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Pugno d’acciaio su Terni

I volti sono stanchi e preoccupati, nell’aria c’e forte odore di legna, che brucia per fare un po’ di calore. Siamo a Terni, davanti all’acciaieria più antica d’Italia: l’Ast, un’eccellenza nazionale. La fabbrica, dentro, è vuota. Gli operai sono tutti in strada. Ci accolgono davanti all’ingresso principale. Sono quelli che avete visto in queste ore mentre venivano caricati dalla polizia a Roma, sotto l’ambasciata tedesca. Erano in 500 circa a Roma, ma sono migliaia qui, quasi 3.000, e sono in presidio da nove giorni e otto notti.

I presidi sono quattro, ci sono anche gli impiegati stazionano davanti al palazzo della prefettura, il i lavoratori del centro rifinitura e tubificio sotto quello del Comune e gli operai dell’indotto – delle aziende terze – sono raccolti davanti all’altro ingresso, quello delle  merci.

A Terni ogni famiglia ha almeno un lavoratore alle dipendenze della multinazionale tedesca Thyssenkrup, che adesso annuncia esuberi e tagli alla produzione. Mentre il governo prosegue la trattativa con la Germania e i sindacati quella con il governo, left è venuta qui a Terni per ascoltare la voce dei lavoratori, della città. Ve lo racconteremo presto.

Riconoscete lo Stato di Palestina

Il mondo non può continuare a comportarsi come se non fosse a conoscenza di un fatto indiscutibile: il governo di Israele non vuole la pace sulla base di una soluzione a due Stati. Il piano del governo israeliano è quello di colonizzare il territorio palestinese imponendo alla popolazione riserve indiane.

E’ dal 1980 che l’Unione europea sostiene la soluzione due popoli per due Stati, fino ad ora si è realizzata solo l’avanzata delle colonie in quello che dovrebbe essere lo Stato di Palestina (dagli accordi di Oslo i 150mila coloni sono arrivati a 550mila). Molti ormai sono i palestinesi e anche personalità israeliane che di fronte a questa crescita e al frastagliamento del territorio sostengono l’inevitabilità di uno Stato per tutti, con il sogno che lo Stato possa essere democratico, giusto e per tutti i suoi cittadini.

Nella coalizione del governo israeliano, conservatori, destre e coloni la fanno da padroni. Ministri, parlamentari, giudici e generali sono coloni e credono fermamente che quella terra sia loro per diritto divino. Il ministro dell’Economia Naftali Benet, sostenuto da Nethaniahu, vara il piano per maggiori colonie e strade all’interno dei territori occupati palestinesi, e vorrebbe annettersi il 60 per cento di quello che dovrebbe essere lo Stato di Palestina e riocupare Gaza.

In questi ultimi mesi, oltre al massacro della popolazione di Gaza, la distruzione di migliaia di case e infrastrutture, Israele ha lanciato un’offensiva in Cisgiordania: arresti di attivisti dei Comitati popolari per la resistenza nonviolenta, uccisioni ed esecuzioni di civili, totale impunità per i coloni che picchiano, bruciano uliveti, terrorizzano i palestinesi per costringerli a non coltivare la loro terra, forzata espulsione da Gerusalemme est per renderla interamente ebraica.

Riconoscere unilateralmente lo Stato di Palestina è un messaggio chiaro, anche i simboli hanno la loro forza, soprattutto in quell’area, ce lo ricorda anche Yael Dayan, figlia di Moshè Dayan che insieme a 636 personalità israeliane aveva chiesto al Parlamento inglese di votare a favore del riconoscimento dello Stato di Palestina e lo chiede anche a Roma.

All’Assemblea delle Nazioni unite l’Italia ha votato a favore del riconoscimento della Palestina. E’ il tempo di rifiutare i ricatti israeliani e di riconoscere lo Stato di Palestina: è un passo per la pace e forse un po’ di giustizia. Già 134 Paesi lo hanno fatto, che la nuova ambasciatrice della Ue non sia sempre così pallida, ci dia colore e vita: riconosca lo Stato di Palestina.

*Luisa Morgantini è stata vice Presidente del Parlamento europeo

Io sono Stato

Un voto quasi unanime di quasi metà del Parlamento: con 274 voti a favore e 12 contro (gli astenuti non vengono conteggiati), la House commons ha approvato, il 13 ottobre scorso, una mozione che chiede al governo britannico di riconoscere lo Stato di Palestina accanto a Israele «come contributo alla salvaguardia del negoziato per la soluzione a due Stati». Quest’ultima frase è frutto di un emendamento del laburista Jack Straw e sottoscritto da entrambi gli schieramenti, ma non è bastato a placare l’ira del governo israeliano che solo dieci giorni prima aveva dovuto incassare il riconoscimento della Palestina da parte del governo svedese. «Con tutto quello che succede nella regione, vi sembrano queste le cose importanti di cui occuparsi?», aveva tuonato l’ambasciatore israeliano a Stoccolma. Evidentemente sì, visto che più o meno contemporaneamente anche deputati irlandesi, francesi spagnoli, olandesi hanno posto analoghe richieste ai propri governi. Quelli italiani ne hanno iniziato a discutere, confidando anche nel peso che potrebbe avere una simile richiesta. L’Italia è attualmente presidente di turno della Ue e Paese che esprime l’Alto rappresentante della politica estera: un suo “si” avrebbe un impatto ben più che simbolico. Ma andiamo con ordine.

I partiti della socialdemocrazia europea hanno atteso l’autunno per preparare la loro offensiva, giudicata tanto più necessaria dopo l’estate di fuoco e sangue a Gaza. «Per quanto simbolici, certi gesti vanno fatti», hanno spiegato i Verdi francesi, che il 18 ottobre hanno rivolto un appello al presidente Hollande. Tre giorni prima tre deputati socialisti avevano chiesto che il loro governo, al pari di quello svedese, riconoscesse la Palestina come nazione. Ma Laurent Fabius, capo della diplomazia dell’Eliseo, non è in grado di dire cosa farà: «Un riconoscimento ci sarà, ma solo quando riterremo sia utile». Prima o dopo la conclusione del processo di pace? Netanyahu punta i piedi, dice che nessun riconoscimento può avvenire se non è negoziato con Israele, il che significa, spiega nel dibattito a Westminster il laburista Grahame M. Morris, «porre un diritto di veto inaccettabile». I negoziati infatti sono fermi da aprile e non ci sono indizi di una rapida ripresa. In questi sei mesi c’è stata una guerra con più di 2mila morti e la costruzione di altri alloggi in Cisgiordania, negli insediamenti che le risoluzioni dell’Onu hanno da tempo dichiarato illegali. Dipendesse dall’attuale governo israeliano, i tempi per uno Stato palestinese non arriverebbero mai. «Abbiamo avuto vent’anni di discussioni senza nessun passo avanti. Ho sempre sostenuto Israele, ma l’annessione degli ultimi 950 acri di terra palestinese mi ha fatto vergognare», dice il conservatore britannico Richard Ottaway. «In altri tempi», aggiunge, «avrei votato no a una simile mozione. Ma adesso la mia rabbia è così forte che dico sì». Esattamente come aveva previsto qualche giorno prima il segretario di Stato Usa Kerry, avvertendo Israele: «Continuate così, e vi alienerete tutti gli amici che avete».

Il si inglese, che non avrà influenza sulla politica estera di Cameron – non era infatti vincolante -, pesa più del sì svedese che è invece prettamente politico. Eppure la mossa di Stoccolma, dove i socialdemocratici guidano un governo di minoranza, segna un punto importante: la rottura di un blocco europeo finora schierato con Israele. Certo, la Ue non è così compatta come sembra: 6 dei suoi membri (Polonia, Rep. Ceca, Ungheria, Romania, Bulgaria e Slovacchia) riconoscono già la Palestina dal 1988. Per quanto la decisione risalga all’era sovietica, non è emendabile. Nel 2012, in occasione del voto alle Nazioni Unite, 5 di quei Paesi furono tra i 12 Stati Ue che si astennero, mentre la Praga votò direttamente contro il riconoscimento della Palestina come Stato osservatore dell’Onu. A favore però si espresse la maggioranza dell’Unione, equilibrando i “pesi massimi” al suo interno: sì da Francia, Italia, Spagna; astensione da Germania, Regno Unito, Olanda. A votare “no” un pugno di Paesi: isole Marshall, Micronesia, Palau, Nauru, Panama, Rep. Ceca, Canada e Stati Uniti. E ovviamente Israele.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 1 novembre 2014

La Ast di Terni, che i tedeschi vogliono smantellare (da 60 anni)

A Terni si sta vivendo uno dei  momenti più drammatici che si ricordino, paragonabile solo agli anni della seconda guerra mondiale, quando i soldati tedeschi provarono a distruggere gli impianti delle acciaierie, non riuscendoci solo grazie al coraggio degli operai ternani  che li difesero fino alla morte.

Nel 2011, quando la multinazionale tedesca Thyssenkrupp,  dopo una serie di investimenti sbagliati effettuati in Brasile, Messico e USA, che la portano a perdere all’incirca 10 miliardi di euro e il rischio concreto di fallimento, decide di uscire dalla produzione di acciaio vendendo gli stabilimenti tedeschi ed italiani inseriti nello spin-off denominato Inoxum, attuando una politica di diminuzione del debito.

Nel 2012 la società finlandese OutoKumpo, costituita da capitale misto pubblico privato, effettua un’offerta complessiva per 2,7 miliardi, con l’obiettivo di dare vita al più importante colosso europeo di acciaio inox, in grado di competere con i colossi cinesi che oramai sono diventati cost leader e price leader.

Nel dettaglio il piano Outokumpo prevedeva la chiusura delle acciaierie tedesche di Krefeld e Bockum oramai obsoleti, la progressiva chiusura di alcuni laminatoi situati in Svezia, il rafforzamento del sito di Terni, facendolo diventare il fulcro delle produzione di inox per il sud ed est Europa; il piano riceveva il consenso degli investitori e degli operatori finanziari.

Ad aprile 2012 la commissione europea antitrust, presieduta dallo spagnolo Almunia decide di attivare la procedura di accertamento poiché la produzione di acciaio inossidabile effettuata nei siti di  Terni e quello finlandese di Tornio, raggiungerebbe il 52% della produzione totale europea, assumendo una posizione dominante e danneggiando gli altri produttori europei.

Intanto il mercato europeo è sempre più penetrato da acciaio cinese, tanto ché nel 2013 l’acciaio extraeuropeo aveva raggiunto il 35% del totale consumato.

A Novembre del 2012, la Commissione Europea accertata la posizione dominante, approva l’acquisizione di Inoxum da parte dei finlandesi sotto la condizione della vendita di AST, con la garanzia da parte della Commissione stessa del mantenimento dell’integrità del sito di Terni. Nonostante il sito ternano sia uno dei più competitivi a livello europeo, l’unica offerta effettuata è stata quella dal consorzio formato dai francesi di Aperam e dagli italiani Marcegaglia ed Arvedi, ma che OutoKumpo ha ritenuto insufficiente.

Chiaramente il prolungarsi dei tempi, in un mercato difficile come quello dell’acciaio, con gli azionisti delle due società che incominciavano ad avere più di qualche dubbio, stavano decisamente logorando le due società,  così nel gennaio 2014 la commissione europea dà il benestare al riacquisto di AST da parte della ThyssenKrupp, mettendo in piedi una mera operazione finanziaria per cercare di salvare i conti delle due società, ma che vede sacrificato in nome degli interessi tedeschi e finlandesi, lo stabilimento italiano.

Il 17 luglio 2014, la proprietà tedesca presenta un piano di riduzioni costi di 100 milioni che prevede lo spegnimento di un forno e la dismissione di una linea di produzione con la diminuzione della capacità produttiva che passa da 1,4 M/t annue a 800 000 t, con conseguenti  550 esuberi diretti ed altrettanti dell’indotto nell’immediato, con l’aggravante che il piano industriale presentato non prevede investimenti in grado di dare prospettive future al sito.

A rafforzare la tesi dello smantellamento della parte fusoria dello stabilimento ci sono le parole dichiarate dallo stesso Almunia che solo un mese fa ha fatto sapere quanto concordato con la Thyssen Krupp al momento della riacquisizione di AST: il semplice mantenimento dei volumi di lavorazione a freddo, con conseguente trasferimento delle lavorazioni a caldo in siti tedeschi, di cui era stata preventivata la chiusura già due anni fa, per il loro basso grado di efficienza. Questo “accordo”, reso pubblico solo ora, smentisce l’impegno che, appunto due anni fa, lo stesso Almunia aveva assunto rispetto al mantenimento dell’integrità del sito di Terni, unico impianto integrato per la produzione di inox in Italia. La perdita dell’attività fusoria renderebbe il nostro paese, che è il secondo consumatore di inox in Europa, completamente dipendente dalle importazioni.

In questa vicenda emerge con chiarezza l’incapacità dell’Italia di attuare politiche in contrapposizione delle scelte scellerate decise a Bruxelles e Berlino, fino ad oggi i vari governi che a partire dal 2011 si sono succeduti, hanno nel migliore delle ipotesi messo in campo delle timide dichiarazioni d’intenti.

Solo dopo una lunga serie di scioperi e solo dopo la drammatica occupazione della palazzina dirigenziale avvenuta il 29 luglio del 2014  da parte dei lavoratori dell’AST,  il Governo  ha convocato un tavolo al MISE senza ottenere nulla, tanto ché la proprietà il 5 ottobre ha attivato la procedura di mobilità per  537 lavoratori, rifiutando qualsiasi proposta, come i contratti di solidarietà che invece vengono accettati dalla proprietà per lo stabilimento di Duisburg.

A rendere ancora più grottesca la situazione, è nel fatto che grazie alle politiche di decontribuzione a favore delle imprese attuate dal Governo riceverà uno sgravio fiscale di circa di 7 milioni di euro.

Il Governo italiano dovrebbe adoperarsi, con l’autorevolezza che gli compete, per la difesa di una produzione strategica, imponendosi sui tavoli Europei, tessendo rapporti con gli operatori mondiali dell’acciaio, ipotizzando anche l’utilizzo di strumenti esistenti come il Fondo Strategico, lo stesso fondo più volte richiamato con forza dal commissario dell’Ilva di Taranto, Piero Gnudi, per lo sblocco della vertenza di Taranto.

Vista l’impossibilità della proprietà di investire, l’unica soluzione possibile in grado di dare prospettive future al sito italiano è quella della vendita ad un player internazionale in grado di garantire un mercato all’AST, come conseguenza di una politica industriale a favore della siderurgia nazionale, da opporre alle posizioni alquanto sbilanciate  della Commissione Europea.

Oggi come 60 anni fa, la città di Terni si è messa in difesa delle acciaierie, e se ancora esiste un lumicino di speranza per il sito ternano lo dobbiamo alla determinazione dei lavoratori che ancora oggi  da oramai 5 mesi sono in lotta, ma questa volta senza l’aiuto del Governo, l’intento tedesco in tempo di guerra potrebbe andare in porto in tempo di pace.

Musica: per una equa ripartizione delle risorse

Sabato scorso è uscita una paginata su un grande quotidiano nazionale dove si spaccia come elemento positivo il dato diffuso dalle major discografiche sulla crescita in Italia del 2% di vendite della musica in digitale (tutta a favore delle major per una percentuale di vendita in euro irrilevante) e del 6% di vinile (un numero infinitesimale che si calcola in poche migliaia di copie) come elementi positivi della crescita della musica per la promozione di un prossimo evento.

Sono dati di tendenza da segnare, certo, ma sono totalmente irrilevanti e paiono “fumo” da gettare in pasto all’opinione pubblica e agli operatori più sprovveduti per nascondere dove sta oggi il vero business della musica e chi se lo porta a casa a danno degli indipendenti e degli emergenti che creano il futuro della nuova musica e non trovano più le risorse per il made in Italy musicale.

Siamo infatti di fronte ad una vera e propria “alluvione” in Italia nel sistema musicale dove in dieci anni si è passati da un fatturato di 1 miliardo di euro nel mercato del Cd a poco più di 100 milioni di euro e dove il fatturato del digitale è arrivato solo a 40 milioni di euro e in un mercato dove il sistema del live per chi fa musica originale, inedita e innovativa, indipendente ed emergente, è diminuito sempre in 10 anni di almeno il 50% con la chiusura lenta ma inesorabile di tantissimi club, circoli, festival e contest.

Contemporaneamente, questo sì: sono arrivati a circa 5/600 milioni di euro i diritti che vengono incassati ogni anno dagli Istituti di Raccolta dei Diritti con il segno negativo per i nuovi artisti emergenti e indipendenti e tutta la loro filiera (autori, editori, produttori, musicisti, etc.) che incassano percentualmente minori rispetto a 5 anni fa, con ripartizioni sempre meno analitiche e sempre più forfettarie a favore dei grandi mentre restano sempre fermi circa 100 milioni di euro per tutti gli artisti, grandi e piccoli, nelle casse del vecchio Imaie.

Pur di fronte a dati che ci dicono che oltre il 50% del raccolto di questi istituti è dato dai tantissimi piccoli eventi musicali presenti nel Paese.

Inoltre arriveranno circa 300 milioni di euro in più grazie alla firma per l’equo compenso che chiediamo vengano investiti per almeno il 50% a favore dei giovani autori e di tutta la filiera che li sostiene e dei festival che li promuovono. Mentre sempre in Italia YouTube, Facebook e tutti gli altri monopolisti del digitale fanno centinaia di milioni di euro di fatturato sul digitale pagando direttamente ancora pochissimo gli artisti indipendenti ed emergenti con pochi centesimi per ogni click quando va bene se non addirittura nulla e portando i loro fatturati all’estero.

Quando non si sono ancora attivate politiche di sgravi e facilitazioni per i piccoli concerti sotto le 200 persone, non ci sono sostegni per le opere prime e ancora non si dà come in Francia lo spazio alla musica italiana e agli esordienti in radio e tv raccogliendo 45 milioni di euro di diritti che resterebbero così in Italia.

Tutte queste semplici operazioni: una ripartizione più analitica dei diritti, una più equa ripartizione del business sul digitale a favore di tutta la filiera creativa, una presenza nel Fus delle nuove musiche contemporanee, una maggiore diffusione di nuova musica italiana sui media porterebbe, a costo zero per il Paese e senza nessuna perdita per alcuno, alla creazione di almeno 30 mila posti di lavoro nel settore della nuova musica italiana, tutta tra le giovani generazioni, facendo emergere dal sommerso tante nuove professionalità, tra autori di testi e musiche e nuovi editori, piccoli produttori, artisti e musicisti ,  studi di registrazione, videomaker, grafici, nuovi comunicatori per la stampa e i social, piattaforme di crowdfunding (queste sì hanno sostenuto, insieme alle tante produzioni indies e autoproduzioni, le nuove produzioni indipendenti con oltre 200 progetti portati a segno in poco più di un anno e oltre 1 milione di euro raccolti) e a favore di tutta la filiera creando un volano economico e culturale di grande portata.

Di questo abbiamo parlato al Tavolo della Musica a Firenze con le parlamentari Francesca Bonomo ed Elena Ferrara , dell’Intergruppo Parlamentare per la Musica, insieme a Stefano Boeri. Di questo si deve parlare. Semplificazione, facilitazioni per i live per le produzioni, depenalizzazione di reati per il settore (come il disturbo della quiete pubblica) sgravi per chi investe, eque ripartizioni dei diritti, liberalizzazione armonica del settore, più compensi agli artisti dal grande business del digitale e della telefonia. Il resto è fumo per mangiarsi di nascosto l’arrosto sempre tra pochi.

Contro la precarietà

«Dov’erano i sindacati?», chiedeva un mese fa dagli schermi televisivi Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio citava il caso di «Marta, 28 anni, precaria, che non può andare in maternità». “Dov’erano i sindacati?” è diventato una sorta di slogan che ha accompagnato l’uscita pubblica del Jobs act. Le reazioni non si sono fatte attendere. Sul filo dell’ironia nei social network ma soprattutto come mobilitazione. «Io non so dove era lei, Renzi, ma so dov’erano loro». Erika, precaria e sottopagata, racconta come quelli della Cgil l’abbiano aiutata «nel momento del bisogno». La ragazza, insieme a Irene e ad altri giovani, compare in un “selfie” all’interno di una campagna video promossa su facebook e twitter dalla Filcams Cgil, il sindacato dei lavoratori del turismo e dei servizi. L’hashtag è #martachallenge #martatelecanta, con il chiaro riferimento alla “Marta” evocata dal premier. Chiaro anche il contromessaggio dei giovani precari. Se il concetto di uguaglianza del Jobs act è ridurre le tutele a chi ce l’ha, no grazie. Erika, nel finale del suo video, si toglie la maglietta, si avvolge nella bandiera della Cgil e dice: «Mi spoglio dell’ideologia e mi vesto di diritti».

È la lotta alla precarietà – economica, culturale e sociale – che il 25 ottobre sfilerà in piazza San Giovanni a Roma. Con le tre parole chiave: “lavoro, dignità e uguaglianza”. Su questi concetti si basano le controproposte della Cgil alla legge delega del Jobs act e alla politica del governo sul mercato del lavoro. Dallo Statuto dei lavoratori e dalle indennità di disoccupazione estesi a tutti – precari e atipici – , alla qualità e stabilità del lavoro con l’abolizione dell’attuale selva di contratti. La Cgil chiede anche un Codice del lavoro frutto dell’incontro tra Parlamento e parti sociali e non attraverso una delega del governo. Una presa di posizione così netta contro la precarietà non c’era mai stata da parte della Cgil, un sindacato che tra i suoi iscritti (5 milioni e 686mila nel 2013) vede soprattutto i pensionati (circa 3 milioni) e gli attivi (2 milioni e 600mila), anche se, va detto, le adesioni nel terziario e nei servizi, le aree con meno tutele, sono le uniche a crescere (circa del 7 % per la Filcams).

La mobilitazione decisa dal direttivo nazionale il 27 settembre arriva dopo mesi di braccio di ferro tra il premier e il segretario Susanna Camusso. Il duello a distanza tra i due – talvolta con dichiarazioni piuttosto ruvide – lascia intravedere sullo sfondo temi essenziali per il futuro del Paese. Da una parte, Renzi vuole “liquidare” il ruolo del sindacato come corpo intermedio (l’ha detto esplicitamente), accusandolo di essere ideologico e ancorato al passato. Dall’altra, la Cgil rivendica la sua azione di tutela dei diritti dei lavoratori, soprattutto oggi che sono ancora più a rischio. E nel fare questo, il sindacato punta l’indice contro gli obiettivi del governo delle larghe intese, schiacciati su un pensiero economico proprio della destra. «Matteo Renzi come Margaret Thatcher», aveva detto Camusso a metà settembre, facendo infuriare Renzi. Quali che siano gli ispiratori del presidente del Consiglio, è un fatto però che il relatore al Senato del Jobs act sia stato Maurizio Sacconi (Ncd), già ministro sotto Berlusconi e autore nel 2009 di un libro bianco sul welfare concepito in un’ottica confessionale, da comprendere anche «il dono e la carità».

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 25 ottobre 2014

La nostra vita non è un gioco

Anni fa, all’inizio del processo di precarizzazione, politici e opinionisti d’ogni colore politico raccontavano la stessa favola: era finito il Novecento, cambiava tutto e grandi possibilità – dicevano – sarebbero arrivate dalle sorti magnifiche e progressive della flessibilità. Il pacchetto Treu, la legge Biagi e tante altre leggi varate dal centrodestra, come dal centrosinistra, avrebbero fatto della parola “disoccupazione” poco più di un termine desueto.

È andata diversamente. La favola era una balla, utile a propagandare la precarietà: una forma intensiva di sfruttamento ad alta ricattabilità e bassi salari basata sulla distruzione dei diritti, la compressione dei salari e lo smantellamento del welfare. Un modello, concausa della crisi economica, che ha generato solo una spirale perversa di cattiva occupazione e disoccupazione di massa da un lato e profitti per pochi dall’altro.

Al contrario di quanto non voglia raccontarci la retorica renziana non ci sono lavoratori di serie A e lavoratori di serie B, ma al massimo pochi ricchissimi che vivono in serie A e sotto di loro un complesso dedalo di serie minori in cui lavoratori con poche tutele si contendono un salario con lavoratori senza nessuna tutela e disoccupati.

Renzi usa i precari, i senza diritti, come scudi umani contro gli altri lavoratori puntando a livellare verso il basso i diritti di tutti. Procede con una violenza verbale inaccettabile, che punta ad alimentare una pericolosissima guerra tra poveri. Ma non si limita alle parole, ma mette in campo un’azione concreta che dal decreto Poletti (che rimuovendo la causalità dei contratti a termine e svuotando l’apprendistato riesce persino a peggiorare la riforma Fornero) alla delega del Jobs act delinea un mercato del lavoro sempre più precario.

Servirebbe invece una vera riduzione delle forme contrattuali precarie, un reddito minimo garantito che ci assicuri un’esistenza dignitosa e libera dai ricatti, l’estensione universale a tutti e a tutte degli strumenti di welfare (malattia, casa, maternità e paternità), un sostegno al lavoro autonomo vero, investimenti ingenti per creare nuova e buona occupazione.

Abbiamo bisogno di una grande mobilitazione nelle piazze e nelle istituzioni per invertire radicalmente il segno delle politiche di questi anni. Serve un fronte variegato e determinato che promuova l’opposizione alle politiche del governo Renzi e trovi in questa lotta le ragioni e la forza per costruire l’alternativa politica di cui abbiamo bisogno.

Serve un patto tra imprese e giovani

Solo in Italia è possibile lavorare in un negozio di calze come stagista. Solo in Italia è possibile lavorare come collaboratore in un call center, otto ore per cinque giorni la settimana, senza tutela per malattia e maternità. Solo in Italia è possibile lavorare da precario in un ente pubblico di ricerca, in funzioni di delicato interesse pubblico. Solo in Italia esiste il contratto parasubordinato. Chi lo firma non è esattamente un dipendente, come indica il nome. Infatti non ne condivide i diritti e affronta molti più rischi, come fosse un autonomo. Il parasubordinato ha consentito alle imprese e alle cooperative sociali di assumere un dipendente, pagato meno, con bassi contributi previdenziali e non protetto.

In Italia ci sono oltre 1,4 milioni di parasubordinati, tra questi 546mila collaboratori a progetto con uno stipendio medio di 10mila euro lordi all’anno. La flessibilità del lavoro è una realtà – 7 su 10 i contratti a tempo determinato sul totale dei nuovi rapporti di lavoro nel 2013 -, il precariato permanente è la sua degenerazione. Ma non è l’unica via possibile, c’è ancora un’opportunità.

Il parasubordinato deve essere abolito: i dipendenti mascherati da co.co.co diventino dipendenti a termine, apprendisti o interinali, e i veri collaboratori a progetto diventino professionisti senza albo, con partita Iva e contributi ribassati nei primi anni. Per questi ultimi ci sono 800 milioni di euro in finanziaria, una discontinuità forte col passato, un riconoscimento del lavoro autonomo di seconda generazione. Si può ragionare attorno a un nuovo tipo di contratto, che assorba tutte le forme di lavoro subordinato e eterodiretto.

Un patto professionalizzante tra imprese e giovani: minori costi di licenziamento per i primi tre anni, con regole certe per la stabilizzazione, e in cambio la possibilità di rimanere in un percorso formativo. Mentre si lavora, si può continuare a studiare per il diploma o la laurea, imparare l’inglese o l’uso di un programma informatico: 150 ore indicate dall’impresa, 150 ore scelte dal lavoratore. Si dovrà ridisegnare la formazione professionale, lo stage e l’alternanza, e ridefinire il rapporto tra scuola-università e il sistema delle imprese. A copertura, ci sono i fondi regionali per la formazione e quelli europei. È un investimento dell’impresa, del lavoratore e della collettività per garantire un’assicurazione dentro la flessibilità. Il contratto professionalizzante è un’occasione per i giovani che chiedono lavoro, per avere un reddito ma anche per potersi realizzare, conquistare opportunità di cultura e professionalità. E libertà.

Stefano Rodotà e la trincea della dignità

Quando si difendono i diritti, è facile trovarlo in prima fila. Stella polare della sinistra movimentista, Stefano Rodotà, il giurista che un anno e mezzo fa ha “rischiato” di diventare Presidente della Repubblica, è l’instancabile sentinella dello spirito della Costituzione. Una Carta, la nostra, che ha compiuto quella che lui chiama «la rivoluzione della dignità», introducendo un principio che nella realtà quotidiana è però «costantemente negato». Da qui il suo appello per un reddito minimo o di cittadinanza, che permetta di fuggire dalla miseria e dal ricatto.

La dignità, un suo cavallo di battaglia, è diventata una delle parole chiave della manifestazione della Cgil. Era ora?

Oggi si parla molto di dignità, ma è continuamente violata. Quando crescono le povertà, la disoccupazione e le discriminazioni è soprattutto la dignità della persona a essere messa in discussione. La dignità è una delle rivoluzioni del costituzionalismo dell’ultimo dopoguerra. Si trova in cima alla Carta tedesca, che si apre proprio con le parole: «La dignità umana è inviolabile». La Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 integra la forma tradizionale «tutti gli uomini nascono liberi e uguali» aggiungendo «in dignità e diritti». L’art. 3 della Costituzione italiana, «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale», arricchisce la versione tedesca perché dice che la dignità non deve essere riconosciuta solo alla persona in quanto tale, ma anche nella relazione con gli altri. La dignità torna poi nell’art 41 – «l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con (…) la libertà e la dignità umana» -, nell’art. 32 sulla salute («la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana») e nell’art. 36, che impone una retribuzione che garantisca «un’esistenza libera e dignitosa». Non è un caso che la dignità compaia con tanta forza nelle costituzioni dei vinti: in Germania e Italia c’erano state gravi violazioni di quel principio. La Carta dei diritti fondamentali della Ue si apre con le stesse parole della Costituzione tedesca. La triade rivoluzionaria oggi si legge: libertà, eguaglianza e dignità. Non perché sia sparita la solidarietà, ma perché la dignità dà il tono al quadro dei princìpi della democrazia. Attribuisce un’ulteriore forza e attenzione alla persona. Tale contesto è anche un limite alla possibilità del legislatore di intervenire in forme che mettono in discussione la dignità.

Questo sulla Carta. E nella realtà?

Nella realtà la dignità è continuamente messa in discussione. Anzi diciamolo francamente: è continuamente negata. Nella Costituzione è il lavoro che attribuisce dignità alle persone, perché permette di non dipendere dagli altri. Questo dovrebbe imporre una riflessione su come la violazione della dignità legata all’esclusione dal mondo del lavoro debba essere combattuta. Il reddito minimo o universale di cittadinanza fa uscire le persone da una condizione di difficoltà ed è la strada necessaria per restituire dignità. Nel momento in cui la retribuzione è sempre più in discussione – perché non c’è lavoro o c’è ma è precario o in nero -, è necessario trovare misure sociali adeguate. Il reddito minimo mi mette anche nella condizione di non essere ricattato quando cerco lavoro. Siamo rimasti, insieme alla Grecia, l’unico Paese in Europa a non aver rivisto il sistema di sostegno sociale. La dignità non è solo un’astrazione: ti mette di fronte a situazioni drammatiche. Oggi si parla molto di articolo 18 come se i problemi del lavoro si risolvessero con la diminuzione delle garanzie. Viviamo in un Paese in cui la violazione della persona avviene anche attraverso forme di vera e propria schiavitù: l’Italia, soprattutto in alcune regioni, è dominata da poteri criminali. Dobbiamo ricostruire la legalità attorno al lavoro, fondamento della Repubblica democratica. La dignità della persona è riconosciuta a tutti: non si possono fare differenze per gli immigrati irregolari. Quando il lavoro è negato o ridotto a oggetto di ricatto è negato un pezzo di democraticità. I diritti fondamentali delle persone non possono essere subordinati alla logica del profitto. Al di là dell’inflazione delle citazioni, nel concreto la dignità viene rispettata poco. Le azioni legislative sono molto modeste. In Italia, poi, la dignità della persona è legata anche al governo della vita privata.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 25 ottobre 2014

Maurizio Landini: senza diritti è schiavitù

Freddo. Un paio d’anni fa Maurizio Landini scelse questa parola e con la voce a tratti rotta dalla commozione raccontò in tv del freddo provato a sedici anni, quando per la prima volta entrò in una fabbrica. Qualche giorno fa un altro Maurizio (questa volta il comico Crozza) ironizzava sugli occhi freddi e vuoti di Sergio Marchionne, ad Fiat. Il freddo della fabbrica e gli occhi freddi dei Marchionne d’Italia sono al centro della vita del segretario della Fiom più popolare che si ricordi, seguitissimo per le sue battaglie sindacali ma tanto amato anche dai media per quelle sue reazioni indignate ogni volta che a finire sotto attacco sono i diritti e la dignità dei lavoratori.

Le va se ripartiamo dall’articolo 18? Renzi afferma che ormai «è un totem ideologico di una vecchia sinistra che difende i privilegi di pochi». Cosa risponde?

Che un lavoro senza diritti non è un lavoro, è schiavismo. E che lo Statuto dei lavoratori va esteso a tutti e non tolto a quelli che ce l’hanno. Che l’art. 18 è una tutela individuale per far sì che una persona sia un libero cittadino anche nei luoghi di lavoro e che molto semplicemente impedisce che si abbia il diritto di licenziare quando si vuole. Del resto, la teoria che nel resto dell’Europa non ci sia l’art. 18, e che per questo bisognerebbe toglierlo anche da noi, cozza contro il fatto che in Europa ci sono 25 milioni di disoccupati. Tra l’altro non mi pare che lì dove non c’è l’art. 18 le cose vadano molto meglio sul piano del lavoro e dell’occupazione. È un elemento di civiltà che non può essere messo in discussione. Avere dei diritti serve a riequilibrare il rapporto tra lavoratore e imprenditore e soprattutto a permettere alle persone di realizzarsi nel lavoro che fanno, senza avere paura di ricatti o discriminazioni. Questa storia della sua abrogazione è un falso problema ma soprattutto è un passo indietro inaccettabile per tutto il Paese.

Lei inizialmente non era tra i gufi. Ha tentato il dialogo con questo governo. Ora è tutto saltato, quale è stato il punto di rottura?

Io sono abituato a giudicare le persone e i governi per quello che dicono e quello che fanno. Il presidente del Consiglio aveva detto di voler cambiare il Paese, e io gli ho proposto di farlo assieme alle lavoratrici e ai lavoratori. Quando ha dato gli 80 euro sono stato d’accordo, quando ha tassato le rendite finanziarie anche, nel momento in cui invece ha scelto di accettare il programma di Confindustria facendolo di fatto diventare il proprio, mettendo in discussione non solo l’art. 18, ma tutto lo Statuto dei lavoratori, non sono stato più d’accordo.

Perché? Non le sembra un possibile elemento di cambiamento anche questo?

L’idea che sia sufficiente ridurre la tassazione sulle imprese per risolvere i problemi di questo Paese, accettare di mettere in discussione i contratti nazionali di lavoro, ritenere che il modello Fiat possa diventare un modello generale, implica scelte economiche e finanziarie che non fanno altro che proseguire sulla linea già indicata dai governi Monti e Letta. Così non si cambia il Paese: così si torna indietro e soprattutto non si mettono in discussione quei vincoli Ue che stanno mettendo in ginocchio l’Italia e l’Europa.

Quindi ora anche lei è tra i gufi?

Il problema non è essere contro Renzi. Il problema, per quello che riguarda il sindacato, è essere autonomi e indipendenti e avere un proprio progetto, delle proprie proposte che, a differenza di quelle del governo, non vogliono dividere ma unire tutte le persone che per vivere devono lavorare. Dobbiamo costruire un’alleanza vasta di persone che sia in grado di cambiare queste scelte e questa politica e anche di mettere in discussione la politica in Europa.

Una vasta alleanza di persone “di sinistra” o anche questa definizione non ha più senso? Il mondo per Renzi si divide in vecchi e nuovi, come salvarsi da questa dialettica asfittica?

Ho la sensazione che in questi anni sul piano culturale e dei valori abbia prevalso un pensiero unico. Quello del libero mercato, del cosiddetto liberismo in Europa e in Italia. Sulle politiche industriali e sulla centralità del lavoro anche i governi di centrosinistra che hanno preceduto Renzi non hanno fatto nulla di molto diverso dai governi di centrodestra. C’è stata invece la costruzione di una legislazione che di fatto ha favorito la riorganizzazione delle imprese a danno dei diritti e degli investimenti. Soprattutto non si è mai affrontato il problema della redistribuzione della ricchezza a danno del lavoro. Siamo il Paese che ha l’evasione fiscale e la corruzione più alte e in questi anni il mondo che rimane maggioritario, quello cioè di chi per vivere svolge un lavoro salariato, è rimasto senza rappresentanza.

La risposta deve essere politica?

Innanzitutto oggi il problema è costruire un progetto e una cultura che siano alternativi a questo pensiero e allo stesso tempo produrre dei risultati molto concreti. Ogni giorno siamo di fronte ad aziende che chiudono, licenziano, delocalizzano. Siamo di fronte a un lavoro ridotto a merce, precario. Non si vive più lavorando, anzi si è poveri lavorando. Io non so se la politica attualmente sia in grado di svolgere questo compito. Per quanto mi riguarda penso che le organizzazioni sindacali, in questo caso la Fiom e la Cgil, siano oggi l’unico soggetto che può offrire un terreno di riunificazione del mondo del lavoro. Anche per la costruzione di un progetto alternativo a quello portato avanti da questo governo e da questa Europa.

Anche voi però siete spacciati per “vecchi arnesi inutili” preposti alla difesa di pochi privilegiati. E spesso accade che vostri segretari vengano fischiati in piazza dagli stessi operai che da anni non votano i partiti della sinistra.

Mi pare evidente che in questo Paese ci sia un problema di rappresentanza. Metà degli italiani non va a votare, metà dei lavoratori non è iscritto a un sindacato, così come per le Associazioni d’impresa. Noi, Fiom e Cgil, non abbiamo difficoltà a riconoscerlo. A differenza di altri siamo in rapporto diretto con le persone e siamo pronti a giocarcela, per questo abbiamo organizzato scioperi, manifestazioni come quella del 25 ottobre e molto altro. La critica più forte che ci fanno, in questo caso alla Cgil, è proprio quella di non aver fatto fino in fondo la sua parte, di non essersi opposta ai tagli alle pensioni e di non essere stata sufficientemente autonoma dai partiti, dai governi, dal quadro politico. Ecco, dal momento che le decisioni della Cgil in questi mesi vanno in direzione opposta e offrono un terreno di mobilitazione, sono convinto che questo è il modo per recuperare. In questi giorni le nostre piazze si sono riempite oltre ogni aspettativa e penso si arriverà allo sciopero generale e oltre. Bisogna essere in grado di dare una risposta vera e, come Fiom e Cgil, dobbiamo essere pronti a cambiare, a rinnovarci, a essere più democratici per recuperare il terreno perduto in questi anni.

Le va di ricordare uno dei meriti belli del sindacato? Per esempio, il dato che lì dove il sindacato è più forte c’è meno precariato?

In Italia la precarietà esiste perché sono state fatte delle leggi che hanno creato forme di lavoro incredibili ed è chiaro che tutto questo ha indebolito anche il sindacato e la sua possibilità di tutelare e garantire tutti. Le faccio l’esempio del settore metalmeccanico (è quello che conosco meglio!), quando Federmeccanica (associazione delle imprese) afferma che ancora oggi oltre il 90% degli impiegati nel settore ha un contratto a tempo indeterminato, vuol dire che il sindacato ha fatto migliaia di accordi per far sì che il lavoro precario fosse limitato e che molti contratti venissero trasformati in tempi indeterminati. Abbiamo fatto accordi sugli orari e sugli usi degli impianti. Ed è evidente che se nel settore metalmeccanico c’è meno precarietà è grazie al nostro lavoro. Questo ci è riconosciuto, in questi mesi nelle fabbriche si sta votando per eleggere le Rsu e siamo di fronte al fatto che, contrariamente al voto delle Politiche, l’80-90% dei dipendenti partecipa al voto e la Fiom si conferma il primo sindacato nel settore metalmeccanico. Lo ripeto, se i giovani i precari percepiscono che questa volta la Cgil e la Fiom fanno sul serio, ci sono tutti i presupposti per impedire che il governo faccia gli errori che annuncia.

Le chiedono di continuo di entrare in politica, di essere il nuovo leader della sinistra. Cos’è, secondo lei, che le riconoscono? Una coerenza personale? Una onestà?

Io credo che sia frutto del lavoro fatto dalla Fiom in questi anni. Non di Landini, della Fiom, delle delegate e dei delegati, di tutti gli iscritti che nelle fabbriche ci hanno messo la faccia. La forza della Fiom sono le migliaia e migliaia di delegati, di donne e di uomini, di giovani che ogni giorno coerentemente difendono i propri diritti. Io, essendo in questa fase segretario generale, interpreto il lavoro che la Fiom ha fatto. Noi siamo stati coerenti, abbiamo cercato di fare ciò che dicevamo, non abbiamo mai avuto paura anche quando eravamo controcorrente. E, come nel caso della Fiat, si è visto nel tempo che avevamo ragione. Penso che questo sia l’elemento che ci viene riconosciuto, una autonomia e una indipendenza di giudizio. Detto questo mi lasci aggiungere che c’è anche un tentativo, fatto ogni volta che cresce il consenso intorno alle mobilitazioni della Fiom, di delegittimazione. Si dice che il suo segretario vuole entrare in politica e lo si fa per delegittimare quello che stiamo facendo tutti. Sono sei anni che portano avanti questa tiritera.

Le gambe della sinistra per Bobbio erano l’uguaglianza e la libertà. Oggi siamo in piazza per il lavoro: quando diventa libertà?

Il lavoro è libertà quando la persona si realizza in quello che fa. Il vero asse della lotta alla precarietà è proprio la libertà nel lavoro. L’aspirazione delle persone che fanno un lavoro non è solo di prendere i soldi ma di realizzarsi. Fare cose che piacciono, usare la propria intelligenza, essere riconosciuti come persone e attraverso questo realizzare la propria identità e la propria dignità. Per questa ragione la lotta contro la precarietà è una lotta per la libertà e per la democrazia. Perché quando si trasforma il lavoro in pura merce e si riducono i diritti è chiaro che si è di fronte a un attacco alla democrazia e ad una riduzione della libertà prima ancora che nel lavoro, nella vita.