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Eutanasia e depressione. Il dovere di fare chiarezza

Siska De Ruysscher, una ragazza belga, bellissima, dai lunghi capelli biondi, occhi verdi, raffinata nel vestire, domenica 2 novembre se n’è andata, lasciandoci tutti attoniti e un po’ smarriti. Ora, lei, con le notizie riguardanti la procedura per l’eutanasia, avviata da oltre un anno e giunta a compimento nello scorso ottobre, è diventata un nome, che il medico, che le ha praticato l’iniezione, ha l’obbligo di trascrivere nel registro della Commissione federale di controllo e valutazione.

Ma lei ha deciso di non diventare solo un dato statistico da comunicare al Parlamento, ogni due anni e il 17 ottobre, compiuti 26 anni, ha infranto il muro di riservatezza, che protegge la privacy in Belgio e, tramite interviste e video, ha annunciato «de se faire euthanasier», per porre fine a dolori psichici «insopportabili». La giovane donna ha denunciato la sua condizione: «Da molti anni lotto contro un disturbo depressivo acuto, un disturbo da stress post-traumatico, un disturbo dell’attaccamento e pensieri suicidi». La legge belga in vigore dal 2002 prevede che «un paziente, maggiorenne e un minore emancipato, capace di intendere e volere al momento della richiesta, possano presentare istanza, meditata e reiterata, e non indotta da pressioni esterne; se versa in una condizione sanitaria senza speranza e la sua sofferenza sul piano fisico o psichico è persistente e insopportabile».

Guardando Siska De Ruysscher ho pensato ai commenti sulla stampa: “Che peccato! Una così gran bella ragazza!” e se non fosse stata “bella”? La cosa “strana” è che lei pareva saperlo bene. Però ti accorgevi che quella bellezza era come messa lì a coprire la monotonia del tono della voce, a cui faceva da contrappunto, l’affiorare dal trucco perfetto di un sorrisetto appena percepibile. E pensavi: un viso fermo, una sicurezza di sé che sfida il mondo, un’immagine che mal si concilia con la melanconiatipica dei dipinti di Dürer o di Hayez, a cui eri abituata. Poi la compassione per tutto il dolore delle malattie psichiche che le hanno diagnosticato e per il pensiero che a soli 13 anni voleva già morire, per il bullismo subito all’asilo e alle elementari. Violenze che le hanno fatto sentire di essere «in qualche modo diversa». «Le mie difficoltà erano più grandi di quelle dei miei compagni di classe, e loro mi hanno delusa» ha detto Siska De Ruysscher. In dieci anni, questa giovane donna si è accanita sul proprio corpo reiterando il tentativo di suicidio: «La gente pensa: “Quaranta tentativi, voleva davvero morire?”». Ed ora, giunta alla fine della strada, sente che il suo corpo ha ceduto: «Sono esausta. Lavorare non è più possibile e anche le più piccole cose quotidiane sono diventate una lotta impossibile: alzarsi, fare la spesa, vestirsi, aprire le persiane». Nel commiato sulla sua pagina facebook, rivolge accuse durissime al sistema sanitario e a quello sociale, riassumibili in: “Nessuna cura”. «La prima persona a cui ho detto quanto fosse buio nella mia testa è stata l’insegnante di assistenza a scuola. Poi sono passata da uno psicologo all’altro e da un assistente all’altro, forse una ventina. Ho sempre ricevuto le stesse domande, sempre gli stessi fascicoli in cui dovevo mettere le crocette».

E da “esperta” elencava

Sanità pubblica svendesi

Dopo le controriforme della sinistra sulla sanità e che sono in vigore ormai da decenni, oggi arrivano le ancora più pesanti controriforme della destra

È in corso di approvazione l’autonomia differenziata voluta dalla Lega, ma fatta proprio dal governo, e, ora, abbiamo la proposta di riforma sulla assistenza integrativa proposta da fratelli di Italia (Fdi). È una proposta che viene fuori – come dimostrano i dati di “Medio banca”- nella fase in cui il grande capitale di investimento scopre che, la sanità pubblica ormai è all’angolo e che la sanità privata è uno dei settori a più alto rendimento e a più alta reddittività. La proposta di Fdi è stata definita «dell’assistenza integrativa» ma in realtà è una «riforma dell’assistenza sostitutiva». Chiariamo i termini delle questioni: la “sanità integrativa ” è stata definita dalla legge di riforma 833 articolo 44 nel 1978. La sanità sostitutiva è il risultato della controriforma fatta da Rosi Bindi, articolo 9 nel 1999. La sanità integrativa è una sanità complementare che aiuta il servizio pubblico ad essere pubblico e funziona come un servizio pubblico che segue precisi criteri di accreditamento che si basano sul rispetto del diritto della persona ad essere curata adeguatamente secondo le proprie necessità. La sanità sostitutiva è una sanità sussidiaria in competizione con il servizio pubblico e che opera su criteri soprattutto speculativi con lo scopo non di curare ma di fare profitto sulla cura della malattia.

Arrivano gli appalti

Per attuare l’assistenza sostitutiva di Rosi Bindi oggi Fdi intende introdurre nuovi strumenti giuridici cioè ammettere oltre le convenzioni già previste dalla 833, l’appalto e tutte le sue varianti. La convenzione è uno strumento coerente con la natura pubblica del servizio sanitario, ma l’appalto, nelle sue diverse forme è un contratto di pura natura speculativa quindi non più subordinato ai diritti del malato e alle sue necessità ma soprattutto all’entità dei costi relativi alle obbligazioni prestazionali. È noto che, in una gara di appalto, il criterio principale per la sua aggiudicazione è il “il prezzo più basso” che è principalmente un criterio di semplice convenienza economica. Ammettere gli appalti significa che i malati di ogni tipo e di ogni specie saranno curati in ragione del prezzo più basso. Dalla cura secondo diritti si passa così allo sfruttamento della cura secondo profitto.

La sanità concorrente

In sanità gli appalti non sono una novità. Sono stati già usati dalle aziende come strumenti di emergenza specialmente in questi ultimi anni per sopperire ai problemi creati dal sotto finanziamento e dal blocco degli organici come l’out of sourcing, l’esternalizzazione, l’affidamento in house providing ecc.

La proposta di Fdi si inserisce nell’ambito di quelle politiche del governo di destra riassunte nel Ddl sulla concorrenza nel quale si ridefiniscono le regole per l’accreditamento in sanità ma anche gli indirizzi in chiave “pro-concorrenziale” dai quali guarda caso derivano i nuovi criteri per l’effettuazione delle gare di appalto. (comma 12). Il che vuol dire che lo scopo di Fdi in sanità non sia quello di usare gli appalti in via straordinaria ma di usarli in via ordinaria quindi come strumento elettivo.

Privato speculativo e privato sociale

La proposta di Fdi, a leggere bene i suoi documenti istruttori (Fondazione Ries Ets), si propone sia al privato speculativo sia al privato sociale quindi sia alla c.d “economia solidale” che a quella speculativa. Ma se in un regime concorrenziale entrambi

Le invisibili. Braccia sfruttate dall’agricoltura

Metà dell’umanità, le donne, trattata come una minoranza da discriminare e sfruttare. È questa una delle piaghe sociali più evidenti dei nostri tempi ma che resiste dai secoli delle polis greche quando il ruolo femminile nella società era assolutamente marginale e limitato al “dovere” di procreare. Poco è cambiato anche quando secoli dopo è stato loro “concesso” di avere un lavoro retribuito e laddove questo accade è segnato da disparità di ogni genere rispetto a quanto è riconosciuto, a parità, di mansioni, ai colleghi uomini.

In pochi ambienti questo squilibrio appare marcato quanto nel lavoro agricolo. E l’Italia non sfugge da questa regola. Ogni giorno 300mila donne italiane e straniere, quasi un terzo della forza lavoro dell’agroalimentare, sono occupate nei campi ma restano invisibili agli occhi della società, della politica, dei media e persino della ricerca accademica. E questa invisibilità (o calcolata indifferenza?) le espone a sfruttamento, svalutazione, emarginazione. «Le donne che lavorano in agricoltura subiscono spesso condizioni di sfruttamento ancora peggiori e insostenibili di quelle degli uomini», sottolinea Giovanni Mininni, segretario generale della Federazione lavoratori agro-industria Flai-Cgil.

«In molti casi su di loro grava anche il peso del lavoro di cura. I salari delle lavoratrici agricole, inoltre, sono sensibilmente più bassi di quelli dei lavoratori. E i dati confermano le parole del segretario del sindacato lavoratori agricoli. La maggior parte delle donne impiegate in agricoltura opera in condizioni di pluri-sfruttamento, senza alcun reale riconoscimento del proprio valore. Secondo il rapporto Dis-uguali curato dall’osservatorio Placido Rizzotto, di cui è responsabile Jean René Bilongo, in collaborazione con Flai-Cgil, nel 2023 la retribuzione media annua delle lavoratrici è stata di circa 5.400 euro contro 7.200 euro degli uomini. Il divario non è una semplice anomalia statistica, ma una realtà strutturale, radicata tanto nelle piccole aziende rurali quanto nelle grandi imprese del settore agroalimentare. Le donne sono concentrate nei compiti meno valorizzati – raccolta, impacchettamento, selezione – lavori considerati “di supporto”, come se precisione, resistenza, cura e pazienza fossero virtù minori rispetto alla forza. Ma il divario salariale si accompagna a condizioni di lavoro spesso precarie, con contratti di breve durata, salari orari inferiori e accesso limitato a tutele, formazione e strumenti di emancipazione economica.

Le donne che lavorano in agricoltura

Mamdani e la rivolta gentile dei giovani newyorkesi

A New York un giovane socialista ha trasformato la precarietà in forza politica, vincendo la sfida per il municipio più difficile d’America. Si chiama Zohran Mamdani e la sua storia parla di giustizia sociale, redistribuzione e partecipazione dal basso. Ne abbiamo discusso con Nicola Villa, autore del libro Zohran. Sindaco a New York per l’uguaglianza. Lezioni per le comunali italiane (Altreconomia ed.),

Nel tuo libro descrivi Mamdani come un «millennial in mobilità discendente», capace però di trasformare la precarietà in una risorsa politica. Quanto c’è di generazionale nella sua vittoria?

Quella definizione a mio avviso riassume bene la condizione di una generazione nata tra la fine degli anni 80 e i primi 90. Sono persone che sanno di non poter raggiungere il livello di reddito o di stabilità dei propri genitori, ma che proprio da questa consapevolezza traggono la spinta a organizzarsi. Mamdani è riuscito a trasformare questa fragilità in forza politica: invece di inseguire l’illusione del successo individuale, ha scelto la via collettiva, quella dell’attivazione e della solidarietà. È una generazione che non crede più nel mito del self made man, ma nel “ce la facciamo insieme”.

Ricordiamo Bhaskar Sunkara e la “maledizione” del sindaco di New York: nessuno è mai riuscito a trasformare quella poltrona in un trampolino nazionale. Eppure, Mamdani arriva in un momento cruciale: il suo modello può davvero pesare nella sfida del Midterm e riportare al voto anche i delusi dai Dem?

Si dice che la carica più difficile degli Stati Uniti, dopo quella del presidente, sia proprio quella del sindaco di New York. La storia, è vero, insegna che nessun sindaco è mai riuscito a usare quella posizione come trampolino nazionale. Nel suo

Perché Gaza è emblema di tutte le ingiustizie

È poco più che ventenne ma negli ultimi due anni Maya Issa è diventata una voce di spicco della protesta che sta riportando milioni di persone nelle piazze di tutto il mondo. Attivista palestinese, nata e cresciuta in Italia, è tra le organizzatrici dell’ondata di mobilitazione che anche in Italia da Roma a Milano, da Torino a Napoli ha attraversato quartieri, scuole, università, porti e strade, trasformando un movimento nato dalla solidarietà verso la Palestina in un simbolo di lotta contro ogni tipo di violenza, che continua a crescere nonostante i tentativi di repressione, superficializzazione e silenziamento.

La sua storia personale si intreccia con quella di milioni di palestinesi della diaspora dopo la Nakba, la cacciata del 1948. I suoi nonni sono nati in Palestina, suo padre in un campo profughi a Beirut, e la cittadinanza italiana le è stata concessa solo a diciotto anni, dopo un’infanzia passata da apolide. «Come palestinesi noi cresciamo con i racconti dei nostri genitori, dei nostri nonni che ci parlano di come sono stati cacciati dalla loro terra», racconta Issa. Esperienze che l’hanno spinta a studiare, prepararsi a raccontare la storia del popolo palestinese. Quello che Maya Issa contesta con forza è il modo in cui la questione palestinese viene narrata dai media mainstream. «Si mostrano i bambini che stanno soffrendo, che sono sotto i bombardamenti, ma non si dice mai da chi vengono bombardati», osserva. Definire quanto accade come un «conflitto» è già, per lei, una distorsione intollerabile: «Quando parliamo di conflitto intendiamo due parti uguali che si fanno la guerra, due eserciti uguali. Ma in Palestina non c’è questo: c’è un genocidio in corso». La narrazione dominante oscilla tra due binomi: vittima o terrorista. «Non si racconta mai effettivamente cosa sta facendo il popolo palestinese, quali sono le sue ragioni politiche o la sua storia, e bisogna smettere di vedere la Palestina solo come una questione umanitaria», spiega.

Il movimento a cui partecipa Issa non è nato nei mesi scorsi, ma dopo la violentissima reazione militare contro la popolazione civile di Gaza in seguito

Donatella Della Porta: La Gen Z ha denudato i re di mezzo mondo

Per primi sono stati gli studenti della generazione Z a scendere in piazza in Italia, contro il genocidio a Gaza. L’immagine che resta nella mente è quella degli studenti delle superiori che nel febbraio 2024 scesero in piazza a Pisa a mani nude e furono presi a manganellate dalla polizia. Nonostante i tanti tentativi di delegittimazione e di repressione il movimento è cresciuto, al punto che alcuni esponenti immaginano un salto politico e possibilità di candidatura in Italia nel 2027 dando vita a un soggetto politico nuovo insieme ad alcune formazioni del sindacato di base e della sinistra. Ma non corriamo troppo. Cerchiamo intanto di mettere a fuoco la fisionomia del movimento per come si è sviluppato fin qui. Per questo siamo tornati a interpellare una delle massime studiose di movimenti, Donatella Della Porta, ordinaria della Scuola Normale Superiore, che al tema ha dedicato il libro Guerra all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica (Altraeconomia ed.), chiedendole di aiutarci nel tracciare un quadro del movimento, non solo a livello nazionale.
Professoressa Della Porta perché fa tanta paura questo movimento pro-Pal al punto da ricorrere all’accusa infamante di antisemitismo per delegittimarlo?
Fa paura perché dimostra l’inconsistenza e incongruenza dell’Occidente che si proclama superiore, ma appare incapace di difendere i propri valori. Penso alla difficoltà ad affermarsi del diritto internazionale, dei diritti umani, delle Nazioni Unite, della Corte internazionale di giustizia e della Corte penale di giustizia. Sono tutte istituzioni che dovrebbero servire a garantire un sistema di negoziazione dei conflitti per garantire diritti alle popolazioni. Tutti quanti vedono il doppio standard dell’Unione Europea, dei governi europei e degli Usa rispetto all’invasione russa dell’Ucraina e al genocidio israeliano a Gaza. Tutti vedono che i proclami sui diritti umani vengono disattesi quando sono in gioco gli interessi dell’Occidente.
I giovani e i giovanissimi però non hanno esitato a scendere in piazza contro tutto questo. Un fatto del tutto nuovo o ci sono precedenti?
Mi pare di vedere alcune similitudini con la situazione emersa durante la guerra nel Vietnam, con la repressione forte delle proteste giovanili che ci fu allora. Ieri come oggi i giovani cresciuti all’interno di un certo sistema di valori mostrano che il re è nudo. Vedono bene che non sono gli altri i barbari da educare. Hanno chiaro che l’Occidente stesso, nonostante le affermazioni di principio, ha compiuto tante violazioni dei diritti umani. In primis pensiamo a un crimine enorme come la Shoah. Ma pensiamo

In punta di matita contro il potere dispotico

Cairo-Il CairoComix in Egitto ad oggi è il più importante festival di fumetto del mondo arabo. Per quanto piccolo è molto partecipato e ospita autori indipendenti coi loro banchetti di autoproduzioni, fianco a fianco a case editrici che propongono i libri del proprio catalogo. In effetti, il confine tra le due cose è spesso sfumato. Nell’editoria araba, infatti, la scena del fumetto dedicato a un pubblico adulto e non più all’infanzia come un tempo, è nata in anni recenti nell’underground: ovvero, se si eccettuano alcuni rari pionieri, è fiorita a cavallo delle rivoluzioni del 2011, all’interno di un più ampio fermento culturale, grazie a collettivi di autori e autrici e alle loro zine e riviste autoprodotte. In tempi più recenti, alcune case editrici locali hanno iniziato a interessarsi ai fumetti e a pubblicare soprattutto graphic novel.
Sono ancora poche, ma diventano sempre di più. In parallelo, non è raro che gli autori stessi creino i loro propri marchi editoriali.

Lo stesso CairoComix è stato fondato nel 2015 da alcuni tra i più importanti fumettisti egiziani, trasformatisi in agitatori culturali o editori: Shennawy, storico fondatore e contributore della zine TokTok, poi creatore della propria realtà editoriale Al-fann al-tasiʿ (“La nona arte”); Magdy El Shafee, nel 2008 autore del primo, pionieristico, graphic novel egiziano per adulti, il famigerato Metro (in Italia uscito per Il Sirente nel 2010, trad. Ernesto Pagano) al centro di arresti e censure per come dipingeva la corruzione del regime e l’insofferenza dei giovani negli ultimi anni della presidenza Mubarak, quasi anticipando la rivoluzione del 2011; i Twins Cartoon, duo di gemelli creatori di un’altra importante rivista autoprodotta, Garage, e della piattaforma/ iniziativa editoriale Kawkab el-Rasameen (in Italia ospiti all’inizio di quest’anno all’interno della mostra itinerante Oltremari – Nuove traiettorie del fumetto arabo, curata dalla sottoscritta e da Alessio Trabacchini).

In occasione della decima edizione – diretta da Shennawy al museo Mahmoud Mokhtar dal 7 al 9 novembre, con il sostegno dell’Institut Français e di Pro Helvetia – il festival ha celebrato “Cento anni di fumetto egiziano”: questo il titolo di una mostra ricchissima, interamente in arabo, che ha ripercorso cronologicamente le riviste per l’infanzia e gli autori che hanno fatto la storia del fumetto egiziano (uno su tutti Mohieddine el-Labbad, autore dell’immagine usata nella locandina del festival), fino ad arrivare

Marocco: La scossa di Gen Z 212 al regno di Muhammad V

Un vasto movimento di protesta guidato dai giovani sta riportando al centro del dibattito nazionale in Marocco questioni fondamentali come la giustizia sociale, i diritti basilari e la legittimità politica. Conosciuto come Generazione Z 212, in riferimento al prefisso telefonico internazionale del Paese, il movimento è nato sulla spinta di decenni di emarginazione, disoccupazione, carenze nei sistemi sanitari ed educativi e da una corruzione diffusa. La scintilla decisiva è stato un tragico episodio avvenuto alla fine di settembre scorso in un ospedale pubblico nella città di Agadir. Nel giro di poco tempo otto donne sono morte nel reparto di ostetricia a causa delle pessime condizioni in cui versa la struttura e per la mancanza di assistenza sanitaria adeguata. Per i Gen Z 212 non c’era più margine di sopportazione. Mentre scuole e ospedali restano fatiscenti e sotto finanziati in tutto il Paese, il governo di Rabat ha destinato almeno 20 miliardi di dirham (2 miliardi di dollari) alla ristrutturazione e alla costruzione degli stadi di calcio in vista della coppa del mondo del 2030. La rabbia per la morte delle otto donne si è trasformata rapidamente nella rivolta sociale dei giovani a Rabat, Casablanca, Fès, Marrakech, Taroudant, Salé e Oujda.

Ma chi sono questi manifestanti? Ciò che distingue la Generazione Z 212 non è solo la quantità delle adesioni e la diffusione geografica capillare, ma anche la sua capacità organizzativa digitale, che unisce rivendicazioni sociali e mobilitazione tecnologica. Il movimento rappresenta una nuova forma di azione politica in cui la tecnologia diventa uno strumento di liberazione. Brevi video, meme e dibattiti online hanno creato una sfera pubblica alternativa, lontana dai media ufficiali che hanno cercato di oscurare il movimento. I social network

I nepo babies e la piazza più giovane del mondo

In Nepal, dove le montagne sembrano assorbire e restituire ogni tensione collettiva, le proteste giovanili sono cominciate come un brusio appena percettibile. Prima dei cortei, prima degli slogan, c’erano i video che circolavano online: frammenti di vita quotidiana che diventavano, con una rapidità inattesa, segnali di un’insofferenza più profonda. Sembrava il riflesso di una generazione che, pur cresciuta in un Paese attraversato da crisi politiche cicliche, aveva trovato un nuovo modo per misurare l’ingiustizia: osservando le vite scintillanti dei figli dei politici, i cosiddetti nepo babies, in un contesto di inflazione, carenza di opportunità e disuguaglianze ormai radicate. Quando le autorità hanno deciso di bloccare i social network, nessuno ha creduto che si trattasse solo di una misura tecnica. L’atto ha avuto l’effetto opposto: non ha spento il malcontento, lo ha dichiarato apertamente. Le ragioni del divieto non sono mai state chiarite dal governo, lasciando spazio all’idea che si volesse silenziare proprio quel flusso crescente di critiche che nelle settimane precedenti aveva cominciato a infiltrarsi ovunque. Rose Kandel, giovane analista economica e attivista, lo ricorda così: «Secondo un report di TikTok, sono stati rimossi almeno 100.000 post che denunciavano lo stile di vita lussuoso dei cosiddetti “nepo babies”». Per molti, queste rimozioni sono state la conferma definitiva che lo scontro non riguardava un’applicazione, ma un’intera generazione. Kandel insiste su un punto: il Nepal è un Paese giovane, tanto nei numeri quanto nelle aspettative. Oltre 29 milioni di abitanti, età media 25 anni. Una società in cui il peso demografico dei più giovani non coincide con la loro influenza politica. «La questione dei “nepo babies” non è nuova: ci sono state proteste simili anche nelle Filippine e in Indonesia», spiega. «Penso che spesso si sottovaluti la capacità dei giovani di comprendere quando i governi o gli adulti agiscono in modo sbagliato. Anche noi siamo in grado di riconoscere la corruzione, e abbiamo valori in cui crediamo».

Il contraccolpo al blocco dei social è arrivato la sera

L’età del coraggio

La questione israeliana, con lo sterminio della popolazione civile di Gaza da parte dell’esercito di Netanyahu, le violentissime aggressioni dei coloni in Cisgiordania al fine di annichilire donne, anziani, bambini e appropriarsi delle loro terre, è una questione che ormai da decenni trascende i confini regionali. Ma forse mai come quest’anno appena trascorso ha infiammato le piazze di tutto il mondo dando voce alla domanda di pace e giustizia per i palestinesi soprattutto da parte delle nuove generazioni. In decine di Paesi, milioni di giovani e persone di tutte le età hanno manifestato pacificamente per denunciare il genocidio nella Striscia di Gaza, chiedendo la fine di blocchi, assedi e aggressioni militari. Le proteste più numerose sono state organizzate in Europa e Nord America, intrecciando solidarietà politica, diritti umani e critica al ruolo delle potenze occidentali. Segnate dall’uso massiccio di piattaforme come TikTok, Instagram e Telegram, le manifestazioni hanno portato in luce una nuova generazione di attiviste e attivisti capaci di sfidare anche la censura algoritmica e la repressione mediatica globale. Ma non c’è solo Gaza. Secondo il rapporto UN Youth2030 Progress Report 2025, i giovani continuano a essere la generazione più indifesa contro crisi economiche, disoccupazione e povertà, mentre crescono nel mondo le mobilitazioni sociali per migliorare le condizioni di vita. L’Ocse segnala un tasso medio di disoccupazione giovanile dell’11,2%, con forti disparità territoriali e ostacoli nell’ingresso al lavoro per i giovani. Questi dati evidenziano come il malessere economico e sociale alimenti un’attivazione che in tutto il globo sfida le strutture tradizionali e cerca nuovi linguaggi e forme di organizzazione, in un contesto internazionale segnato da crisi autoritarie, crimini contro civili, conflitti dimenticati o nascosti (attualmente sono oltre 50 nel mondo) e cambiamenti climatici.

In questa ottica la causa palestinese si sta configurando come un nodo centrale e simbolico delle lotte giovanili per i diritti e la giustizia sociale. Vediamo insieme come e perché partendo proprio dal Medio Oriente e da notizie raramente apparse sulle prime pagine dei media generalisti italiani. In Israele, una coraggiosa minoranza di giovani oppositori alla leva militare rifiuta di partecipare alla guerra contro Gaza, denunciando la violenza, i soprusi e la segregazione in corso da molti anni. Lo Stato risponde con arresti e dure condanne, alimentando un clima di crescente polarizzazione e repressione. Il movimento è definito “refusenik” (da refuse, rifiutare), e i ragazzi decidono di farsi arrestare pur di non arruolarsi nell’Idf, come abbiamo raccontato su Left con interviste a Yuval Dag e altri. Seppur