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Dal ponte sullo Stretto al plauso di Mosca: la giornata tipo di Salvini

Nel giro di poche ore Matteo Salvini incassa due colpi. Ora sta lì, stordito all’angolo, anche se conoscendolo si può scommettere che sia convinto di avere vinto ai punti.

La Corte dei conti ha ripetuto per l’ennesima volta che il ponte sullo Stretto di Messina, quel ponte sullo Stretto di Messina, è un guazzabuglio da dilettanti. I problemi economici, strutturali e ambientali del progetto del MIT non sono un’invenzione dei comitati e dei cittadini che da mesi scendono in piazza (grazie!). Quel progetto è fatto male. Non sta in piedi, verrebbe da dire. Figuratevi il ponte che aveva in mente. Così, alla seconda bocciatura (l’altra era del 17 novembre), i soldi destinati al circo di propaganda del leader della Lega (780 milioni) vengono spostati al 2033. Tanti saluti da Messina.

Nel frattempo Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri del criminale Vladimir Putin, esprime la sua più ampia soddisfazione per avere in Italia un alleato come Salvini che non nasconde la sua irrefrenabile piaggeria per la Russia. L’imbarazzo è tale che perfino il leghista, presidente della Camera, Lorenzo Fontana decide di intervenire per smentire il suo segretario.

La maggioranza di questo governo è una combriccola scassata tenuta insieme dalla recitazione bifronte di Giorgia Meloni che per ora ancora funziona. Tajani è già stato congedato dai Berlusconi, anche se finge di non avere sentito. La Lega sfaldata attende il suo segretario sulla riva del fiume. Fratelli d’Italia è unita dall’abbuffata di prebende.

Basterebbe avere qualcosa di appena più credibile.

Buon mercoledì.

Se Rovelli ha ragione per motivi sbagliati

Illustrazione di Marilena Nardi

In un suo articolo sul Corriere del 10 dicembre, Carlo Rovelli plaude alla svolta americana come viene prefigurata nella National Security Strategy (Nss) resa pubblica nei giorni scorsi come ad «un raggio di luce nel buio dell’attuale situazione politica internazionale». La svolta, secondo Rovelli, sarebbe che gli Usa riconoscerebbero che era stato un errore sostenere che il mondo dovesse essere da loro guidato.

Più di metà del Pil mondiale proviene oggi da Paesi che non fanno parte dell’Occidente. Anche se non vi è un’altra evidente “superpotenza”, il mondo è oggi multipolare. Non so però quanto sia vero che la Nss riconosca questa multipolarità, accettandola, come afferma Rovelli. E non è chiaro neppure che l’alternativa sia per l’Occidente difendere il suo dominio globale– come questo avrebbe fatto finora, a partire dagli stessi Usa – con guerre ininterrotte. Accettare che il mondo sia multipolare dal punto di vista economico non significa accettare, automaticamente, che lo sia anche dal punto di vista militare e dell’influenza globale. Tutto, invece, fa pensare che, proprio perché il mondo è ormai ineludibilmente multipolare dal punto di vista economico, gli Stati Uniti, avendo perso il primato, vogliono fare in modo di restare l’unica e dominante super-potenza militare.

Tutto il resto, nell’articolo di Rovelli, torna, a partire dalle giustificazioni che gli Europei – e i loro diretti “eredi” come Stati Uniti e Canada – hanno dato del loro predominio in nome del “progresso” e, più di recente, della “democrazia”. «Il ri-bilanciamento economico è già avvenuto», dice Rovelli, «e l’Occidente è a un bivio storico: scatenare l’inferno per cercare di preservare ancora per un po’ il dominio militare e politico sul mondo. Oppure accettare il multilateralismo, le legittime aspirazioni di vastissime aree del pianeta a seguire la loro strada, culturale e politica, senza piegarsi al volere occidentale». Ma siamo sicuri che Trump e gli Usa si stanno muovendo in quella direzione, addirittura «capaci di guardare un po’ più in là del loro naso»?

Tanto per cominciare, Trump sta facendo il cow-boy con il Venezuela – anzi, meglio, il pirata – mentre “compra” le elezioni in Honduras e Argentina (a caro prezzo, di cui gli stanno rendendo conto a casa sua). Il prossimo nel mirino sembra essere l’Ecuador di Petro. E perché? Perché vuole il dominio assoluto – militare e politico, ma anche economico – sul continente americano, secondo una tutta sua dottrina Monroe rivisitata. In secondo luogo, gli Stati Uniti, e con loro gli Europei, si erano sempre fatti paladini del diritto internazionale, arrivando ad affermare che, se c’era qualcosa di cui si macchiavano le autocrazie non poteva che essere illegale e contro i diritti umani, mentre le democrazie, per definizione, non potevano che agire nel bene e per il bene. Ma essi hanno “reinterpretato” quel diritto, prima andando a mettere il naso in casa d’altri – in Serbia (Kosovo), in Iraq, in Libia, in Siria – come in Ucraina (in cui dal 2004 hanno pescato nel torbido, solo per portarla dalla parte della Nato) e chiudendo entrambi gli occhi di fronte alle violazioni di quello stesso diritto internazionale da parte di Israele fin dalla sua nascita. Da sempre – e soprattutto da quando è finita la guerra fredda – gli Usa hanno agito per affermare il proprio dominio. E proprio ora che quello economico viene meno, va rafforzato quello militare, avendo in mente di mettere in riga la Cina e i suoi eventuali alleati.

Lo scenario internazionale sta cambiando. Gli Usa vogliono giocare la partita da soli, l’isolazionismo gli serve a quello. Magari facendosi amiche le autocrazie che possono essere utili, come quella russa, liberandosi del peso del sostegno alla Ue (e incentivando, invece, i rapporti bilaterali con i paesi europei), per poi concentrarsi sulla propria supremazia militare sul mondo. E l’economia, in questo, può servire a fiaccare nemici e “amici” (mettendoli in ginocchio per renderli più mansueti), nella convinzione che dove non arriva il soldo arriva il fucile. È una vera strategia da super-potenza solitaria e suprema, altro che multilateralismo.

Certo, «L’Europa non ha bisogno degli Stati Uniti. Non ha bisogno di armarsi, tanto meno al livello folle del 5% dei Pil, quando quasi nessuno nel mondo spende a questo livelli». Certo, «l’Europa non ha ragione di avere paura della Russia», né «ha necessità di ‘punire’ la Russia e sentirsi l’arbitro del mondo», come afferma Rovelli. Si dia da fare per far valere le istituzioni internazionali – e quindi agisca su Israele – e si troverà «alleata a tre quarti del mondo». «L’Europa si adoperi per affrontare in maniera multilaterale, assieme, i problemi veri dell’umanità». Ma non perché anche Trump sia di quell’avviso: non lo è affatto, e farà di tutto per affermare la supremazia Usa (e negli Usa, dei “veri” americani). Certo, «è un’opportunità», per l’Europa, ma sono le destre di tutti i Paesi a non volerlo, perché – come Trump – vogliono un mondo dove a dominare sia il suprematismo bianco (e occidentale).

in apertura disegno di Marilena Nardi

Per loro il Paese sicuro è quello senza dissenso

Crediti: M.Bariona

Nel mondo ideale di Giorgia Meloni e Matteo Salvini un ministro qualsiasi, perfino Piantedosi, deve essere libero di acciuffare un imam a caso, rinchiuderlo in un Cpr e poi firmare un foglio di via per l’Egitto. Se quell’imam si chiama Mohamed Shahin, sta a Torino da decenni con la sua famiglia, è stimato anche da ambienti cattolici (“buonisti”, scrive stamattina Il Giornale) e in Egitto rischia la vita, sono fatti suoi.

Del resto, sempre il quotidiano diretto ora da Tommaso Cerno definisce il presidente Al Sisi “un moderato”. Quindi, ricapitolando: Shahin brutto sporco cattivo, il carnefice di Giulio Regeni invece è una brava persona. Il manicheismo di governo funziona così: buoni e cattivi, bianco o nero. Il mondo è così meravigliosamente semplice, da quelle parti.

Nel Paese democratico che il governo vorrebbe scassare via referendum invece la detenzione e l’espulsione rimangono, seppur flebilmente, ancorati a quel vecchio vizio del diritto. Così quando un giudice mette nero su bianco che non basta essere antipatico al governo (e utile ai suoi giornali) per essere un terrorista, la dirimpettaia di Garbatella che sta a Palazzo Chigi strepita. «Con questi giudici la sicurezza è impossibile!», ha dettato ieri ai suoi editorialisti proni. E loro, stamattina, furiosi a vergare titoli dalla fine del mondo.

Era prevedibile. Per questa destra il Paese sicuro è quello in cui non c’è possibilità di incorrere nel dissenso, nemmeno in un’argomentata obiezione. È la sicurezza della rendita delle proprie idee, oltre alle posizioni. Per questo l’istinto di comandare si mangia qualsiasi possibilità di provare a governare.

Buon martedì.

In foto fiaccolata a Torino per la scarcerazione di Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn Al Khattab di San Salvario, Torino, novembre 2025. foto di Marioluca Bariona Crediti: M.Bariona

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Leva per davvero?

Le recenti mobilitazioni studentesche in Germania contro l’ipotesi di reintroduzione della leva dimostrano che i giovani non gradiscono ed anzi respingono la retorica militarista dei loro governanti così come l’ipotesi di essere mobilitati per andare in guerra.
Questo è senza dubbio un fatto positivo.
Tuttavia per mettere a fuoco una questione così delicata bisognerebbe chiarire cosa è “fuffa” e cosa è sostanza nelle bellicose esternazioni dei “volenterosi” governanti europei. Le dichiarazioni di reintroduzione della leva come passo necessario per sostenere una guerra contro la Russia nei prossimi anni è senza dubbio da considerare “fuffa”. Non solo perché si parla di leva volontaria (un nonsenso) ma perché per mandare i coscritti in guerra non serve necessariamente la leva ma servono invece due cose ben precise: la mobilitazione generale a seguito di una dichiarazione di guerra ufficiale o la mobilitazione generale a seguito di una invasione subita. Per fare la guerra (senza dichiarazione ufficiale) ossia per portare la guerra oltre i propri confini, invadere ed occupare territori di Paesi terzi servono invece, udite udite, i volontari. Perché?
Perché per qualsiasi governo la gestione politica dei morti volontari risulta molto più semplice dei morti coscritti: era il loro mestiere. E in più i volontari molto difficilmente disertano…
La guerra è quindi diventata un’opzione agile e molto utilizzata in politica estera proprio grazie al volontariato professionale. Molti ancora oggi credono che la sospensione della leva sia stata una vittoria dei movimenti pacifisti e non violenti ma è piuttosto evidente che si tratta di un abbaglio se non dell’esatto contrario. Primo perché l’esercito non venne abolito ma ne venne semplicemente trasformato l’assetto da difensivo ad offensivo, secondo perché ciò che venne di fatto abolito, ossia cancellato, fu proprio il diritto all’obiezione di coscienza quello sì una conquista di civiltà. Il riconoscimento di questo diritto e la parificazione del servizio civile a quello militare fu definitivamente spazzato via in favore del mestiere delle armi e della ricattabilità sociale della truppa volontaria.
Il nuovo modello di difesa basato sul volontariato professionale è stato introdotto a seguito di una precisa richiesta degli Stati Uniti rivolta ai propri partner al summit Nato di Roma del 1991. Dopo il crollo sovietico e dopo la prima guerra del Golfo venne imposto un cambio repentino e radicale di dottrina per le forze armate europee: non più fanteria d’arresto per resistere ad una eventuale fantomatica invasione sovietica ma corpo di spedizione con una truppa professionalizzata (con una ferma di almeno 4 anni) in grado di integrarsi negli standard tecnici ed organizzativi anglo-statunitensi di proiezione di forza. Non è questa una congettura di chi scrive o “un gomblotto che non ce lo dicono” ma è invece indicato in modo chiaro negli stessi Libri Bianchi della Difesa che hanno accompagnato tutto il processo.
Ed ecco la vera notizia: da oltre un trentennio i governi (centrodestra e centrosinistra) di quasi tutti i Paesi europei hanno fatto la guerra e sostenuto invasioni (senza dichiararle ufficialmente come tali e persino contro direttive ONU) utilizzando non eserciti di leva bensì eserciti di volontari.
Nessun governo avrebbe potuto spedire in Iraq o Afghanistan un coscritto, contro la sua volontà, senza adeguato addestramento ma soprattutto senza dichiarare guerra a quei Paesi.
In questo lungo arco temporale non abbiamo difeso il Paese da invasioni ed aggressioni ma abbiamo noi invaso ed aggredito demolendo il così detto diritto internazionale, destabilizzando e gettando nel caos intere regioni e provocando milioni di morti grazie ad un mix letale fatto di bombardamenti, scontri a fuoco e sanzioni.
E, incredibile ma vero, riuscendo con ciò ad affossare anche gli stessi interessi nazionali classicamente intesi.
La saldatura sempre più stretta tra ministero della Difesa, ministero degli Esteri e ministero dello Sviluppo Economico con l’industria bellica nazionale ha naturalmente accompagnato la belligeranza permanente trasformando i governi in piazzisti d’armi e le missioni militari in vetrine e banchi di prova per i prodotti nazionali. Questo è oggi il nodo centrale che bisognerebbe aggredire: possono essere le esigenze commerciali dell’industria bellica a determinare politica estera, industriale e di difesa di un Paese?
Se oggi si torna a parlare di leva (volontaria) e guerra alla Russia lo si fa per giustificare la corsa agli armamenti e al tempo stesso rilanciare in maniera più estesa l’opzione del reclutamento volontario perché tutti gli eserciti soffrono una crisi di vocazione che i governi vogliono e devono colmare per mantenere e rilanciare la belligeranza. Oggi come ieri nessun governo europeo si assumerà la responsabilità di obbligare giovani e meno giovani ad andare in guerra senza dichiararla. Ma la guerra si farà comunque perché lo straripante riarmo in corso indica una chiara necessità “di mercato”.
Dove? Il confronto diretto con Russia e Cina è davvero improbabile perché una guerra contro questi due Paesi ci condurrebbe diritti verso un suicidio termonucleare assicurato.
Se prendiamo per buone le indicazioni contenute nei documenti ufficiali di riferimento come la Bussola Strategica europea, i teatri operativi che hanno in mente i nostri grotteschi governanti potrebbero trovarsi in Africa e in Asia dove Russia e Cina sono diventati partner produttivi, finanziari e militari di molti governi mentre l’America Latina sembra essere tornata, almeno nelle intenzioni, il giardino di casa degli Stati uniti…
Fermare il folle riarmo nazionale ed europeo e mollare la Nato è l’unica strada su cui ci si dovrebbe concentrare per scongiurare le guerre a venire e per rilanciare politiche di distensione internazionale, cooperazione e giustizia sociale. Concentriamoci su questo e sul disarmo nucleare perché la leva, come ha chiarito lo stesso Crosetto “non la vuole nessuno”… Per i governanti “volenterosi” è molto più conveniente mandarci a morire volontari. Trasformare la truppa in un corpo sociale separato a disposizione del governo di turno è un modello di militarizzazione collaudato che ha funzionato sia per fare la guerra che per far regredire la democrazia costituzionale.

Ben venga Atreju

Ben venga Atreju, anzi, raddoppiamola se possibile. Ben venga Atreju per dissipare vicinanze scambiate per opposizione. Ci sono i giovani meloniani che gridano «Bravo!» a Calenda mentre attacca Salvini, chiedendogli di sostituire il leghista nella compagine di maggioranza. C’è Matteo Renzi che improvvisa lazzi con Crosetto e Donzelli.

Come scrive il giornalista Simone Alliva, «Atreju è la foto dell’opposizione italiana: invitata, ordinata, parlante. Sale sul palco della destra, litiga un po’, punge a turno, poi scende. Non sfida il potere: lo arreda».

Ben venga un’altra Atreju, presto, prestissimo, per ascoltare Giorgia Meloni che vorrebbe citare per danni i giudici che hanno fatto rispettare la legge su quell’immondizia legale e morale che sono i centri in Albania. Ben venga Atreju per riportare Meloni al suo primo amore, il fantasy di cui scriveva nel suo blog agli albori di internet: una presidente del Consiglio che emette una contro-sentenza sul delitto di Garlasco per scaldare gli sfinteri è una scena da Checco Zalone.

Ben venga Atreju per sentire una capa di governo invocare il «buon senso» per una famiglia nel bosco, con il retequattrismo da nuovo codice civile e codice penale. Ben venga Atreju per smutandare Meloni nella sua ossessione per Francesca Albanese. Ben venga Atreju per mostrare il suo digrignare di denti verso Elly Schlein, che ha deciso di non essere un complemento d’arredo alla sagra dei Fratelli d’Italia.

Ben venga tutto. Anzi, ne serve di più, ancora di più. Così, anche se la presidente del Consiglio non si degna di parlare con i giornalisti, basterà osservarla alla sua fiera per trarne le conclusioni.

Buon lunedì.

Giorgia Meloni alla manifestazione Atreju Foto Di it:indeciso42 – archivio personale, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=145096404

L’Europa in armi e a corto di realtà

Sentite qua: «È possibile che la priorità di chi ci governa oggi sia affrontare tutti i giorni il tema di come reagire alla minaccia della guerra?».
E poi: «Se guardate l’Unione europea, oggi abbiamo molti più poveri e disuguaglianze rispetto ai rischi potenziali che derivano da una minaccia reale – non percepita o teorica – della guerra. Forse l’Europa si sta concentrando su priorità che non sono quelle che consentono di costruire un futuro a medio-lungo termine. La parte di difesa è indispensabile, ma se diventa l’unico argomento di discussione, si perde il contatto con la realtà, con le persone che vivono i nostri Paesi».

A pronunciare queste parole ieri, durante l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Luiss di Roma, non è stato un brigante pacifista e nemmeno un classificato “putiniano”. È lo stralcio di un discorso a braccio, pubblicato dal quotidiano Il Domani, di Carlo Messina, consigliere delegato e amministratore delegato del gruppo Intesa Sanpaolo. Un gruppo bancario tutt’altro che santo quando si parla di interessi trasversali sugli armamenti e quindi anche sulle guerre.

Che la guerra sia l’ultimo rifugio degli incapaci non lascia dubbi. Ma in questi mesi stiamo assistendo anche alla guerra come bromuro di qualsiasi altra istanza, comprese le più fondamentali per la dignità – se non addirittura la sopravvivenza – dei cittadini europei.

Che Trump sogni lo sbriciolamento dell’Europa non lascia molti dubbi. Farlo diventare l’unico punto dell’agenda politica è il miglior regalo che gli si possa fare.

Buon venerdì.

 

Foto di Jørgen Håland su Unsplash

Il burro di Netanyahu: 700 milioni per lisciare l’opinione pubblica europea

La guerra ibrida è come il burro: ammorbidisce la retorica, lubrifica la costruzione del nemico e rende più saporito il gusto amaro del bellicismo. Se con qualche tocco riesci a portare in tavola guerra ibrida tutti i giorni puoi permetterti una divisione manichea tra buoni e cattivi, puoi martellare gli avversari politici senza bisogno di stare nel merito delle cose. È un balsamo, la guerra ibrida. 

La guerra ibrida russa occupa lenzuolate intere sui giornali e accese discussioni nelle trasmissioni televisive. Ce ne sarebbe un’altra, guardando bene, che però rimane in sordina. Lo dicono le carte, mica i pro-pal: nel bilancio 2026 Israele ha portato a 2,35 miliardi di shekel, poco meno di 700 milioni di dollari, il budget per la sua propaganda all’estero, quadruplicando lo stanziamento del 2025, che a sua volta era stato presentato come venti volte superiore ai livelli degli anni precedenti. I fondi saranno gestiti in larga parte dal ministero degli Esteri e da altre strutture governative. 

L’hasbara del governo Netanyahu punta a riabilitare l’immagine un po’ ammaccata di uno stato guidato da un ricercato internazionale che negli ultimi anni si è dedicato al genocidio dentro Gaza, all’eradicamento dei palestinesi in Cisgiordania e a svignarsela da un processo per corruzione. 

Da cittadini italiani e europei si dovrebbe essere piuttosto preoccupati su come quei 620 milioni di euro possano condizionare le scelte politiche, militari e industriali della nostra classe dirigente. Pensandoci bene ci si dovrebbe attrezzare per riconoscere il parlamentare, il giornalista o l’influencer lautamente ricompensato per le sue carezze a Netanyahu. Questa guerra ibrida invece non stuzzica, non indigna, anzi addirittura scompare. 

È il doppio standard, bellezza. L’ingrediente fondamentale per le guerre ibride, Come il burro. 

Buon giovedì.

Foto WP

Albania: il castello politico che la giustizia sta demolendo

la presidente Meloni con ol presidente Rama in Albania

Ogni giorno il progetto Albania si sgretola sotto il peso delle verifiche giuridiche. La decisione della Corte di giustizia Ue di accelerare l’esame del rinvio della Corte d’appello di Roma apre una faglia che attraversa l’intero impianto dell’accordo: il dubbio riguarda la legittimità stessa della firma italiana, in un settore che l’Unione ha già disciplinato in modo dettagliato. I giudici romani osservano che i centri di Shengjin e Gjader alterano il sistema comune di asilo, entrando in collisione con le norme europee dedicate alla tutela dei diritti fondamentali.

La vicenda arriva dopo mesi in cui la magistratura ha evidenziato crepe profonde: dalla decisione Ue di agosto sui «paesi di origine sicuri» fino al rinvio sollevato dalla Cassazione sulla seconda fase del protocollo, quella che prevede il trasferimento degli “irregolari” verso Gjader. Il nuovo procedimento è il più incisivo, perché mette in discussione l’esistenza stessa del protocollo e restringe gli spazi degli Stati membri nella stipula di accordi internazionali in aree di competenza condivisa.

Nel frattempo l’esecutivo continua a presentare le discussioni europee su Paesi sicuri e return hubs come un’investitura politica. Il Consiglio ha solo definito una posizione negoziale che dovrà passare al Parlamento e alla Commissione, mentre la Corte ricorda che persino gli atti comunitari restano sottoposti al controllo dei giudici nazionali.

Il progetto Albania avanza così in un territorio sempre più incerto. Ogni passaggio della giustizia ridisegna la mappa reale del diritto e lascia emergere un dettaglio che la propaganda ha tentato di mettere ai margini: l’esperimento d’Oltreadriatico poggia su fondamenta che mostrano crepe sempre più visibili.

Buon mercoledì. 

Il Paese delle mazzette ordinarie: benvenuti nella Repubblica dell’appalto

L’Italia si scopre laboratorio permanente della corruzione. Dal primo gennaio al primo dicembre 2025 le inchieste censite da Libera sono novantasei, quasi il doppio dell’anno precedente, otto al mese, quarantanove procure coinvolte, 1.028 indagati: una folla che racconta la normalità del fenomeno più di qualsiasi convegno. La Campania guida la classifica con 219 persone sotto indagine, seguita da Calabria e Puglia; al Nord spicca la Liguria con 82. È un’Italia che trucca appalti, compra concorsi, scambia favori, baratta pure certificati di morte e cambi di residenza per ottenere la cittadinanza. Un Paese in cui il voto di scambio politico-mafioso riemerge nelle pieghe della grande opera come nel municipio di provincia.

Cinquantatré politici sono sotto inchiesta, ventiquattro sono sindaci: l’epicentro istituzionale di un sistema che continua a riprodursi. Libera parla di una corruzione «solidamente regolata», dove ogni territorio ha il suo garante delle “regole del gioco”. E Francesca Rispoli avverte che le forme più moderne somigliano sempre più a una cattura dello Stato: leggi su misura, conflitti d’interesse accettati, opacità elevata a metodo.

Il quadro è parziale, certo, ma la tendenza è inequivocabile. L’Italia che festeggia la “giornata contro la corruzione” si presenta con un anno archiviato così: un Paese che ancora non ha deciso se la corruzione sia un incidente o un ecosistema politico-amministrativo. «Occorre un patto nuovo», dice Libera. Finché resta lettera morta, le inchieste servono solo a misurare il livello dell’acqua.

Buon martedì.

In foto: opera di Luciano Fabro “Italia rovesciata” – Foto di Federico Tulli

Perché l’Università di Bologna ha detto no alla militarizzazione dell’ateneo. Facciamo chiarezza

La notizia notizia del diniego dell’Università di Bologna alla richiesta, avanzata dall’Accademia militare di Modena, di istituire un corso ad hoc per gli allievi militari ha improvvisamente polarizzato per giorni il dibattito politico e pubblico. Ma tante inesattezze sono state dette. Proviamo a fare chiarezza. Ottobre 2025: i componenti del Consiglio di dipartimento di filosofia dell’ateneo felsineo leggono che all’ordine del giorno della seduta prevista per il 23 ottobre vi è la discussione della proposta dell’Accademia militare modenese – avanzata nella persona del generale Carmine Masiello – di organizzare un curriculum del corso di Laurea Triennale in Filosofia (che attualmente prevede due curricula) dedicato esclusivamente a 15 allievi dell’Accademia. La richiesta era stata avanzata prima dell’estate al Rettore Molari ma solo in autunno è giunta alla discussione del Consiglio. Quest’ultimo avrebbe dovuto decidere nella stessa seduta se approvare o respingere tale richiesta. E già qui appare la prima assurdità: come può un organo così ampio come il Consiglio di dipartimento, del quale sono parte non solo docenti ma anche studentesse e studenti nonché il personale tecnico-amministrativo, poter esprimersi su una questione così delicata senza un congruo preavviso e una discussione articolata? Peraltro, molti delle e dei docenti presenti alla seduta del Consiglio sarebbero stati chiamati a essere titolari di alcuni degli insegnamenti destinati agli allievi e, secondo quanto previsto dall’accordo, avrebbero dovuto svolgere le lezioni presso l’Accademia a Modena e non nei locali dell’ateneo. Una seconda assurdità: da quando docenti, dei funzionari statali, svolgono lezioni a domicilio? Ma andiamo avanti.

Alla seduta del 23 ottobre sono presenti, come accennato, anche i e le rappresentanti della componente studentesca (e vi sarà anche l’irruzione di altri esponenti di collettivi e movimenti universitari, seppur breve) la cui posizione è – a differenza di quella di molti altri membri del Consiglio – ben chiara: a Bologna non c’è spazio per la militarizzazione dell’università. Il dibattito prosegue, con il formarsi di schieramenti opposti che non vedono contrapposti solo corpo docente e studentesco ma anche gli stessi docenti tra loro. Un siparietto che aprirebbe una lunga riflessione sull’effettiva capacità di chi afferma di poter insegnare il pensiero filosofico ad essere realmente portatore di un sapere critico e di una capacità di analisi libera da pressioni esterne. La discussione lascia il tempo che trova, e qualche giorno dopo tutte le componenti della Facoltà ricevono una mail dal Direttore del Dipartimento, Prof. Luca Guidetti, in cui si afferma che non sussistono più “le condizioni materiali e formali per portare avanti il progetto di convenzione con l’Accademia militare di Modena per un curriculum di filosofia”. Questa frase racchiude tutto ciò che si dovrebbe sapere. Racchiude le motivazioni dell’Ateneo alla negazione del nuovo curriculum (banalmente i costi per l’attivazione e per l’organico); racchiude la volontà dei componenti del Consiglio – o quanto meno della sua maggioranza; racchiude lo spirito di autonomia e di autodeterminazione di cui le università sono portatrici e in base al quale devono agire. Tuttavia, come era prevedibile, la questione non termina qui. Proprio in questi giorni, lo stesso generale Masiello ha parlato di una volontà di rifiuto dell’Alma Mater di accettare l’iscrizione degli allievi. Un modo molto peculiare di parlare della libertà accademica. Le parole del generale, come era prevedibile, sono immediatamente state raccolte dagli esponenti maggioranza che non hanno atteso prima di gridare alla dittatura ideologica della sinistra, al tradimento dei valori costituzionali, a una chiusura dettata da interessi di parte. Dalla premier Meloni al ministro dell’Interno Piantedosi, dal ministro della Difesa Crosetto alla ministra dell’Università e della Ricerca Bernini, è stato un susseguirsi di strumentalizzazione e di distorsione dei fatti.

Chiariamo immediatamente un punto: a nessuno è stato negato il diritto all’istruzione universitaria. Gli Allievi dell’Accademia militare possono iscriversi agli esistenti curricula del corso di filosofia esattamente come chiunque altro sia in possesso dei requisiti necessari per essere ammesso. Semmai, se di negazione al diritto di istruzione si vuole parlare, bisognerebbe pensare alle migliaia di studentesse e studenti che quest’anno hanno avuto ridotta l’ammontare della borsa di studio, che non hanno la possibilità di far fronte alle spese per acquistare i materiali didattici, che non trovano un alloggio dignitoso a un prezzo accessibile nella città che si vanta di essere la più progressista d’Italia ma che non si occupa neppur lontanamente di trovare una soluzione alla crescente crisi abitativa. Del vittimismo di facciata non ce ne facciamo nulla. In un mondo che vede crescere la precarietà, che vive nella paura di possibili eventi catastrofici, che si trova a dover vedere ogni giorno l’impunità con cui viene commesso il genocidio in Palestina con la complicità degli atenei e delle aziende italiane (Leonardo S.p.a. in primis), l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è compiangere chi in realtà vuole solo manipolare e comandare. Perché di questo si tratta. Di un attacco alla libertà organizzativa dell’università, alla sua autonomia e alla sua decisionalità. Quello che il corpo militare con il benestare dell’attuale governo vuole realizzare è la militarizzazione del sapere universitario, la sua sottomissione alle rigide regole del conflitto, alla volontà di distruzione. Se l’attuale esecutivo ha così a cuore, come ha ammesso in queste ore, la crescita degli atenei perché non investe nella ricerca invece di imporre un corso pensato per una stretta e privilegiata nicchia. Perché, mi chiedo, continua a tagliare i fondi destinati alle università se è così importante concedere a chiunque la possibilità a una formazione superiore (almeno stando alle loro parole). Forse perché ciò che è realmente importante non è la libertà di pensiero, il confronto dialettico, la crescita umana e culturale ma il controllo delle forme del sapere e della sua organizzazione. È piegare anche i centri universitari alla logica del profitto, della guerra e del liberalismo. Il riarmo passa anche da qui. Del resto, la storia ci insegna come il potere abbia sempre avuto bisogno di sottomettere il sapere e le sue molteplici forme per potersi sentire realmente al sicuro.

L’autrice: Ludovica Micalizzi è borsista presso l’Università di Bologna

In foto il cortile di Palazzo Poggi, sede centrale dell’Università Bologna. Foto di Nicola Quirico/WP