispettare la legge su quell’immondizia legale e morale che sono i centri in Albania. Ben venga Atreju per riportare Meloni al suo primo amore, il fantasy di cui scriveva nel suo blog agli albori di internet: una presidente del Consiglio che emette una contro-sentenza sul delitto di Garlasco per scaldare gli sfinteri è una scena da Checco Zalone.

Ben venga Atreju per sentire una capa di governo invocare il «buon senso» per una famiglia nel bosco, con il retequattrismo da nuovo codice civile e codice penale. Ben venga Atreju per smutandare Meloni nella sua ossessione per Francesca Albanese. Ben venga Atreju per mostrare il suo digrignare di denti verso Elly Schlein, che ha deciso di non essere un complemento d’arredo alla sagra dei Fratelli d’Italia.

Ben venga tutto. Anzi, ne serve di più, ancora di più. Così, anche se la presidente del Consiglio non si degna di parlare con i giornalisti, basterà osservarla alla sua fiera per trarne le conclusioni.

Buon lunedì.

Giorgia Meloni alla manifestazione Atreju Foto Di it:indeciso42 – archivio personale, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=145096404

L’Europa in armi e a corto di realtà

Sentite qua: «È possibile che la priorità di chi ci governa oggi sia affrontare tutti i giorni il tema di come reagire alla minaccia della guerra?».
E poi: «Se guardate l’Unione europea, oggi abbiamo molti più poveri e disuguaglianze rispetto ai rischi potenziali che derivano da una minaccia reale – non percepita o teorica – della guerra. Forse l’Europa si sta concentrando su priorità che non sono quelle che consentono di costruire un futuro a medio-lungo termine. La parte di difesa è indispensabile, ma se diventa l’unico argomento di discussione, si perde il contatto con la realtà, con le persone che vivono i nostri Paesi».

A pronunciare queste parole ieri, durante l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Luiss di Roma, non è stato un brigante pacifista e nemmeno un classificato “putiniano”. È lo stralcio di un discorso a braccio, pubblicato dal quotidiano Il Domani, di Carlo Messina, consigliere delegato e amministratore delegato del gruppo Intesa Sanpaolo. Un gruppo bancario tutt’altro che santo quando si parla di interessi trasversali sugli armamenti e quindi anche sulle guerre.

Che la guerra sia l’ultimo rifugio degli incapaci non lascia dubbi. Ma in questi mesi stiamo assistendo anche alla guerra come bromuro di qualsiasi altra istanza, comprese le più fondamentali per la dignità – se non addirittura la sopravvivenza – dei cittadini europei.

Che Trump sogni lo sbriciolamento dell’Europa non lascia molti dubbi. Farlo diventare l’unico punto dell’agenda politica è il miglior regalo che gli si possa fare.

Buon venerdì.

 

Foto di Jørgen Håland su Unsplash

Il burro di Netanyahu: 700 milioni per lisciare l’opinione pubblica europea

La guerra ibrida è come il burro: ammorbidisce la retorica, lubrifica la costruzione del nemico e rende più saporito il gusto amaro del bellicismo. Se con qualche tocco riesci a portare in tavola guerra ibrida tutti i giorni puoi permetterti una divisione manichea tra buoni e cattivi, puoi martellare gli avversari politici senza bisogno di stare nel merito delle cose. È un balsamo, la guerra ibrida. 

La guerra ibrida russa occupa lenzuolate intere sui giornali e accese discussioni nelle trasmissioni televisive. Ce ne sarebbe un’altra, guardando bene, che però rimane in sordina. Lo dicono le carte, mica i pro-pal: nel bilancio 2026 Israele ha portato a 2,35 miliardi di shekel, poco meno di 700 milioni di dollari, il budget per la sua propaganda all’estero, quadruplicando lo stanziamento del 2025, che a sua volta era stato presentato come venti volte superiore ai livelli degli anni precedenti. I fondi saranno gestiti in larga parte dal ministero degli Esteri e da altre strutture governative. 

L’hasbara del governo Netanyahu punta a riabilitare l’immagine un po’ ammaccata di uno stato guidato da un ricercato internazionale che negli ultimi anni si è dedicato al genocidio dentro Gaza, all’eradicamento dei palestinesi in Cisgiordania e a svignarsela da un processo per corruzione. 

Da cittadini italiani e europei si dovrebbe essere piuttosto preoccupati su come quei 620 milioni di euro possano condizionare le scelte politiche, militari e industriali della nostra classe dirigente. Pensandoci bene ci si dovrebbe attrezzare per riconoscere il parlamentare, il giornalista o l’influencer lautamente ricompensato per le sue carezze a Netanyahu. Questa guerra ibrida invece non stuzzica, non indigna, anzi addirittura scompare. 

È il doppio standard, bellezza. L’ingrediente fondamentale per le guerre ibride, Come il burro. 

Buon giovedì.

Foto WP