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Un’ampia coalizione sociale oltre il 25

Il presidente del Consiglio si muove sempre di più come il Ceo di una grande impresa ossessionato dalla relazione trimestrale e chiamato a dare l’idea ai mercati finanziari di decidere facendo quelle scelte che da sempre apprezzano. In questo sì, è molto simile a Marchionne.

Il punto è che guadagnare tempo sul banco dei pegni dei nostri titoli del debito pubblico non vale il prezzo che paghiamo. La definitiva quanto gratuita manomissione dell’articolo 18 e la legge finanziaria disegnano un preciso obiettivo di marca neoliberale: svalutare il lavoro per recuperare qualche briciolo di Pil. Oltre a essere inique queste scelte saranno ulteriormente recessive. Il sindacato rivendica una strada alternativa ma vengono al pettine dei nodi irrisolti.

Pur in una condizione di difficoltà, determinata da cambiamenti epocali che hanno indebolito il lavoro organizzato, avremmo dovuto utilizzare il capitale di credibilità dei due milioni del Circo Massimo nel 2002 non per fare un partito nuovo, come qualcuno sperava, o per conquistarne uno precocemente invecchiato. Ma per costruire una grande battaglia su welfare, superamento del lavoro precario, estensione dei diritti di cittadinanza. Non che non ci siano state tante vertenze sindacali con al centro i precari ma l’impressione è che non sia mai diventata una questione prioritaria per tutta la Cgil.

Avremmo dovuto fare di più per diventare punto di riferimento anche simbolico di due generazioni di esclusi. Per rivendicare con più convinzione la riscrittura del nostro Codice civile, mettendo al centro il lavoro tout court come diceva Massimo D’Antona o il progetto di vita che è nel lavoro come diceva Bruno Trentin. Scardinando la subordinazione da dentro con la contrattazione e da fuori con una rilettura dell’articolo 2094. Sarà una grande manifestazione quella del 25. Lo dicono i segnali che vengono dalle assemblee, dalle iniziative e dagli scioperi degli ultimi giorni. La domanda corretta non è, però, se la Cgil sarà in grado di replicare il 2002. La domanda è se la Cgil sarà in grado di andare oltre il 25 organizzando una mobilitazione diffusa, che faccia perno anche sullo sciopero generale, mettendo insieme una coalizione sociale ampia di dipendenti e free lance, disoccupati, precari, studenti.

Non è una questione di numeri ma di priorità. Cambiare la politica economica del governo e mettere in discussione dal basso l’austerità ottusa dell’Ue prima che populismi e fascismi prendano il sopravvento. La rappresentanza sociale ha un valore direttamente politico, oggi più che mai.

Il furto del lavoro sovverte la Carta

Racconta Piero Gobetti che l’intransigenza morale di Matteotti si manifestava nel suo rifiuto della politica dell’apparenza e nella pratica della concretezza: emblematico del suo stile è l’episodio di quando nel ’19 a un organizzatore che gli chiedeva di mandargli una fotografia da mettere sui manifesti spedì tranquillamente quella di un amico (Piero Gobetti, Matteotti, ed. or. 1924, ora ristampato dalle Edizioni di storia e letteratura, Roma 2014, p. 25). Il profilo di Matteotti che Gobetti scrisse e pubblicò a caldo subito dopo il delitto – e poco prima di essere anche lui costretto a emigrare e a morire giovanissimo a Parigi -, è un grande classico da leggere e meditare come un rimorso: ai nostri tempi una carriera politica si costruisce nei salotti televisivi coi sorrisi di soubrette e di giornalisti cortigiani. E leggendo come Matteotti affrontasse gli incontri coi contadini in sciopero e i loro padroni, preparandosi attentamente sulle questioni dei patti agrari, ci si chiede quale mai esperienza del lavoro abbiano oggi i politici di mestiere.

Sanno davvero per esperienza propria che cosa significhi l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? O almeno hanno mai riflettuto sul perché la Costituzione italiana si apre con quell’articolo 1 che ne è la porta d’ingresso? Nelle polemiche di questi giorni il punto di discrimine resta quello fissato in quell’articolo: si può dire ancora che l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro? E se non è più vero, allora su che cosa è fondata l’Italia? La risposta alla prima domanda è semplice: oggi il lavoro è tutto fuorché il fondamento di qualcosa. Al suo posto quello che unisce gli italiani è l’assenza di lavoro: per cui si potrebbe dire che al posto del lavoro come realtà c’è oggi il bisogno di un lavoro come sentimento, ossessione, speranza. E intanto la parola ha cessato di indicare una condizione generale dell’appartenenza sociale, un termine capace di unificare lavoro intellettuale e lavoro manuale, artigianato e lavoro di fabbrica. Al suo posto c’è un arcobaleno cangiante di episodiche prestazioni d’opera, senza durata e senza prospetive: c’è il lavoro mordi e fuggi, diverso da luogo a luogo, da stagione a stagione, una sostanza liquida, inafferrabile, che non consente di costruirvi sopra nessuna prospettiva di vita – crearsi una famiglia, assistere gli anziani, avere dei figli, pensare al loro futuro senza angoscia.

Oggi si tenta faticosamente di dar vita a un movimento dei lavoratori come forza collettiva. Ma per farlo bisogna partire non più dalla difesa del lavoro come realtà ma dalla rivendicazione di un diritto: quello di avere un lavoro che sia tutelato dalla legge. Ma si può ancora chiamare lavoro quello che comincia la mattina e la sera è già finito? I contratti di un giorno sono stati 687mila nel solo primo semestre del 2011. E c’è di peggio: ci sono i lavoratori che lavorano gratis . Nelle nostre istituzioni culturali – biblioteche, archivi, musei – il fenomeno è diffuso: chi scrive ha in mente tanti giovani laureati che arrivano al mattino e prendono i posti lasciati da impiegati oggi in pensione, per chiudere la sera col solo compenso di un panino e di un biglietto dell’autobus. A loro forse pensava Ignazio Visco quando, parlando di lavoro a Bologna nel sessantesimo della casa editrice Il Mulino, ha citato la frase del Candide di Voltaire: «Il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno». Visco ha aggiunto considerazioni ovvie in quel contesto, ma del tutto scisse dalla realtà italiana di oggi: ha detto che bisogna investire in conoscenza, alzare il livello della formazione dei giovani, ridare impulso all’università e alla ricerca. Ora, lo studio potrà salvare dalla noia e dal vizio, forse, anche se la cosiddetta “notte dei ricercatori” ha riempito le piazze di giovani ubriachi. Ma il bisogno no, quello resta. E anche chi conquista un lavoretto retribuito non sfugge alla malattia che ha roso le radici della convivenza civile , ha cancellato il senso della prospettiva e della durata nel nostro paese: si chiama precarietà. E si tratta di una malattia di lunga durata, non riguarda solo i giovani, visto che l’età media dei parasubordinati è di 42 anni. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi: per esempio, la denatalità. I figli che nascono sono pochi e dietro ogni nascita c’è in genere una madre che ha finalmente conquistato un posto di lavoro.

Nel vuoto del lavoro come realtà resta il sentimento di un furto, di un diritto perduto. Ed è a partire da qui che si comincia a prendere coscienza di come, passo dopo passo, la Costituzione è stata svuotata e sovvertita. La cancellazione dell’articolo 1 ha portato con sé un ribaltamento del sistema dalla democrazia al populismo, dal diritto a un sistema di sicurezza sociale e di istituzioni di tutela dei meno fortunati a erogazioni di qualche soldo in cambio della cancellazione dell’articolo 18, questo simbolo estremo del diritto a un lavoro che non sia sinonimo di soggezione del servo all’arbitrio del padrone.

#iosonoleft la festa

Lavoro, Economia, Futuro, Trasparenza. Dignità e diritti. Sinistra e laicità. Quest’anno ci vediamo e parliamo di questo. Andiamo in piazza e poi ci vediamo e parliamo. E le soluzioni le troviamo insieme. In una ex fabbrica di carta. Niente palchi né camicie bianche. Anzi, vi suggeriamo la camicia rossa! Tutti insieme, senza tribune né tribuni, come fossimo in piazza appunto. Una buona informazione può servire a costruire una buona politica e una buona cultura. E una vita bella.

E allora left rilancia, con un giornale rinnovato, ampliato nella foliazione e con una festa. Chi ci ha studiato, che ringraziamo infinitamente, ha scelto delle citazioni per raccontarvi cosa saremo. Libertà, ricerca, passione, cultura, inchiesta, onestà, rock, coraggio, laicità. Sinistra. E ci ha restituito una testata scritta a mano che testimonia una umanità necessaria. La nostra, di tutti. Allora discutiamo, ascoltiamo, parliamo, balliamo. Insieme. Vi aspettiamo tanti.

Tutti i rischi dello Sblocca Italia

Salvatore Settis, Tomaso Montanari, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, Paolo Maddalena e altri studiosi di primo piano -giuristi, archeologi, storici dell’arte eccetera- hanno unito le forze contro il decreto Sblocca Italia. Da questo straordinario coordinamento è nato un libro, dal titolo inequivocabile, Rottama Italia pubblicato dall‘Altreconomia, scaricabile gratis in pdf che non si limita ad argomentare le ragioni per cui il provvedimento stilato dal ministro Lupi non rappresenta affatto un volano di sviluppo per l’Italia. Ma in 110 pagine decostruisce la vuota e dannosa propaganda che lo sorregge.

La retorica del nuovismo e del cambiamento in questo caso, infatti, copre un grave attacco alla tutela del patrimonio artistico e del paesaggio, incoraggiando nuove colate di cemento sull’Italia già martoriata dalla speculazione edilizia, dalla derugulation urbanistica, dal progressivo e incalzante consumo di suolo. «Renzi rappresenta la piena continuità con la strategia d’uso del territorio espressa e praticata da Craxi e Berlusconi », stigmatizza un urbanista come Edoardo Salzano. «A quella dei due antenati, Matteo aggiunge però qualcosa di suo: al di là del linguaggio, dell’appeal giovanilistico e scanzonato, dell’uso di strumenti comunicativi idonei alla società liquida». E mentre fa politica via twitter, il premier Renzi fa compiere un enorme balzo indietro al Paese riguardo a diritti fondamentali iscritti nella nostra Carta.

Il decreto Sblocca Italia, per esempio, «reintroduce surrettiziamente» il famigerato principio del “silenzio-assenso”, nella materia urbanistica e paesaggistica, come denuncia l’archeologo Settis. Parliamo di un principio «contrario alla Costituzione e a un’affermata e costante giurisprudenza della Corte Costituzionale», ricorda l’eminente studioso. «La Repubblica promuove la cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», recita l’articolo 9 della Costituzione.

«Questa limpida formulazione – commenta Settis – comporta una conseguenza, resa esplicita dalla Consulta in numerose sentenze, a cominciare dalla 151 del 1986: “La primarietà del valore estetico-culturale” non può in nessun caso essere “subordinata ad altri valori, ivi compresi quelli economici”, e anzi dev’essere essa stessa “capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale». Di fatto invece il decreto Sblocca Italia «assicura piena e incondizionata libertà d’azione delle imprese senza preoccuparsi che le imprese non garantiscono affatto il perseguimento di interessi generali. Basta pensare alla Fiat », chiosa il giurista Paolo Maddalena. Di più. Il decreto Sblocca Italia configura un caso di «legge illegale» stigmatizza Giovanni Losavio. E Massimo Bray aggiunge: «Questo decreto non solo è stato approvato con un procedimento largamente derogatorio alle norme di better regulation – scrive l’ex ministro dei Beni culturali – ma dispone deroghe, talvolta rilevanti, al diritto vigente.L’urgenza non ha solo giustificato l’adozione di un decreto legge ma giustifica anche una serie di procedure abbreviate, di deroghe particolari e di nuove discipline da applicarsi in casi di urgenza». Con quali conseguenze è facile immaginarlo.

Se il Pd esce da Civati

«Sogno un partito democratico, laico, socialista, repubblicano, inclusivo». Il “dissidente” brianzolo racconta la sua idea di sinistra, fatta di passione e radicalità.

Allora, ricapitolando. A Pippo Civati questo Pd non piace, ma non pensa che sia il momento di lasciarlo. E continua a non piacergli il Pd degli ex ds: oggi si trova a condividere il ruolo di oppositore a Renzi, ma vuole evitare assolutamente d’essere confuso con loro. E non gli piace nemmeno – anzi, si direbbe che questa è la cosa che gli piace di meno – qualunque cosa che possa ricordare cose tipo la Sinistra arcobaleno, della quale pure parla con rispetto.

Che tutto questo possa dare una certa impressione di irresolutezza, dando adito a battutine del tipo “ma Pippo Pippo cosa fa?”, Civati ne è perfettamente consapevole. Ciò nonostante non c’è modo di strappargli non un impegno, ma nemmeno una previsione sul futuro. Perseverante, come una goccia consapevole d’essere in grado di scavare la pietra, Pippo ragiona attorno a un teorema semplice ma, forse, irresolubile. Che emerge alla fine della chiacchierata, in un estremo sforzo di sintesi.

Allora Civati, diciamo, se possiamo metterla così: il suo problema è capire se si può fare il Partito democratico nel Pd o se, per fare il Pd, bisogna uscire da questo Partito democratico. È così?

Esattamente – è la risposta – mi pare una sintesi molto buona. Che ha un corollario: non è oggi, né sarà domani, Pippo Civati ad allontanarsi dal Pd, ma è il Pd che si allontana da se stesso, dall’ispirazione originaria e anche dalle speranze di un suo recupero suscitate da Renzi. Questo risolve alla radice il problema dell’essere Civati in minoranza assieme agli stessi contro i quali fino a qualche anno fa, assieme a Renzi, combatteva. Anzi è da qui che è cominciata la chiacchierata, visto che siamo nei giorni della fiducia col naso turato, data dai bersaniani per “lealtà” e “responsabilità”.

Che ne pensa Civati di queste “responsabili” e “leali” forme di non-sfiducia?

Rispondo con una domanda: cosa vuol dire “lealtà” e “responsabilità”? La lealtà verso gli elettori è stata largamente superata con le larghe intese, visto che ci avevano eletto per non farle. E anche la lealtà dei comportamenti è stata messa via, come se fosse una cosa vecchia. Quanto alla “responsabilità”, vediamo di definire il concetto. Perché responsabilità è anche agire per tenere unito il partito non mettendo in atto comportamenti che lo dividono. Se poi si accetta di essere sempre responsabili verso chi non lo è, si rischia di assumere un ruolo ancillare. Sono solidale con chi ha votato “sì” mentre diceva “no”, ma segnalo che così facendo non si va molto avanti. Se avessi avuto tra i senatori un seguito come quello che ha Bersani, non avrei fatto casino: avrei preteso che non fosse messa la fiducia.

Non sappiamo cosa sarebbe successo. Sappiamo, però, che Renzi non pare preoccuparsene più di tanto. Anche perché è convinto che non ci sono alternative.

Non sono d’accordo. Quando a Livorno ho pensato di far nascere un’associazione che si chiama “Possibile”, in quel momento ho detto che le alternative ci sono e devono esserci: è un’esigenza politica. Se poi si riterrà che il Pd deve superare il centrosinistra, cioè non deve includere la sinistra, non l’avrò deciso io. Ho sempre creduto al Pd come un grande luogo di dibattito, diciamo “all’americana”. Ma non si può conciliare questo modo di essere col centralismo. Un senatore americano vota come gli pare, poi se la vede con i suoi elettori, qua votare in modo diverso è una violazione disciplinare. Nei prossimi mesi sono certo che si capirà se Renzi vuole sostituire questa visione di un partito aperto e inclusivo con la popolarità televisiva. Sarà una sua decisione se il Pd diventerà definitivamente il “Partito di Renzi”, quello che si è già delineato con il Jobs act, lo Sblocca Italia, la riforma del Senato, la Legge di stabilità. Un partito che forse vincerà le elezioni spostandosi al centro, che si chiamerà Pd ma non sarà più tale…

Come si trova a essere collocato, nelle varie infografiche che priodicamente appaiono sui giornali, nella “galassia” della minoranza assieme a pezzi della vecchia maggioranza?

Non mi pare che quei pezzi stiano facendo una particolare “intelligenza col nemico Civati”. D’altra parte è una minoranza che sta in maggioranza, cioè governa. Io non sono nemmeno entrato in segreteria, questo anche per rispetto nei confronti di Renzi, perché non si entra in un posto per rompere i coglioni. E ho rinunciato a tutti gli incarichi di governo e sottogoverno. Ripeto: pongo una questione politica e se altri sono d’accordo con me, non è che li seleziono. Mi spiacerebbe vedere una brutta fine del Pd. Se devono venire da noi i Sacconi e i Cicchitto io non c’entro. Anzi, per essere più precisi: non c’entro e “non centro”. Il problema è che si è perso il programma politico e culturale originario per sostituirlo con un modello fondato sul decisionismo, sull’ansia di fare. C’è una frase celebre americana che dice: «È un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana». Ecco, Renzi non è un figlio di puttana, diciamo che è solo molto disinvolto, ma non è comunque il mio.

Non teme d’essere confuso tra i “gufi” e tra gli estremisti che dicono sempre no. Su questo punto la propaganda di Renzi è molto efficace…

Non direi. A me pare che sia tutto molto sloganistico e molto poco nuovo. Se guardi lo Sblocca Italia, per esempio, vedi che a sbloccarsi sono i poteri forti. L’altro giorno in tv a Renzi è scappata una frase del tipo «quella è una battaglia della sinistra». È lui che ci etichetta in un universo che non esiste. E poi, andiamo, si può davvero sostenere che il modello della sinistra ha rovinato il Paese e che i sindacati sono all’origine della precarietà? Anche io mi sono arrabbiato con i sindacati, e il contratto unico era una mia proposta, ma serviva a stabilizzare non a creare altre forme di precarietà. Dopo la fiducia al Senato, a esultare era Sacconi. E non si può accusare chi si oppone a questo governo di fare lo stesso gioco di Bertinotti, perché Bertinotti ruppe con un governo di centrosinistra che aveva vinto le elezioni, qua si sta facendo il contrario di quanto si era detto prima delle elezioni…

E cresce l’insofferenza. Landini parla di occupare le fabbriche.

Dare messaggi appassionati e radicali è una dimensione che va recuperata. Ma Landini è anche uno che ha voluto coinvolgere tutta la Cgil. Non è un caso che ci sia una relazione profonda con lui e con tutto quel mondo sindacale che non vuole buttare via il bambino assieme all’acqua sporca. O con Vendola, che ha la stessa esigenza. Ci sono molte forze che starebbero bene nel Pd se fosse un partito inclusivo. Ed è per questo che io sto sulla soglia. Non voglio lasciare il Pd, e non voglio nemmeno fare qualche nuova forma di Sinistra arcobaleno. Bisogna stabilire che Paese vogliamo costruire e quale partito vogliamo. Se, per esempio, vogliamo il successo momentaneo e personale o quello duraturo e collettivo.

Quindi non sappiamo ancora quel che Civati farà…

Credo di essere stato chiaro. Voglio fare semplicemente il Partito democratico, un partito laico, socialista, repubblicano, inclusivo. Non mi allontano dal Pd. Eventualmente sarà il Pd ad allontanarsi da me e da una parte degli elettori che l’hanno votato. Per prendere molti voti in più? Possibile. Ma non è quello il mio partito. Se avessi voluto adeguarmi a quella visione avrei cominciato nel ‘94. Ero un ragazzo e nella zona dove vivevo c’era la Lega ed era appena arrivato Berlusconi. Ho fatto un’altra scelta.

Emma Watson, discorso alle Nazioni Unite #HeForShe

Emma Watson, attrice Britannica famosa per aver interpretato Ermione Granger nella saga di Harry Potter, in questo video del 21 settembre 2014, parla alle Nazioni Unite dopo essere stata nominata sei mesi prima ambasciatrice nel mondo per la parità di genere, e presenta il progetto #HeForShe di cui si fa portavoce. Watson racconta la sua esperienza come giovane donna e perché si definisce una femminista, parola «odiata da molti», ma «sappiate – spiega l’attrice – che non è la parola ad essere importante sono le idee e le ambizioni che stanno dietro ad essa a esserlo».

Falcomatà: I migranti fermeranno il nostro deserto.

Nel tempo della paura essere accoglienti è un atto rivoluzionario. O, quantomeno, coraggioso. Mentre l’Italia fa dietrofront sulle operazioni di salvataggio dei profughi in mare, interrompendo Mare Nostrum, da Reggio Calabria un giovane aspirante sindaco prova a indicare la soluzione all’eterna emergenza immigrazione, con «una nuova idea di accoglienza, integrazione e coesione» di tipo diffuso, capillare, che coinvolga l’intera area della città. Giuseppe Falcomatà, candidato del Pd, trent’anni e “figlio d’arte” – suo padre, Italo, fu il sindaco della Primavera di Reggio – non ha dubbi: «Due fragilità possono costituire una risorsa», spiega. «È l’occasione non solo di proporre un metodo di accoglienza diverso, più umano, nei confronti dei migranti ma anche di valorizzare il nostro territorio».

La strada dell’accoglienza diffusa è stata già percorsa da molti piccoli Comuni, soprattutto al Sud, ma è la prima volta che si pensa a un piano di accoglienza su così ampia scala. Questa estate Reggio – 200mila abitanti – ha visto sbarcare sulle sue coste 10mila profughi in due mesi. Adesso ai semafori ci sono “i niri” che chiedono l’elemosina. In periferia è facile incontrarli appoggiati alle ringhiere dei centri di prima accoglienza, attrezzati alla meno peggio. In riva allo Stretto non c’è la Lega, ma in compenso c’è il quotidiano online Strettoweb, che ha titolato: «Casi di malaria tra i clandestini che passeggiano in città», paventando una mai provata «emergenza salute pubblica». L’immigrazione anche a Reggio è diventata la pedina decisiva della campagna elettorale. Si tornerà al voto il 26 ottobre, dopo due anni di commissariamento per infiltrazioni mafiose. E dopo una lunga amministrazione targata Giuseppe Scopelliti, ex governatore ed ex sindaco condannato in primo grado a 6 anni di reclusione per abuso e falso per la gestione “allegra” delle casse comunali. Il clima è teso, lo scenario dissestato, ma Falcomatà non ha dubbi: i migranti sono anche un’opportunità da cogliere. Come? La soluzione sta tutta in una parolina di 5 lettere: Sprar, il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati attraverso cui la rete degli Enti locali accede ai fondi europei per seguire i percorsi di accoglienza e integrazione dei migranti. «L’opportunità è accogliere queste persone affinché possano ripopolare i nostri paesi e riavviare le attività lavorative perdute. Il nostro entroterra è spopolato, demograficamente triste, con età media alta e scarso ricambio generazionale».

In piena emergenza sbarchi il suo appello per un piano di accoglienza e coesione ha spiazzato tutti. Come possono essere gestite le migliaia di ingressi in una città come Reggio?

Dobbiamo cambiare il modo di fare politica in tema di immigrazione. Abbandonare una volta per tutte la politica del terrore. È evidente che la comunità reggina ha serie difficoltà ad accogliere un numero di migranti così alto, se non altro perché non abbiamo le strutture per poterlo fare. Ed è anche chiaro che ci serve aiuto per essere efficienti in una tale operazione di carattere internazionale: il governo e l’Europa devono fare la loro parte. Ma è anche vero che dobbiamo essere capaci di guardare un po’ più in là della semplice emergenza. Pensare a un modello alternativo di accoglienza.

Come?

La mia proposta non è poi così eclatante, originale o strana. Si tratta di “copiare” i metodi amministrativi efficaci ed efficienti già adottati in altri Comuni, non solo calabresi ma anche siciliani. Penso a esperienze come quella di Acquaformosa, Riace o altre nella vicina Sicilia. I progetti Sprar e l’accoglienza diffusa non solo creano situazioni occupazionali per i residenti ma possono davvero ripopolare un territorio con tutti gli annessi e i connessi: le scuole, le case, le botteghe e i tributi comunali. In molti Comuni della nostra provincia ci sono difficoltà addirittura nel formare la prima classe elementare, nel tenere in vita attività commerciali primarie come il forno o la bottega, o anche solo nel riuscire ad affittare gli immobili. È l’occasione per tornare a lavorare quelle terre, far nascere lì una nuova comunità integrata con quella che già c’è. Sia chiaro, questa non è una mia invenzione, ma esperienza già praticata da altri.

Finora le buone pratiche di accoglienza diffusa si sono sviluppate solo in piccoli Comuni: è la prima volta che qualcuno pensa a un piano di accoglienza su cosi ampia scala.

Ma è anche vero che lo spopolamento colpisce tutta la nostra area. È un problema soprattutto nei piccoli Comuni, ma sono tanti. E, nel giro di un anno, il sindaco di Reggio diventerà il sindaco della città metropolitana. Questo ci dà la possibilità di ragionare in un’ottica più ampia, di pensare a tanti progetti e occasioni in ambito metropolitano. Serviranno terreno fertile e collaborazione degli altri sindaci della provincia, ma non ho dubbi che se ragionata bene questa idea può prendere piede.

Non teme un calo di consensi in piena campagna elettorale? La città sembra impaurita…

Leggendo alcuni giornali locali, ho persino “scoperto” che la malaria si può trasmettere con un semplice contatto… e io che pensavo che la trasmissione fosse di altro tipo! Ecco, è questa la politica del terrore. Noi dobbiamo guardare avanti.

La politica del terrore, però, ha dalla sua il dissesto economico e la forte crisi sociale. In che stato versa la città?

Reggio ha un tessuto sociale assolutamente disgregato e lacerato, ma è una città che chiede di ritornare al più presto alla normalità. Una città normale garantisce sia i servizi pubblici essenziali, come quello idrico e la raccolta dei rifiuti, sia occasioni di crescita culturale e lavorativa. Tutto questo a Reggio oggi non c’è. La situazione è di estrema gravità e di estremo allarme sociale. Pesano le responsabilità e le miopie di chi ha amministrato in questi ultimi dieci anni. La città sa bene cosa è successo, sa che non è colpa né della crisi economica né della sfortuna se oggi Reggio si trova in questa situazione.

Ma, in questa situazione, perché i reggini dovrebbero essere d’accordo con lei?

Perché non si tratta di “rubare il lavoro a qualcuno” e nemmeno di “sottrarre qualcosa” alla comunità reggina. Anzi si tratta di dare vitalità ai piccoli borghi e ai piccoli Comuni, soprattutto montani, che piano piano negli anni sono stati abbandonati.

Ha appena 30 anni, chi glielo fa fare?

Me lo chiedono in tanti. Perché candidarmi nel momento peggiore della storia recente della mia città? La risposta sta proprio nella domanda: perché è il momento peggiore. Sono convinto che serva un’azione di carattere antropologico e culturale, ancor più che politico e amministrativo: restituire fiducia e speranza. Sbaglia chi pensa che la politica è qualcosa che non gli appartiene, la politica o la fai o la subisci. Non possiamo più permetterci che le scelte scellerate di pochi ricadano su un’intera comunità e su intere generazioni. È ora di abbracciare il metodo inclusivo dell’“adesso tocca a noi”.