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Ma l’università non è un garage

A un mese del lancio della lettera aperta “Hanno scelto l’ignoranza” che ho scritto con un gruppo di scienziati di diversi Paesi, è tempo di fare un primo bilancio. La lettera è stata ripresa da tutta la stampa europea ed è stata firmata da più di 15mila persone al momento (la raccolta firme è ancora aperta). Il titolo che abbiamo scelto è ispirato a una famosa riflessione di Derek Bok, ex- presidente dell’università di Harvard: «Se pensi che l’istruzione sia costosa, prova l’ignoranza». Il progressivo taglio di finanziamenti all’istruzione e alla ricerca sta rapidamente portando a una situazione di non ritorno molti Paesi in cui l’ignoranza, cioè il deficit di preparazione avanzata, riguarderà, purtroppo, le fondamenta strutturali.

L’Italia, ad esempio, ha circa la metà (21%) di laureati nella fascia di popolazione tra 25 e 34 anni della media Ocse (38%). Inoltre nel decennio 2003-2013 il numero d’immatricolati è diminuito del 20% : il capro espiatorio della crisi sembra essere l’università incapace di preparare al mondo del lavoro. In realtà c’è una bassissima richiesta di personale con formazione avanzata: la quota di occupati nelle professioni ad alta specializzazione è tra le più basse in Europa, come anche la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese italiane (la metà rispetto alla media europea) mentre i ricercatori delle imprese rispetto agli occupati sono un terzo della Francia e della Germania. Continuando tagliare sul finanziamento di università e ricerca si continuerà ad aggravare una situazione che già ora sembra essere irrecuperabile: un folle gioco al ribasso che rende necessario, per supplire alla mancanza di innovazione, abbassare i costi del lavoro e i diritti dei lavoratori.

Il Presidente Renzi spiega che, come soluzione, vorrebbe che le università italiane siano come i garages della Silicon Valley, dove, nell’immaginario collettivo, nascerebbero l’innovazione e il business grazie a giovani scamiciati e geniali aiutati dalle forze del libero mercato. In questa fantasiosa rappresentazione della realtà ci si dimentica del fatto che, nel Paese per altri versi paladino del libero mercato, la ricerca di base è finanziata dal governo federale per 40 miliardi di dollari all’anno. Se si possono impunemente raccontare queste favole, significa che stiamo toccando con mano i danni dell’ignoranza: se n’è sicuramente reso conto il milione di persone che ha manifestato la settimana scorsa, e che si è ritrovato orfano di un qualsiasi riferimento non solo politico ma anche culturale.

François, le premier

E’ il 28 ottobre ’81, mercoledì. Firenze, ore 14.30. Allo stadio comunale si recupera Fiorentina-Ascoli valida per la terza d’andata di serie A. Il campionato intanto è arrivato al sesto turno e al comando c’è sempre la Juventus di Liam Brady campione in carica che guida con tutti e 12 i punti disponibili davanti alla Roma di Falçao e all’Inter di Prohaska. Il Napoli di Ruud Krol insegue a quota 7. La Fiorentina di Daniel Bertoni, campione del mondo con l’Argentina, è nel mucchio insieme al Bologna dell’anonimo tedesco Herbert Neumann e al Catanzaro del semisconosciuto rumeno Viorel Nastase. Nella seconda metà della graduatoria ci sono il Milan di Joe Jordan, lo squalo di Scozia, e il Toro del terzino d’Olanda Van de Korput. Con loro il Genoa del belga Vandereycken e il Cagliari che non dispone dello straniero nel suo organico.

L’Ascoli di Carlo Mazzone e del presidentissimo Costantino Rozzi è in zona pericolo con soli 4 punti insieme all’Avellino di Juary (quest’anno ancora digiuno di balli intorno alla bandierina) e al Cesena del più concreto bomber austriaco Walter Schachner. Fanalini di coda: l’Udinese del brasiliano Orlando e il Como dell’altro austriaco Dieter Mirnegg. Se a Mazzone basta un pareggio, al concittadino Picchio De Sisti serve una vittoria per mantenere i viola al passo delle grandi. L’occasionissima la spreca il capitano Giancarlo Antognoni che, davanti ai baffi del portiere Fabio Brini da Porto Sant’Elpidio, sbaglia un calcio di rigore. A un quarto d’ora dalla fine, Carletto Mazzone da Trastevere fa alzare dalla panchina il suo straniero, il primo africano pronto ad esordire nel nostro campionato.

Si tratta di François Zahoui, ventenne arrivato in estate dalla Costa d’Avorio. Rappresenta l’ennesima sfida del presidente Rozzi ai vertici della Federazione e alle squadre di prima fascia. È costato circa venti milioni di lire e ha firmato un contratto con paga al minimo sindacale. Nel suo Paese giocava nelle giovanili dello Stella Club di Abidjan, la grande capitale, continuando a lavorare in una fabbrica di bottiglie di Treichville, il sobborgo natio della periferia est. Gli lascia il posto l’ala destra Carlo Trevisanello da Venezia. Mazzone vuole forze fresche per le ripartenze e per sfilacciare la squadra avversaria.

Zahoui è dotato di buoni piedi e buona tecnica e il mister lo ha subito adattato al gioco sulla fascia. I bianconeri resistono, i viola non segnano e finisce 0-0. La Fiorentina galleggia a 7 punti eppure, domenica dopo domenica, saprà contendere il titolo alla Juve fino all’ultima giornata. L’Ascoli conquista la salvezza con diversi turni d’anticipo e raggiunge addirittura il sesto posto in classifica.

Durante la stagione, il ragazzoafricano non segnerà neanche un gol e giocherà appena 8 partite. Tutte entrando dalla panchina, tranne una volta da titolare: 25 aprile ’82, stadio Del Duca, scontro diretto in casa contro il Cesena. Vince l’Ascoli 1-0 con gol di Greco nel primo tempo. A venti minuti dal termine, Zahoui viene sostituito tra gli applausi dal più esperto centrocampista Carotti. Alle domande dei giornalisti rispose: «Giocherò titolare se sarò più bravo di altri. E questo lo decide soltanto il signor Mazzone che mi segue e mi vuole bene».

Tutti contro Obama

“Democratici? No thanks”. Pierre Bedebey, afroamericano di Madison, sorriso solare e capelli sale e pepe, non darà il suo voto alle elezioni di medio-termine. «Non mi interessa il gioco sporco di Capitol Hill, il parlamento americano». Nemmeno Ellen Mortensonn, 39 anni, donna e “obamina” della prima ora, della Louisiana. «Serve un congresso che tolga le tante regolamentazioni della Casa bianca: più lavoro e meno burocrazia, specie sull’energia. Credo che questa volta darò il mio voto per il senatore repubblicano».

Sono questi gli elettori che stanno facendo venire i sudori freddi al Partito democratico, guidato da un Obama sempre meno popolare: moderati ostili al presidente, cittadini poco invogliati a supportare senatori e congressman, indecisi che potrebbero disertare le urne.

Le elezioni americane di medio-termine del 4 novembre, dove si rinnova una buona parte della legislatura al Congresso sono una corsa in salita per i democratici. Svanito il sogno di riprendere il controllo della Camera, ora rischiano di perdere anche le redini del Senato.

I sondaggi mostrano un possibile calo nella partecipazione di blacks, di giovani e donne, quel segmento elettorale che nel 2012 portò alla seconda vittoria di Barack Obama. Il voto rosa addirittura vedrebbe un’ vantaggio delle preferenze per i repubblicani. Uno scenario da incubo. Ma per i sondaggisti sembra non esserci scampo: Capitol Hill tornerà sotto pieno controllo del Gop, il Grand Old Party repubblicano.

Un risultato devastante per la presidenza Obama, che si concluderà azzoppata ed impossibilitata a portare avanti qualsiasi riforma. Non a caso i repubblicani hanno impostato gran parte della campagne elettorale su questo tema: fermare Barack.

La partita del mid-term si gioca Stato per Stato. In palio ci sono ben 36 Senatori, (oltre che la rielezione di altrettanti governatori). «I temi centrali sono quelli del lavoro e dell’economia» spiega David Winston, uno stratega repubblican. Eppure nonostante i risultati soddisfacenti della ripresa economica guidata da Obama (disoccupazione al 5,8 per cento) il Gop è riuscito a convincere gli elettori dell’opposto.

Di fatto gli spin doctor conservatori hanno fatto di tutto per trasformare l’elezione in un referendum su Obama. «Credo che la grande impopolarità del presidente sia uno dei fattori principali di questa elezione», ha commentato, Tom Jensen, un sondaggista della Public policy polling, una compagnia specializzata in analisi statistiche. Anche i candidati democratici prendono le distanze dal proprio presidente, meglio puntare su tematiche concrete: sicurezza idrica in Colorado, immigrazione in Georgia, petrolio in Louisiana, occupazione negli stati del Midwest.

Il presidente fa buon viso a cattivo gioco: «Qui non si tratta dei miei sentimenti feriti [dalla presa di distanza]. Questi sono forti alleati e miei sostenitori. A loro ho detto: “Sapete che c’è? Fate quello di cui avete bisogno per vincere”. Io sarò responsabile affinché i nostri elettori vadano a votare».

Nell’ultimo tentativo disperato di cambiare corso a queste elezioni i dem provano a far ripartire la macchina dei volontari. In North Carolina, una delle elezioni al Senato più contese si sono mobilitati in migliaia per supportare la senatrice Kay Hagan contro il suo opponente repubblicano Thom Tilis. Anche in Alaska, Kentucky e Louisiana i comitati democrats locali stanno spremendo ogni risorsa per far registrare quanti elettori possibili potenzialmente interessati a dare il loro voto.

Ma i repubblicani oppongono alle risorse umane ingenti finanziamenti raccolti. Ad oggi hanno speso in campagna elettorale quasi due miliardi di dollari, contro i circa 850 milioni spesi dai democratici. Altri 100 milioni sono stati sborsati da organizzazioni non partitiche a supporto dei singoli candidati. Secondo il think tank Center for Responsive Politic questa sarà la più costosa e meno partecipata elezione di medio termine da sempre. Dietro la macchina elettorale repubblicana si celano i soliti potentati economici conservatori, come i magnati del petrolio Koch Brothers e il re di Las Vegas, Sheldon Adelson.

Tantissimi soldi, la cui provenienza non è sempre nota. In Kentucky si è scoperto ad esempio che la lobby carbonifera ha raccolto attraverso un’associazione no-profit che non ha il dovere di rivelare i suoi finanziatori, oltre 14 milioni a supporto Senate minority leader Mitch McConel. Un record. Lo scopo? Contrastare il rivale democratico, caratterizzato «come un ambientalista nemico del carbone» e «dannoso per il Kentucky, come Obama». Soldi spesi per difendere gli interessi corporativi. «Quello che stiamo osservando è una partecipazione finanziaria senza precedenti di gruppi non partitici» ha spiegato Erika Franklin Fowler direttore del progetto Wesleyan media project della University in Connecticut, finalizzato allo studio della pubblicità elettorale. «In questa elezione gruppi esterni ai partiti hanno comprato quasi il 40 per cento del totale della pubblicità elettorale. Un incremento del 32 per cento dalle elezioni presidenziali del 2012». Ed un segnale che sempre più sono gli interessi privati a guidare la politica americana.

Cosa potrebbe succedere dunque con la riconquista del Congresso da parte del Gop? Le due principali “vittime” potrebbero essere l’ambiente e gli immigrati, oltre che la riforma del lavoro e dell’energia. La maggioranza dei candidati repubblicani hanno promesso di cancellare tutti i regolamenti della Casa Bianca per controllare le emissioni di gas serra, di realizzare il controverso super-oleodotto Keystone XL (se ne è parlato su Left nr 20 del 31 maggio scorso); aumentare le esplorazioni petrolifere offshore e del petrolio non convenzionale, rimuovendo ogni limitazione all’uso del fraking, la tecnica di estrazione di gas e petrolio non convenzionale. «Una riconquista del Congresso da parte dei conservatori metterebbe a repentaglio le politiche nazionali sulla riduzione dei gas serra messe in campo da Obama, e di conseguenza la sua credibilità nelle trattative sul clima di Parigi nel 2015», spiega Veronica Caciagli, dell’Italian climate nework, il movimento italiano per il clima. «Senza una posizione forte del governo statunitense, il rischio è di un trattato internazionale sul clima non efficace a contrastare i cambiamenti climatici. Perciò anche dalle elezioni americane passa la nostra sicurezza climatica.

Stop anche alle attese riforme su immigrazione e lavoro. Difficilmente i Repubblicani approverebbero una riforma partorita dall’odiato nemico della Casa Bianca. Allo stesso tempo Obama porrà il veto per qualsiasi iniziativa legislativa volta a limitare la spesa pubblica in Sanità, educazione e tagli alla previdenza.

Per gli strateghi democratici infine i Repubblicani, con il Congresso saldamente nelle loro mani potrebbero ulteriormente deregolamentare la sorveglianza sulla provenienza dei fondi elettorali: aprendo definitivamente un buco nero per i milioni di dollari di corporation e miliardari conservatori per il ciclo elettorale del 2016. Pronti a tutto per togliere la Casa Bianca ad Hillary Clinton.

La vera identità del signor Aidyn

Se il cinema ha il pregio di essere definito arte è grazie ad opere come Il regno d’inverno di Nurij Bilge Ceylan (Palma d’oro a Cannes e ora in sala). Si tratta di un film impegnativo, non solo per la durata, 3 ore e 20, ma perché con la sua lenta ritmica temporale, magistralmente condotta, ci chiede di aderire a un’esperienza visiva che è anche “filosofica”.

La vicenda narra di un ex-attore shakespeariano, Aidyn, che affitta camere d’albergo conducendo un’esistenza agiata. A un suo segretario delega le questioni materiali. Pensa a una storia del teatro turco, e intanto dalle pagine di un giornale locale, pontifica di morale, religione, decoro. Contesta la bruttezza estetica della miseria e non vuole rendersi conto di quanto quella miseria sia provocata da persone come lui. Quando un sasso rompe il vetro della sua jeep, provocandone uno sbandamento, scopre che a lanciarlo è stato un ragazzino, la cui famiglia, a causa sua, ha subito il pignoramento dei beni. Quell’incidente a cui sembrava non voler dar seguito, innescherà una decostruzione della sua “integrità”, ammantata di gentilezza, buona fede e spirito caritatevole.

In questo processo di messa a nudo dell’ipocrisia umana, non solo emerge la tenace resistenza al cambiamento, il bieco conservatorismo nel tutelare il proprio ruolo sociale, ma anche la fragile identità di chi gli sta attorno e vede le ragioni del cuore naufragare di fronte alla brutalità dell’esperienza. L’ex attore incontra la maschera che da sempre indossa, quella del falso sé, e lentamente perde colpi. Trovandosi in una posizione di forza («il mio regno è piccolo, ma io sono il re») controlla e manipola la vita della moglie, così come controlla e decide la vita dei suoi affittuari, ma lo fa senza “sporcarsi le mani”. E il discorso si eleva dalle strutture della società turca ad una riflessione etica di più ampio respiro.

Il politico intride il dramma esistenziale: la carità non serve a nulla, se non per lenire il senso di colpa; il denaro regolamenta e uccide la sincerità dei rapporti umani; l’idealismo astratto pseudoromantico vela l’egotismo e la pretesa di gratitudine. La sfida di Ceylan, a differenza di quanto aveva fatto nelle sue straordinarie opere precedenti, ma in rigorosa continuità con esse, avviene lungo due direttrici: la prima riguarda il modo in cui il cinema e la parola possono restituire le segrete spire del pensiero tra silenzi e voci off che ritagliano l’inespresso; la seconda si svolge sul piano dello stile, perché l’artista rinuncia alla progressione narrativa, per rappresentare la durata interna.

Con paesaggi simbolici che alludono all’immobilità interna dei personaggi, anche qui appare l’altopiano anatolico sepolto dalla neve, sospeso in un inverno senza tempo e senza fine, immerso in una luce livida, in cui l’alba si confonde con il tramonto; tuttavia questi momenti, mai descrittivi, sono squarci di singolare bellezza, che restituiscono con maggiore potenza la claustrofobica perimetratura del teatro da camera, di ascendenza cechoviana, scelta dal regista per rappresentare conflittualità taciute, represse, che irrompono sulla scena con tagliente ferocia, trattenuto dolore, subdola moderazione. Tutti hanno le loro ragioni, eppure la verità è lontana.

A sorpresa rispunta Cattelan

Dopo la grande mostra antologica al Guggenheim di New York, nel 2011 Maurizio Cattelan aveva annunciato il suo ritiro. Ma ora, a sorpresa, ricompare a Torino, dove sta preparando un nuovo progetto espositivo per Artissima, in programma dal 7 al 9 novembre.

Con il provocatorio titolo Shit and die (citazione ironica di un’opera di Bruce Nauman) questa nuova mostra allestita in Palazzo Cavour promette un insolito viaggio nella storia torinese, costruito attraverso oggetti insoliti, desueti, dimenticati. «Buone cose di pessimo gusto» di gozzaniana memoria, reperti di archeologia industriale, pezzi di avanguardia e ombre lombrosiane. «Forse non le definirei ombre» precisa l’artista, senza rivelare troppo del progetto nel suo concreto. «Anche Lombroso era all’avanguardia su alcune cose. Oggi sappiamo che ha completamente sbagliato il tiro, ma era comunque un uomo di scienza. Per esempio- racconta Cattelan – il museo ha una collezione sterminata e meticolosissima di riproduzioni su carta dei tatuaggi dei detenuti, con tanto di legenda e racconto biografico di ogni prigioniero. Sono documenti davvero interessanti, solo su quello ci si potrebbe scrivere la sceneggiatura di un film».

Mentre Cattelan si diverte a frugare in polverosi archivi, mentre si occupa di storia locale e nel Museo Lombroso si dedica all’esame critico delle tassonomie di una psichiatria positivistica e al fondo razzista, dall’altra parte dell’Oceano, una grande mostra mercato vende le sue opere più famose per cifre che oscillano dai 30mila dollari e 20 milioni. «Si tratta di una mostra di mercato secondario di cui so poco io stesso. Non più di quello che c’è scritto sui giornali», confessa l’artista. «Quando il lavoro è venduto una prima volta se ne perde il controllo. Fa parte del patto con se stessi. È come dare un figlio in adozione, poi non puoi pretendere di decidere cosa farà da grande».

Certo, sembrano passati anni luce da quando Cattelan, lasciata Padova, si aggirava per New York senza un lavoro e senza sapere l’inglese. Riuscendo tuttavia a farsi strada nel mondo dell’arte. «New York è sicuramente cambiata, come il resto del mondo, ma ancora oggi – racconta – anche se stai chiuso in casa, puoi sentire l’energia della città. A soli due isolati di distanza puoi trovare 150 gallerie d’arte. 150 giovani teste che pensano, e basta una passeggiata per incontrarle. Sembra un cliché ma – sottolinea Cattelan – credo che New York possa essere un punto di svolta, come è stato per me anni fa».

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 1 novembre 2014

Mare nostrum, addio nel silenzio

E’ sorprendente il silenzio che accompagna la fine dell’operazione Mare nostrum e la sua “non sostituzione” con Triton, l’operazione organizzata da Frontex, l’agenzia europea per la difesa della frontiere.

Non risulta che se ne sia parlato alla Leopolda (benché più volte Matteo Renzi avesse promesso che Mare nostrum sarebbe andata avanti). E la questione non si è affacciata nemmeno a margine della manifestazione del 25 ottobre (eppure le tematiche umanitarie non sono estranee al sindacato). Pare quasi che si attenda, con cinica rassegnazione, il prossimo catastrofico naufragio. Gli elementi tecnici di cui si dispone lo fanno temere fortemente. Mare nostrum è costata nove milioni al mese, e ha consentito il salvataggio di centomila vite umane perché le navi della nostra Marina militare hanno potuto muoversi a tutto campo nel Mediterraneo.

Triton costerà un terzo (le forze a disposizione saranno ridotte in proporzione) e non potrà spingersi oltre le trenta miglia dalla costa. È vero che davanti alla notizia di un naufragio imminente qualunque natante che si trovi in prossimità dell’imbarcazione che rischia di affondare ha l’obbligo di intervenire. Il problema è, appunto, la prossimità. Una settimana prima dell’avvio di Mare nostrum (e una settimana dopo la tragedia di Lampedusa) avvenne un altro catastrofico naufragio (quasi trecento morti, tra i quali sessanta bambini) e le nostre navi arrivarono solo a tragedia avvenuta, dopo un incredibile rimpallo di responsabilità con Malta.

Questo silenzio sconcerta anche perché – come di recente ha ricordato Milena Santerini sul Corriere della sera – i sondaggi così cari alla nostra classe politica dicono che il 60 per cento degli italiani approvava l’operazione Mare nostrum. E, di conseguenza, chiariscono che a opporsi è stata una minoranza rumorosa e violenta che ha fatto della fine di Mare nostrum un argomento propagandistico. Ed è riuscita a spaventare e a far indietreggiare quanti, molto timidamente, sostenevano che doveva andare avanti. Da questo punto di vista, la decisione di chiuderla è una vittoria della quale potranno fregiarsi la peggiore destra e, soprattutto, Matteo Salvini.

C’è da augurarsi che alla prossima tragedia, l’intera classe politica abbia il pudore di tacere. Sarebbe davvero triste dover sentire nuovamente i vari “Mai più” che si levarono in Italia e in Europa dopo la tragedia di Lampedusa. Lacrime che evidentemente servivano solo ad assecondare in modo ipocrita l’indignazione dell’opinione pubblica italiana ed europea.

“La buona scuola” non scalda i prof

Siamo a più di due mesi dalla presentazione de La buona scuola. In questo periodo si sono susseguite iniziative e dibattiti un po’ in tutto il Paese, eppure la sensazione è che la scuola sia rimasta a guardare. Lo dico riflettendo sui questionari ritornati che ad oggi si aggirano sui 60.000: se anche fossero tutti di insegnanti (e non lo sono) sarebbero comunque pochi rispetto al totale che supera ampiamente i 700.000. Appena l’anno scorso gli studenti della Rete della Conoscenza ne hanno raccolti e analizzati quasi 100.000. E questo con le sole loro forze, mentre quelle messe in campo dal governo per spingere alla partecipazione i cittadini sono state notevoli, mobilitando televisioni, radio e praticamente tutte le amministrazioni scolastiche periferiche.

Ciononostante, la stragrande maggioranza delle iniziative organizzate sul documento del governo non sono promosse dalle scuole ma da enti e associazioni, cioè dai soggetti di quella “società di mezzo”, come l’ha definita De Rita, che si ritiene in diversa misura responsabile dell’immobilità del Paese. Come si spiega questa freddezza degli insegnanti rispetto ad un documento che bene o male per la prima volta dopo anni si offre alla lettura e alla critica, con un piano di interventi molto articolato che individua con precisione alcuni problemi storici della scuola e ha l’ambizione di risolverli una volta per tutte? Il governo vuole aggredire il problema del precariato e gli insegnanti sono consapevoli che la sua soluzione sarebbe un passaggio epocale per la scuola. Le proposte del governo sulla formazione iniziale e l’immissione in ruolo per concorso non saranno perfette, ma si rifanno alla Carta costituzionale e si propongono di evitare il rapido riformarsi di quelle situazioni particolari che sono state la base su cui si è formata la giungla del precariato. Pure questo è ampiamente condiviso, come lo è il rilancio della formazione in servizio col riconoscimento che l’entrata a scuola per un insegnante non è la fine della sua formazione, ma l’inizio di uno sviluppo professionale che proprio sulla scuola deve poter contare.

Allora da dove viene questo disinteresse che emerge in modo ancora più paradossale in quanto si accompagna in questo periodo alla richiesta pressante delle scuole stesse di una formazione sulle Nuove indicazioni della scuola dell’infanzia e del primo ciclo? Io credo che la spiegazione sia nell’errore che si commette quando si pensa di poter intervenire nella scuola utilizzando le prassi e teorie che la politica ha consolidato altrove. C’è troppa attenzione nel documento a disseminare segnali di cambiamento profondo senza curare che essi disegnino un quadro di riferimento coerente. È evidente che il documento del governo vuol parlare all’intero Paese, che oggi apprezza il cambiamento purché sia, ma gli insegnanti vogliono sapere verso cosa. Chiedono che si parta dalla fine, dall’idea di scuola che si vuole realizzare, e quella del documento resta ambigua. C’è troppa attenzione alla finanziabilità delle proposte, alle richieste di un mercato globale che spinge ad investire sulle specificità italiane. Ma quando si ribatte alla famosa affermazione che «con la cultura non si mangia» sostenendo che invece ci si può mangiare, si resta comunque sullo stesso piano.

Un piano che non scalda il cuore. Alla scuola bisogna dire che «con la cultura si cresce» perché di questo sono convinti gli insegnanti migliori. Si rilancia l’organico funzionale ma poi si parla nello specifico di sole supplenze e copertura di “buchi”: se non c’è l’idea di una scuola che progetta e sperimenta non si capisce a cosa sarà funzionale quell’organico. Si propone un modello in cui il valore del docente diventa una prerogativa esclusivamente individuale, come se nella scuola vigesse un’organizzazione tayloristica del lavoro, invece gli insegnanti sanno che per essere valutati deve essere valutata contemporaneamente anche la scuola. Agli insegnanti si deve dire che la loro valutazione è fondamentale perché significa valutazione dell’insegnamento efficace, perché al centro della scuola devono rimanere gli studenti e il loro apprendimento.

La buona scuola è un documento con molti slogan condivisibili ma la scuola buona non ama i documenti fatti di slogan. Ma la delusione nasce soprattutto dal fatto che il governo chiede alla scuola fiducia nella politica, ma la scuola aspettava una politica che avesse fiducia in lei, nella tanta buona scuola che c’è già e da cui si dovrebbe partire. Per anni abbiamo subito un’emorragia di risorse lenta e inarrestabile grazie alla strategia della “disattenzione attiva”. Oggi si rischia di cadere in un “attivismo disattento” alla buona scuola che c’è già, che chiede solo di diventare il punto di partenza per il rinnovamento dell’intero sistema. Abbiamo perso la memoria, ma le migliori riforme in Italia sono sempre nate ascoltando le scuole dove si sperimentavano le migliori pratiche. Nella tradizione della montagna, quando si deve tracciare un sentiero non si vanno a cercare ingegneri, ma si guarda da dove sono passati coloro che hanno raggiunto la cima. Noi non dobbiamo fare altro che seguire le tracce della buona scuola.

Nessun colpevole per Cucchi

I giudici assolvono tutti gli imputati del caso Cucchi: nessuno è colpevole per la sua morte. Non i medici, non i poliziotti. «Il fatto non sussiste», dice la sentenza di secondo grado cancellando anni di indagini su lividi e contusioni. La famiglia annuncia ricorso in Cassazione: «Ce l’hanno ucciso tre volte». Ecco la ricostruzione di left a ridosso dei fatti.

Lui dentro, agonizzante in una branda del carcere. Loro fuori, a bussare invano ai portoni. Genitori e figlio, in una sorta di calvario parallelo. Nessuno avverte i coniugi Cucchi che Stefano, arrestato il 15 ottobre 2009 per un po’ di hashish e due grammi di cocaina, sta morendo solo, livido e tumefatto, nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini di Roma, senza poter raccontare come sia stato ridotto così. Per giorni, Giovanni e Rita Cucchi vengono rimbalzati da un ufficio all’altro, trovando solo porte chiuse, guardie inamovibili, lungaggini burocratiche.

All’improvviso, a mezzogiorno del 22 ottobre, suonano alla porta. La madre, ignara, è sola in casa con la nipotina di un anno. Apre. Sono i carabinieri. Ma non portano l’atteso permesso. Le notificano il decreto del pm che autorizza l’autopsia. Perché quel figlio che da cinque giorni cerca disperatamente di vedere è morto da sei ore. «Un fulmine a ciel sereno»,  dato che l’unica volta che erano riusciti a estorcere un’informazione al piantone, la risposta era stata che il ragazzo era «tranquillo». E invece la famiglia si trova a correre all’obitorio, dove Ilaria, la sorella, sente l’urlo che ancora le rimbomba in testa: l’«urlo straziante» dei suoi genitori quando vedono Stefano sfigurato, il volto pesto, irriconoscibile in quella smorfia di dolore. «Allo Stato gliel’ho dato sano, me l’hanno restituito così. Mi devono spiegare perché», ripete dolente la madre. Cammina su e giù, la signora Rita, nella casa dove ancora poche settimane c’era Stefano, 31 anni, 43 chili. Rievoca il peregrinare convulso dei giorni dopo l’arresto, quando col marito giungevano a pochi metri dal loro ragazzo per essere sempre bloccati. Ogni volta «con il borsone del cambio», racconta, come se ce l’avesse ancora addosso.

A tenere le redini di una famiglia distrutta è Ilaria, la figlia maggiore. Minuta e scavata come Stefano, occhi grandi, forte e composta, come il suo dolore. Il suo telefono squilla di continuo: giornalisti, avvocati, politici, amici. Madre pure lei, quando arriva a casa dei genitori consegna la piccola Giulia alla nonna, ex maestra d’asilo, e si siede nell’ordinato salotto dominato da massicci scaffali a vetrina. Dall’altra parte del corridoio la stanza del fratello: un divano letto, mobilio scuro, la coppa Agesci e i colori della Lazio. Per tutta la casa i suoi libri di storia. Era qui, al sesto piano di un palazzone di Torpignattara, periferia romana tra la Casilina e la ferrovia, che ogni mattina Stefano iniziava le sue giornate: appena alzato andava a correre, poi al lavoro nello studio da geometra del padre, talvolta aiutava anche la sorella, amministratrice di condominio. Il pomeriggio andava in palestra, la sera fuori con gli amici. Ex scout, la domenica andava a messa. Da pochi mesi stava sistemando un appartamento tutto suo e sperava di mettersi in proprio anche sul lavoro. «Sto ritrovando me stesso», aveva scritto alla sorella qualche giorno prima dell’arresto. «Un ragazzo normale come tanti. Molto buono ma anche molto fragile», racconta Ilaria. «Purtroppo è incappato nel problema della droga, che ha voluto affrontare andando di sua iniziativa in comunità, al Ceis di don Picchi». Entra nel 2004 per problemi con la cocaina, esce a fine 2007. «Non era un eroe ma una vittima. Purtroppo il mondo della droga è maledetto, sono facili le ricadute. E lui non ne era uscito del tutto».

I genitori lo scoprono drammaticamente all’una e mezza di notte del 16 ottobre, quando i carabinieri si presentano a casa per perquisire la stanza di Stefano, arrestato al parco degli Acquedotti assieme a «uno dei suoi migliori amici». È lui che lo incastra, perché racconta che la droga l’ha sempre avuta da Stefano. E ci si mettono di mezzo anche le pasticche per l’epilessia che le forze dell’ordine scambiano per droga. Stefano cerca di tranquillizzare i genitori buttati giù dal letto. Anche i carabinieri  sono rassicuranti: vanno via dicendo ai Cucchi che per così poco il giorno dopo il ragazzo sarebbe stato ai domiciliari. «Non mi stancherò mai di sottolineare che Stefano è uscito da qui sulle proprie gambe e senza alcun tipo di segno, né sul viso né sul corpo», ribadisce Ilaria. Invece già il mattino dopo, Cucchi si presenta al processo per direttissima con il viso gonfio e gli occhi lividi. Il giudice stabilisce che il ragazzo deve stare in carcere sino al 13 novembre, data della nuova udienza. «Da lì inizia la via crucis», continua Ilaria: quella di Stefano e quella dei genitori, che non lo vedranno più vivo.

Il ragazzo passa dal Regina Coeli al pronto soccorso del Fatebenefratelli, poi di nuovo al carcere, finché non viene trasferito al Pertini. Sempre in preda a dolori insostenibili, con due vertebre rotte e il viso livido. Sempre solo. Perché malgrado chieda ripetutamente di incontrare il suo avvocato di fiducia e l’educatrice del Ceis, non riuscirà a contattare nessuno, malgrado la sua protesta di rifiutare cibo e acqua. Mentre si discute sull’autenticità di un modulo con il quale Stefano avrebbe chiesto di non avvertire la famiglia, Ilaria ricorda che il fratello la fece chiamare da una volontaria perché allertasse il cognato. «Lo interpreto come un suo desiderio di avere contatti con l’esterno. La volontaria mi disse che il corpo era coperto dal lenzuolo ma il viso era ridotto male. Non era né sieropositivo, né anoressico come è stato detto».

Qualcuno ha anche sostenuto che si fosse conciato così cadendo dalle scale. Ma nessuno pare crederci. Infatti il filone principale, accanto all’inchiesta sui medici per omicidio colposo, è quello per omicidio preterintenzionale. Ai segni sul corpo, alle contraddizioni e omissioni, si aggiunge la testimonianza di un detenuto che avrebbe assistito a un pestaggio nella cella di sicurezza del tribunale. Ma la strada per avere giustizia rischia di essere ancora lunga. Gli avvocati della famiglia, legali anche degli Aldrovandi, li hanno avvertiti che non mancheranno le accuse contro Stefano. Non si sono fatte attendere. A cominciare dal sottosegretario Carlo Giovanardi (Udc) che ha sostenuto che a ridurre così il ragazzo è stata la droga. Ilaria risponde ferma: «Mio fratello aveva dei problemi ma non credo che a casa sua sarebbe morto il 22 ottobre».

Larghe intese calabre

Le larghe intese che tengono in piedi le sorti del governo del Paese non sono mai state testate alle urne. Per questo la Calabria doveva essere il primo laboratorio importante in cui saggiare il gradimento degli elettori nei confronti del matrimonio tra Pd e Nuovo centrodestra. Lo voleva il partito di Alfano e lo voleva, a modo suo, anche il Nazareno.

Per costruire il Partito della nazione bisogna partire da quello della regione. A novembre, infatti, si vota per le Regionali e i seguaci di Angelino hanno addirittura paventato una crisi di governo in caso di mancato apparentamento col Pd. Sì, perché il Nuovo centrodestra calabrese è in grado di minacciare persino la tenuta dell’esecutivo, grazie a un pugno di senatori pronti a muoversi a un cenno di Antonio Gentile, coordinatore regionale del partito salito agli onori delle cronache nazionali nel marzo scorso, quando una campagna stampa promossa dai più autorevoli quotidiani italiani lo costrinse a dimettersi dalla carica di sottosegretario alle Infrastrutture e ai Trasporti. Motivo dell’indignazione: l’accusa di aver bloccato l’uscita in edicola di un quotidiano locale, L’Ora della Calabria, per evitare che venisse data la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati di suo figlio.

Ora Gentile torna a far parlare di sé avanzando però una richiesta legittima: formalizzare le nozze tra Alfano e Renzi anche in Calabria. Un’aspirazione assecondata senza dare nell’occhio anche dal Pd che per la regione più a Sud della Penisola non aveva escluso l’ipotesi di un accordo con l’Ncd. Anzi, l’idea di esportare le larghe intese è testimoniata da un sondaggio commissionato dal Nazareno a settembre, quando ancora non si conosceva il nome del vincitore delle primarie del centrosinistra calabrese. Tra le domande che l’istituto Swg proponeva al campione di elettori, figurava questa: «Se il Nuovo Centrodestra decidesse di appoggiare Gianluca Callipo (candidato renziano alle primarie, ndr) entrando in coalizione con il Pd, a quale dei seguenti candidati presidenti darebbe il suo voto?».

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 1 novembre 2014

La notizia si è fermata a ebola

Non sappiamo come la piccola Chanel si sia spiegata i sette giorni passati a casa invece che all’asilo. I fatti però sono inequivocabili: i genitori dei suoi compagni non hanno voluto che rientrasse in classe dopo aver saputo che era reduce da un viaggio in Uganda. Eppure Chanel non aveva una sola linea di febbre e l’Uganda non è tra i Paesi a rischio Ebola.

Ma le mamme sono state irremovibili: «O lei o i nostri figli». Così Chanel, tre anni, è rimasta a casa per una settimana. Solo l’intervento della direttrice della materna di Fiumicino (Roma) ha evitato che l’isolamento si protraesse per 21 giorni, come invece chiedevano, in preda al panico, i genitori degli altri bambini. Pochi giorni dopo, il 22 ottobre, anche Fataomata, 26 anni, originaria della Guinea, in Italia da 4, è stata colpita dal virus del pregiudizio. Era sull’autobus nei pressi del capolinea di Grotte Celoni, periferia est di Roma, quando una ragazzina l’ha apostrofata: «Fatti più in là, m’attacchi l’Ebola!». L’atmosfera si è subito surriscaldata e alcuni passeggeri le sono saltati addosso, riempiendola di botte.

«Queste ragazzine sono le nostre prime vittime di Ebola», commenta il genetista Guido Barbujani, che rievoca «gli untorelli» di manzoniana memoria. Non ha dubbi l’autore di Sono razzista ma sto cercando di smettere (Laterza): «Elementi di razzismo, o comunque di pregiudizio, in queste situazioni ci sono sempre. Ebola è stato sottovalutato quando si è pensato che fosse un’epidemia solo africana. Quando invece ci siamo resi conto che può arrivare sino a noi, ci siamo allarmati. Bisognerebbe evitare di oscillare tra atteggiamenti che minimizzano cose che non possono essere minimizzate e drammatizzano fatti che andrebbero visti con un po’ di freddezza».

Fatto sta che oggi in Italia l’emergenza è «mediatica» prima ancora che sanitaria, come denuncia Giuliano Rizzardini, direttore del Dipartimento malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano, preoccupato che il virus si trasformi in una «caccia all’uomo nero, non solo in senso metaforico». Intanto l’Ordine degli Psicologi del Lazio si dice pronto a fornire a governo, Regione e Comune «le competenze necessarie per gestire gli aspetti di “panico collettivo” che questa emergenza sta facendo registrare».

Per ognuna delle storie finite sui giornali, ce ne sono tante altre rimaste nascoste dietro le mura domestiche. Come il caso di Kebrat, un’etiope di 23 anni, timida e minuta. Da 5 anni lavora a tempo pieno come baby sitter per una famiglia del centro storico di Roma. Poi è arrivato l’allarme epidemia e l’anziana governante italiana l’ha presa da parte: «Non venire più a casa. Ci porti Ebola». In Etiopia, dove peraltro non torna da anni, il virus non c’è. Ma Kebrat si è spaventata lo stesso ed è rimasta chiusa in casa, confusa e terrorizzata, per tutto il weekend. Col timore di poter davvero contagiare qualcuno.

«Nell’ultimo mese le segnalazioni di episodi di fobia sono aumentate del 30 per cento, soprattutto al Nord», denuncia Foad Aodi, ortopedico italiano di origine palestinese, presidente dell’Associazione medici stranieri in Italia (Amsi). «Con questo allarmismo, ci vanno di mezzo soprattutto i bambini africani. Basta che uno sia di colore perché scatti subito l’identificazione con l’Ebola». Come se non bastasse, questa psicosi sanitaria si aggiunge a quella “politica” per l’Isis: «In entrambi i casi a pagare un prezzo molto alto sono i nostri ragazzi nelle scuole, che invece dovrebbero essere – e sono – il ponte dell’integrazione del futuro. Stiamo formando una seconda generazione piena di paure: siamo molto preoccupati». Adi racconta di una madre italiana che è andata a riprendersi il figlio quando ha visto che giocava con dei ragazzini africani nel giardino della scuola. «Ci chiamano tutti i giorni per denunciare storie così», aggiunge il medico palestinese. «Tante famiglie chiedono che si tranquillizzi la popolazione». Già il 24 ottobre, Aodi aveva preso carta e penna per esprimere il suo sdegno per «l’atmosfera che si sta creando nei confronti degli immigrati, strumentalizzata da certi partiti che cercano visibilità e consensi sulla pelle degli immigrati come stanno facendo da mesi Grillo e Salvini».

Il segretario della Lega aveva appena tenuto una conferenza stampa con Marine Le Pen a Strasburgo per chiedere la «sospensione immediata» di Schengen e la chiusura delle frontiere interne «per fermare l’epidemia di Ebola». Tra le richieste dei due esponenti anche un fantomatico «stop all’importazione di beni potenzialmente a rischio di contaminazione come le banane». Già in agosto Matteo Salvini si era scagliato contro i salvataggi nel Mediterraneo: «Malato di Ebola arriva in Spagna, è il primo caso in Europa. Ma Renzi e Alfano continuano col suicidio di Mare mostrum», lamentava su facebook il leader lùmbard a dispetto del fatto che il malato in questione era un prete rimpatriato e che tutti gli esperti abbiano ampiamente chiarito che i tempi di incubazione non sono compatibili con il lungo viaggio di chi arriva in Italia per mare. Non da meno Beppe Grillo, che sul suo blog ha recentemente ammonito: «Chi entra in Italia con i barconi deve essere identificato immediatamente, i profughi vanno accolti, gli altri, i cosiddetti clandestini, rispediti da dove venivano. Chi entra in Italia ora deve essere sottoposto a una visita medica obbligatoria all’ingresso per tutelare la sua salute e quella degli italiani».

Gli effetti di tale disinformazione non si sono fatti attendere. Il 25 ottobre, tra Calcinato e Montichiari, in provincia di Brescia, sono comparse frasi violentemente razziste: «I neri portano l’Ebola, bruciamoli», si leggeva sulla provinciale 28 prima che intervenissero Digos e carabinieri per cancellare la scritta e indagare sull’accaduto. Tre giorni prima, a centinaia di chilometri di distanza, a Polla, in provincia di Salerno, il sindaco aveva addirittura emanato un’ordinanza per chiedere l’allontanamento di 20 profughi eritrei appena arrivati: «Oltre a problemi di ordine pubblico, potrebbero determinare anche situazioni di rischio sanitario a carico della popolazione con aumento di malattie infettive tra cui tubercolosi, scabbia ed Ebola», aveva argomentato il primo cittadino. Ad allarmare i cittadini era stato il ricovero per febbre e vomito di uno dei profughi. Travolto dalle polemiche, il sindaco già in serata aveva revocato l’ordinanza.

Ormai basta che una persona di colore dia segni di malessere che si scatena il panico. Com’è successo il 13 ottobre al Tribunale di Milano, quando un ghanese senza fissa dimora, imputato per furto di rame, ha iniziato a sputare sangue: il processo è stato immediatamente interrotto, l’aula è stata chiusa con tanto di cartello «inagibile» anche se l’imputato era isolato nella gabbia riservata ai detenuti. In serata gli accertamenti avevano già escluso il contagio da Ebola. Paura di nuovo a Roma, quando un giovane somalo, in Italia da due anni, ha accusato un malore mentre era in fila alla Questura di Roma per il permesso di soggiorno. Scene di panico anche all’ospedale Bassini di Cinisello: l’11 ottobre gli infermieri hanno fatto indossare le mascherine a una coppia di nigeriani in attesa al pronto soccorso. Gli altri pazienti si sono talmente spaventati che il medico ha dovuto spostare i due africani in una saletta isolata.

Tutto questo malgrado sia stato ampiamente chiarito che il contagio non avviene per via aerea e che lo scoppio dell’epidemia in Europa è altamente improbabile. Soprattutto in Italia non è stato ancora riscontrato un solo caso conclamato di Ebola. Solo tanta paura. Come ha ironizzato Michele Serra su l’Espresso, siamo di fronte a «un’epidemia che si diffonde non solo per via orale, ma anche per iscritto».