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A Terni l’accademia dell’acciaio

Se d’un colpo l’acciaieria di Terni sparisse bisognerebbe andare fino in Corea per trovare i lingotti d’acciaio – da 500 tonnellate – che gli operai ternani sono in grado di produrre. Nessun altro riesce a creare quei blocchi, capaci di muovere grosse navi, indispensabili nelle centrali elettriche e nucleari.

Quantità e qualità. L’acciaio di Terni è acciaio speciale, inossidabile e resistente, buono tanto a costruire binari delle ferrovie quanto a realizzare opere d’arte come l’obelisco di Arnaldo Pomodoro, la Lancia di luce. Sono leghe realizzate con una speciale composizione chimica e un appropriato trattamento termico, necessitano di macchine all’avanguardia ma anche di manodopera esperta: sono gli uomini a dettare i tempi giusti alle macchine.

A Terni lo fanno da 130 anni. La classe operaia dell’Ast ha fuso ingegno e studio, innovazione tecnologica e mestiere tramandato. Oggi la quinta generazione dell’acciaieria sa bene di essere un’eccellenza: patrimonio unico in Europa e sito strategico per l’industria italiana. Ed è per difendere questa posizione che l’intera fabbrica è entrata in sciopero il 23 ottobre scorso: «Dietro l’ultimo piano di ridimensionamento si nasconde l’ennesimo passo verso la chiusura», denunciano gli operai che presidiano i cancelli.

A inizio ottobre, i tedeschi della Thyssen Krupp – la multinazionale proprietaria al 100 per cento dello stabilimento – hanno spedito 537 lettere di esubero e annunciato tagli per cento milioni l’anno – salari compresi – e la chiusura di uno due forni fra il 2015 e il 2016. Il piano di ridimensionamento è stato attenuato dall’intervento del governo italiano che ha aperto un tavolo di trattativa con i tedeschi: riduzione degli esuberi – da 537 a 290 – e mantenimento di entrambi i forni in funzione (uno a piena capacità e l’altro a turnazione di 5 giorni su 7), ha annunciato il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi.

Ma ai sindacati questa soluzione non basta: «Il problema non sono i singoli esuberi ma l’assenza di una politica industriale», spiega Cipriano Crescioni della Cgil. «La Thyssen Krupp vuole “svuotare” questa azienda per potenziare i suoi stabilimenti in Germania. È il segnale di un protezionismo cieco, di un egoismo tedesco avallato dalla Commissione europea». Non a caso la protesta si è allargata fino a Bruxelles, dove i lavoratori Ast sono andati a manifestare martedì scorso. È lì che si gioca la partita, in palio c’è il primato nella siderurgia.

Al premier Renzi è affidato il compito di convincere l’Europa – e Angela Merkel – che Terni è una pedina strategica per il rilancio dell’intera industria nazionale. Mentre – per convincere Renzi – la Fiom di Maurizio Landini ha indetto un nuovo sciopero: il 14 novembre al Centro Nord e il 21 al Sud i metalmeccanici torneranno in piazza.

SUICIDIO ASSISTITO

«Un attacco di thyssenteria», gli operai chiamano così la strategia di “svuotamento” della Thyssen Krupp. L’ironia smorza i toni ma i volti di chi presidia sono stanchi e preoccupati. Nelle ultime due settimane hanno scioperato, presidiato giorno e notte la fabbrica, protestato a Roma il 29 ottobre sotto le cariche della polizia. Il fantasma della dismissione, però, lo combattono già da dieci anni: dal 2004, quando 30mila ternani marciarono contro la chiusura del settore “Magnetico”. «Quella operazione fu un “suicidio industriale”», commenta Luciano Neri di Federmanager, il sindacato dei dirigenti d’industria. «Terni era l’unico produttore del magnetico, che un anno dopo passò da 700 euro a tonnellata a 3mila euro a tonnellata, immaginate quante centinaia di milioni di euro sono stati persi da questa azienda?». Un segnale preciso, secondo Neri: «Già allora capimmo che il vero problema era l’inossidabile. Con la chiusura del Magnetico l’acciaieria diventava monoprodotto: una condanna a morte sicura».

La decisione di Thyssen Krupp di uscire dal mercato dell’inox si manifesta nel 2012: i tedeschi cedono le produzioni di inox alla loro partecipata finlandese, Outokumpu. L’Antitrust europeo, però, rileva un eccesso di concentrazione nelle mani dell’azienda finlandese e la obbliga a vendere quanto appena acquisito. Alla fine del 2013 Thyssen riacquisisce lo stabilimento Ast, nonostante il suo disinteresse nel settore dell’acciaio inossidabile. «Come è possibile che nessuno se ne sia accorto prima?», si chiede Neri. «Questi “giochetti” della Commissione europea, alla fine, si sono rivelati manna dal cielo per la salvaguardia del mercato tedesco e del Nord Europa». Come se non bastasse, l’azienda che Thyssen Krupp riprende in mano nel 2014 registra una perdita di 10 milioni di euro al mese negli ultimi due anni.

TERNI CONTRO DUISBURG

Davanti alla crisi la Thyssen Krupp adotta due pesi e due misure. A Terni i tedeschi puntano su esuberi e incentivi all’esodo: buonuscita di 61mila euro netti a chi se ne va. Un incoraggiamento che ha già convinto 130 operai e che – come ha precisato l’ad italiana di Thyssen, Lucia Morselli – potrebbe aumentare fino a, quasi, 90mila euro. Mentre a Duisburg, pur di evitare licenziamenti tra i suoi 4.500 addetti, la multinazionale ha firmato un accordo di solidarietà con sindacati e governo tedesco: riduzione dell’orario di lavoro a 31 ore settimanali (pagate 32).

La proposta italiana di solidarietà chiedeva un trattamento assai simile: la riduzione delle ore settimanali in fabbrica da 37 e mezzo a 32 (per 35 ore retribuite). Un’opzione fattibile con la detassazione del costo del lavoro, assicurano i sindacati. Ma la multinazionale non ha voluto sentire ragioni e ha risposto picche. «È evidente che la Germania ha deciso di riportare la produzione siderurgica nel suo Paese, scaricando la disoccupazione in Italia», considera Emanuele Pica, 37 anni, operaio Ast con una laurea in Economia.

Il costo del personale non giustifica il ridimensionamento perché incide nell’ordine del 5 per cento sul fatturato complessivo. E infatti i tagli riguardano anche la produzione che, secondo i sindacati, verrà ridotta da 1,4 milioni di tonnellate a 700-800mila tonnellate in tre anni. Ridurre produzione e occupazione equivale a dismettere? «Sì. Mettiamo il caso che domani riparta l’economia», prosegue Pica, «con gli esuberi e una produzione al ribasso ci viene tolta ogni possibilità di stare sul mercato. Alla base del ridimensionamento c’è sicuramente una questione economica, è evidente che c’è una sovrapproduzione siderurgica in Europa. Ma chiudere il sito di Terni è una scelta politica e strategica dell’asse nordeuropeo», sbotta Emanuele Pica. «È una scelta politica dell’Europa germanizzata. Le scelte della Ue sono condizionate dalla Germania».

VENDERE E PARTECIPARE

Provare a convincere Thyssen è inutile: «È evidente che ha scelto di uscire dalla produzione dell’acciaio. Perciò il governo dovrebbe svestire i panni di arbitro e indossare quelli del giocatore. È ora di entrare in partita», dice Pica. Come? Tra gli operai non è difficile sentire la parola “nazionalizzazione”. In tanti invocano un ritorno all’Iri come salvezza. Ma «nazionalizzare oggi non è realistico», risponde Pica. «Non c’è la possibilità che lo Stato riprenda l’azienda e ritorni a produrre acciaio». Rimettere in piedi l’Iri non è certo un’ipotesi fattibile nel breve tempo.

«Quello che chiediamo al governo è di dichiarare strategica la produzione di inox e, a quel punto, partecipare con la Cassa depositi e prestiti e il Fondo strategico italiano in una Golden share. Il governo deve imporre una scelta ai tedeschi: la vendita». L’Ast sulla carta vale 550 milioni di euro. Nell’ultimo bilancio, però, si registra una svalutazione di 180 milioni e poi ci sono anche i 10 milioni al mese di debiti accumulati negli ultimi due anni.

Letta così, la proposta avanzata da Aperam (la controllata del colosso franco-indiano Arcelor-Mittal) non suona tanto lontana dalla realtà. Il gruppo Arcelor-Mittal – primo Gruppo siderurgico mondiale – all’inizio del 2014 ha messo sul piatto 100 milioni di euro e la chiusura di un’acciaieria belga per salvare l’acciaieria di Terni. Quella proposta non è mai stata ritirata e nella cordata sono presenti, in quota minore, anche le società italiane del gruppo Arvedi e Marcegaglia. «In alternativa – aggiunge Luciano Neri di Federmanager – ci sono anche i coreani della Posco. Non molto lontano da qui, in Turchia, hanno un impianto da 1 milione di tonnellate. Per alimentare le macchine importano il materiale fuso da trasformare dalla Corea. Sarebbe più vicino prenderlo qui, no?».

«Le alternative alla chiusura forzata della Thyssen ci sono», assicura il dirigente d’industria ternano. «E Renzi è a conoscenza delle nostre proposte, perciò siamo nelle sue mani». A Terni lo sciopero è stato prolungato a oltranza. Un’impiegata del reparto acquisti, in presidio, riassume così la vicenda: «Vogliono un Paese di cuochi e camerieri che non faccia concorrenza alla Germania».

La scomparsa dei padroni

E se Renzi e Poletti avessero ragione, e non ci fossero, o fossero in vista di sparizione, quelli che il sindacato e la sinistra chiamavano “padroni”? Che certamente sfruttavano e subordinavano ogni cosa al massimo profitto, ma che traevano una qualche legittimità, anche per la loro controparte, per il fatto che rischiavano capitali propri, organizzavano i fattori della produzione, investivano in tecnologie. Quelli insomma convinti che per fare profitto fosse necessario produrre cose e far lavorare persone?

Se pensiamo alle vicende della siderurgia qualche dubbio viene. La siderurgia italiana sta sparendo perché sono scomparsi i padroni. O meglio si stanno affermando padroni di tipo nuovo, che hanno nella finanza il proprio core business, nel mondo globalizzato il loro orizzonte di riferimento, indifferenti a quello che la loro produzione significa per il Paese che ospita le loro fabbriche, e alle ricadute sociali ed ambientali che la loro produzione ha per il territorio.

Alla Lucchini, all’Ilva, all’Ast di Terni. E che in nessuna di queste situazioni hanno saputo proporre progetti industriali di risanamento e di rilancio degni di questo nome. L’Italia rischia di restare senza acciaio. Quello che serve a fare i binari, quello che fornisce i semilavorati di base al resto dell’industria manifatturiera, e gli acciai speciali di Terni, uno degli esempi più alti di innovazione tecnologica e di sapere operaio messi in atto per tenere insieme produttività e sostenibilità sociale ed ambientale del processo produttivo.

Gli unici piani industriali li hanno prodotti gli operai e i loro sindacati, col concorso attivo delle comunità locali. Credo sia saggio, per individuare una via d’uscita, prendere atto del fallimento del mercato nella capacità di conciliare profittabilita, sostenibilità, e interessi generali del Paese. E che occorra pensare, non come un ritorno all’antico, ma con uno sguardo rivolto al futuro, alla nazionalizzazione dell’industria siderurgica.

Come propone Landini, ma anche, obtorto collo, un confindustriale vecchio stampo come Bombassei. Per quest’ultimo si tratterebbe di una misura provvisoria, in attesa che spuntino nuovi padroni. Credo che non ne spunteranno. E che la soluzione possa venire solo da una sinergia fra l’intervento pubblico statale e l’intelligenza e il sapere presenti in quelle imprese e nella comunità locali. La vecchia siderurgia potrebbe essere il punto di avvio di una nuova fase, in cui la statalizzazione della produzione si coniuga con la partecipazione attiva dei lavoratori e delle comunità locali alle scelte strategiche d’impresa.

Il cacciatore di virus

David Quammen non è un reporter di guerra ma è come se lo fosse. Le battaglie di cui si occupa da oltre vent’anni nei suoi magnifici libri e articoli per National Geographic sono quelle che ogni giorno l’umanità combatte contro i nemici più perfidi e invisibili: i virus.

L’ambiente in cui si muove alla ricerca di notizie non è dunque il confine tra Siria e Turchia o la striscia di Gaza. I suoi ampi reportage, genere oramai scomparso dai media italiani, nascono dove vivono i vettori animali delle grandi epidemie. Dalle grotte della Malesia popolate da migliaia di pipistrelli, alla foresta pluviale del Congo in cui si riproducono gli scimpanzé e i rarissimi gorilla. Quando scoppia un’epidemia di Sars o Ebola, Quammen si trova lì, nell’epicentro. Insieme a scienziati, medici ed esperti che tentano di arginarne la diffusione.

David Quammen, Spillover, leftUn’esperienza che da giornalista scientifico e grande narratore ha raccolto nel suo nuovo libro pubblicato in Italia da Adelphi, Spillover, termine che indica il momento del contagio tra due specie diverse. «L’idea di scrivere questo libro – racconta Quammen – è nata 15 anni fa in una foresta dell’Africa centrale durante il mio primo “incontro” con l’Ebola rappresentato dalla morte misteriosa di un gruppo di gorilla e di alcuni abitanti di un vicino villaggio. In quel momento ho cominciato a interessarmi di zoonosi: infezioni o malattie che possono essere trasmesse tra gli animali e l’uomo. Ebola è una di queste, forse la più drammatica». In occasione del Festival della Scienza di Genova, dove ha tenuto una lectio magistralis sulle emergenze attuali provocate dai virus e quelle che potrebbero svilupparsi in futuro, Left ha incontrato Quammen.

A dicembre 2013 l’Ebola è tornato a colpire in Liberia, Sierra Leone e Guinea, causando fino a oggi circa 5mila vittime. Si sa come uccide, ma non si è ancora scoperto l’ospite in cui il virus vive (senza causare sintomi) e da cui per primo si diffonde. A che punto sono le ricerche?

Da 38 anni gli scienziati cercano di identificare l’“ospite serbatoio”. Il sospetto più forte grava sui pipistrelli e i moscerini della frutta. Ma il virus non è mai stato trovato vivo in questi insetti né in altri animali. Finché non sarà scoperto sarà impossibile prevenire nuove esplosioni epidemiche.

Come si trasmette l’Ebola dall’animale all’uomo?

Molto probabilmente il contagio avviene quando si mangia carne di scimpanzé, gorilla o pipistrello. Ma conosciamo con certezza solo un caso in cui il passaggio è avvenuto dallo scimpanzé all’uomo. Un altro vettore può essere la frutta in cui si annidano i moscerini sospettati di ospitare il virus. Ma la frutta viene mangiata sia dai gorilla sia dai pipistrelli che peraltro sono nella “dieta” degli scimpanzé. Ciascuno di questi animali potrebbe essere l’anello di congiunzione tra l’ospite serbatoio e l’uomo. Purtroppo però è solo un’ipotesi.

C’è il rischio che l’epidemia africana si trasformi in una pandemia planetaria?

Oggi c’è un grande focolaio in Africa e alcune scintille in Usa, Spagna e Gran Bretagna. Ma la probabilità che diano vita a un’epidemia in Europa e in America è prossima allo zero. In Occidente abbiamo un buon sistema sanitario, attrezzature adeguate ed esperti, si possono isolare i pazienti. Quindi queste scintille dovrebbero spegnersi in poco tempo. Il pericolo vero è che il focolaio si espanda in Africa.

Quali sono i virus più pericolosi per l’uomo?

Sono quelli che si trasmettono attraverso le vie aeree. Come le influenze stagionali oppure la Sars. Anche se non vi sono certezze, Ebola dovrebbe essere meno pericoloso perché il contagio, compreso quello tra uomo e uomo, richiede un contatto diretto con i fluidi corporei. Quindi non è un virus respiratorio e sembra certo che non abbia nemmeno la possibilità di diventarlo.

Il virus colpisce ciclicamente l’Africa centrale da quarant’ anni. Perché oggi fa tanto paura all’Occidente?

Siamo spaventati dall’elevato tasso di mortalità e dai sintomi molto violenti. Ma incide anche la paura ingiustificata di tutto ciò che viene dall’Africa. Questo virus è pericoloso e meno conosciuto di altri ma non bisogna attribuirgli un potere sovrannaturale.

In Italia e in Francia alcuni genitori hanno impedito l’accesso a scuola a dei bambini che erano stati di recente in Africa, per paura che infettassero i loro figli con Ebola. Questo, nonostante i certificati medici che attestavano la perfetta salute. Un allarmismo ingiustificato che stigmatizzando presunti malati sfocia in atteggiamenti xenofobi. Cosa ne pensa?

L’Africa è un continente gigantesco, isolare oppure ostracizzare qualcuno solo perché viene da lì denota una pessima comprensione e conoscenza dell’Africa stessa. Più che del virus.

Come si può fermare la diffusione di Ebola in attesa di un vaccino efficace?

La sfida si vince inviando più fondi, attrezzature e medici in Africa. Stati Uniti e Gran Bretagna hanno mandato sia soldi che soldati. Cuba ha spedito i propri medici; Cina e Giappone del denaro. Ma tutti devono impegnarsi di più per aiutare i governi dei Paesi colpiti e le organizzazioni che “operano” in prima linea, tra cui Medici senza frontiere ed Emergency.

Qual è il ruolo del tempo nella gestione del rischio epidemico?

Come scrivo in Spillover è un ruolo cruciale perché l’Ebola è un virus impaziente: a differenza dell’Hiv uccide le persone molto rapidamente. Il numero di casi in Africa aumenta in maniera esponenziale. I contagi raddoppiano ogni 2-3 settimane. Quindi è decisivo che arrivino più aiuti e più in fretta. Tra un mese sarà molto più difficile fermare l’epidemia. Più di quanto lo sia già.

La ferocia di questa borghesia

Ho l’impressione che Simone Weil sia decisiva per la presente generazione di scrittori. In modo esplicito, con Christian Raimo, e in modo implicito, con Nicola Lagioia. Il suo romanzo La ferocia (Einaudi) si basa infatti su un assunto tipicamente weilliano: se ovunque tra gli esseri viventi domina la “ferocia”, la lotta bruta per l’esistenza, però nell’universo è anche ben reale il cuore umano, capace di sospendere miracolosamente la “legge di gravità”.

Nicola Lagioia, Ferocia, leftDi fronte alla spregiudicatezza criminaloide di Vittorio Salvemini (padre di quattro figli: Michele, Clara, Ruggero e Gioia), che diventa padrone della città (Bari), e alla innocente crudeltà degli animali, si erge l’utopia del quasi amore incestuoso amore tra Clara e il fratellastro Michele (il geniale idiota della famiglia).

La trama si sviluppa come un teorema, dentro un contenitore vagamente noir: tutto comincia dal suicidio (o presunto tale) di Clara, che pian piano corrode dall’interno relazioni sociali, ruoli di potere, dinamiche interpersonali, per far deflagrare una verità mostruosa. La scrittura di Lagioia affonda nel torbido della borghesia dei nostri anni, amorale e ipocrita, violenta eppure fragilissima( a differenza della borghesia d’antan.

La ferocia completa una trilogia sulla grande “mutazione”dei nostri anni. Stavolta però la mutazione ha prodotto qualcosa di inaspettato, e che forse sfugge di mano – fortunatamente – perfino all’autore. Un rischio della narrativa di Lagioia è l’eccesso di stilizzazione e premeditazione compositiva, l’esibizione della propria bravura tecnica. I suoi romanzi sono macchine affabulatorie inesorabili, dove tutto si corrisponde.

Qui la realtà viene descritta – con virtuosismo – al livello degli insetti (grilli, falene), intrecciando darwinianamente etologia e storia umana. Ora, la passione dell’esattezza di Calvino, senza la sua attitudine fiabesca e la sua pietas disarmata, si converte facilmente in sguardo algidamehte estenuato. Ma stavolta il personaggio di Clara – un po’ inafferrabile, a sua volta corrotta eppure con una nostalgia di felicità – sembra sfuggire al super-io letterario dell’autore, che vorrebbe controllare tutto. La pagina di Lagioia vibra di intelligenza antropologica, però dà il meglio di sé quando si abbandona senza calcolo all’imperfezione e all’imprevedibile della realtà.

Dolce e barbaro Gilberto Gil

Dolce e barbaro. Una definizione che Gilberto Gil ha scelto tanto tempo fa per sé e i suoi compagni di sempre: Caetano Veloso, Maria Bethania, Gal Costa. Cinquant’anni dopo, quella definizione gli calza ancora a pennello. Classe 1942, Gil è un pilastro della cultura brasiliana per almeno un paio di motivi: la musica e l’impegno politico.

È passato mezzo secolo dalla sua prima apparizione pubblica e in questo lasso di tempo ha fondato il movimento “tropicalista”, ha collezionato 50 album che hanno venduto più di 5 milioni di copie e ha incassato numerosi premi e riconoscimenti. La vita di Gil è la parabola di una rivincita. Quando dà vita al tropicalismo, insieme all’amico Caetano Veloso, la dittatura militare di Artur da Costa e Silva li esilia entrambi a Londra. È il 1968. Trentacinque anni dopo Ignacio Lula Da Silva lo chiama a servire il suo Paese come ministro della Cultura. E lo fa per 5 anni, ma poi torna alla sua musica.

Essere Gilberto Gil significa anche poter salire su un palco, davanti a più di mille spettatori, accompagnato solo dalla sua voce e dalla sua chitarra. Niente frenesia da samba, ma un’ora e mezza di intima e soave empatia. Di passaggio all’Auditorium della Conciliazione di Roma – e in Italia fino al 6 novembre – Gil non si risparmia: suona, canta, gioca e incanta, come se l’auditorium fosse il salotto di casa sua.

Con il suo Solo tour 2014, infatti, porta in scena «l’aura di leggenda» della bossa nova raccolta nel suo ultimo album Gilbertos Sambas, un omaggio al Maestro João Gilberto. E, in generale, alla storia musicale del suo Brasile. Emblema ne è l’esecuzione di Desafinado, capolavoro scritto da Jobim e Mendonca, dedicato ai cantanti stonati che si esibivano nei locali della Rio bene e portato al successo proprio da João Gilberto. Un viaggio intimo che Gil decide di condividere con il pubblico. Sorridente e generoso ma un po’ restio alle interviste, si concede al dialogo con Left.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 1 novembre 2014

E ora le favelas attendono Dilma

«Muito obrigada!» è stato il commento su Twitter del nuovo Presidente brasiliano Dilma Rouseff. Una vittoria ottenuta con uno scarto di poco più di 3 punti percentuali. È riuscita a vincere nonostante i sondaggi sfavorevoli che la vedevano in affanno nei confronti della coalizione socialista (Psb) e socialdemocratica (Psdb), unitisi solo ed esclusivamente contro la politica economica da lei attuata durante il mandato presidenziale, giudicata arrendevole e di segno negativo.

Ha vinto, comunque, grazie ai voti degli strati più poveri ed emarginati della popolazione, da lei sostenuti, in continuità con la politica del suo predecessore Lula da Silva. Lo ha fatto con una serie di importanti programmi sociali che hanno fatto uscire dalla povertà più di 40 milioni di brasiliani prima considerati totalmente indigenti. Oltre a dover rilanciare l’economia con adeguati piani di investimenti, due sono i problemi urgenti che dovrà affrontare Dilma Rouseff nel suo nuovo mandato – e lo chiedono a gran voce soprattutto i poveri neri e meticci del Nord e Nordest che l’hanno votata – : migliorare le condizioni di vita delle popolazioni che abitano le favelas e sradicare la corruzione endemica nel Paese.

Queste due tematiche emergono in tutta la loro evidenza anche nell’ultimo film vincitore del Festival del Cinema di Roma, Trash. Le favelas, che sono ormai parte rilevante delle città metropolitane brasiliane, continuano ad espandersi con un andamento proporzionale alla crisi sociale delle metropoli. Se in genere questi “quartieri spontanei” sono decentrati e piuttosto periferici, a Rio de Janeiro e a Salvador de Bahia sono situati sulle colline centrali che guardano la città, al di sopra dei quartieri residenziali. Rio de Janeiro ne conta più di 600, San Paolo più di 1.200. Secondo una ricerca del 2011 fatta dall’Istituto brasiliano di geografia e statistica, Ibge, la popolazione delle favelas ammonta a oltre 11,4 milioni di cittadini brasiliani, ovvero circa il 6% della popolazione del Paese ma nelle aree urbane arriva a superare il 20% della cittadinanza. Questi sono gli ultimi dati statistici disponibili; è presumibile pensare che nel frattempo la popolazione delle favelas sia aumentata.

La Rousseff dovrà dare ampio rilievo anche al problema della lotta alla corruzione che da sempre affligge il Paese. La graduatoria relativa all’indice di percezione della corruzione pubblicata nel 2014 dall’organizzazione internazionale Trasparency international assegna infatti al Brasile, per l’anno 2013, il 72° posto su 177 Paesi, con ovvie e pesanti ripercussioni in termini di Pil.

La fuga di Abo Jaib verso la vita

L’agente di quella strana frontiera europea (una frontiera immaginaria, tracciata tra due aerovie) a un certo punto ha cominciato a guardare, con crescente attenzione, prima la foto tessera del passaporto, poi il viso di Abo Jaib, poi di nuovo la foto tessera. Alla fine ha scosso la testa e sia Alhallak che Al Mardini hanno capito che il loro piano era fallito. Abo Jaib, che ha sei anni, l’ha capito subito dopo, quando i poliziotti hanno portato via i suoi zii e lui si è trovato solo in quell’ufficio. E poi, alla fine di un viaggio in macchina, in quell’enorme casa abitata da donne vestite di grigio, la testa coperta da un fazzoletto bianco.

Il piano degli zii era ben congegnato. Alhallak, 44 anni,il più grande dei due, aveva fatto più volte lo stesso gesto del poliziotto – prima uno sguardo alla foto del passaporto, poi al nipotino, poi di nuovo alla foto – e aveva raggiunto la conclusione che Abo Jaibc somigliava tantissimo a Mohammad, il figlio di Al Mardini. E che la polizia di frontiera, rassicurata dai loro passaporti svedesi, avrebbe svolto un controllo veloce e distratto. D’altra parte, non c’erano altre possibilità per tirarlo fuori dalla Siria. Se non quella ipotizzata dalla madre di Abo Jaib: affidare il piccolo ai trafficanti, caricarlo su un barcone e farlo arrivare così in Europa. Un progetto pericoloso quanto disperato. Alhallak e Al Mardini appena ne erano stati informati avevano detto “no”, niente trafficanti e niente barconi. Quindi avevano deciso di partire per la Siria e di occuparsi direttamente del viaggio del ragazzino verso l’Europa. E adesso – mentre entravano nel carcere di Civitavecchia- scoprivano che in Italia la loro missione umanitaria familiare viene chiamata “traffico internazionale di minori”. Un’accusa che prevede molti anni di carcere.

Questa è una storia incredibile. La storia di un piano complicatissimo messo in atto per risolvere un problema che per il diritto internazionale è molto semplice. La storia di un caso giudiziario intricatissimo che si chiarisce felicemente in pochi giorni. Fatto insolito ovunque, del tutto straordinario in Italia. Le date parlano da sole: l’arresto nell’aeroporto di Fiumicino dei due zii di Abo Jaibc avviene il 19 ottobre. Una settimana dopo, il 26 ottobre, tutti e tre sono a Malmo, in Svezia. Esattamente nel luogo, e nella casa, da dove il 17 ottobre Alhallak e Al Mardini erano partiti per andare a recuperare il nipotino.

Bisogna infatti sapere che una parte della famiglia di Abo Jaib da più di dieci anni vive in Svezia, dove si è ben sistemata e ha costruito una nuova vita. E che il padre di Abo Jaib poco più di un anno fa – in uno dei tanti episodi della guerra civile siriana – è rimasto gravemente ferito durante un bombardamento: gli sono state amputate entrambe le gambe. E che da allora la madre di Abo Jab, il fratello diciannovenne Jaed Aeshan e la sorella di quattordici anni hanno vissuto nel terrore, rintanati nella loro casa nei sobborghi di Damasco ad accudire quell’uomo distrutto, con l’incubo di un nuovo bombardamento, di un’irruzione, di una pallottola vagante che ti uccide nei pochi momenti in cui esci di casa per cercare un po’ di cibo. Tanto che nel marzo scorso, Jaed Aeshan – il più esposto ai pericoli per la sua giovane età – è fuggito e, dopo un viaggio avventuroso, ha raggiunto i parenti svedesi.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 1 novembre 2014

Lennox sulle orme di Billie Holiday e Nina Simone

Che Annie Lennox avesse una voce che scava in profondità nei sentimenti e capace di scalare altezze vertiginose lo sapevamo dai tempi degli Eurythmics. Graffiante, scontrosa e d’un tratto solare, con i suoi immensi sorrisi. Capace di affascinare passando con agilità dal look androgino alla sgargiante frivolezza di piume e lustrini.

La teatralità delle sue interpretazioni eleganti e, insieme, ribelli ne hanno fatto la perfetta icona pop degli anni Ottanta e Novanta. Basta ricordare alcuni videoclip già entrati nella storia della musica, come quello dedicato al brano “Why” il singolo estratto dal suo album Diva del 1992 in cui interpretava una malinconica show girl in scintillante abito da “sirena”. Oppure basta ricordare sue grintose perfomances in tuta di pelle nera come nel video di “Thorn on my side”, dove le cantava ad un uomo deludente e oppressivo.

20141101_Annie_Lennox_NostalgiaIl rapporto con l’altro, la passione, la dialettica vitale eppure spesso sanguinosa con il maschile fanno da sotto testo anche a questo nuovo album, Nostalgia, appena uscito in Italia. Ma in una chiave nuova, più raffinata e matura. Annie racconta oggi nelle interviste di non essere più disposta a rincorrere l’altro perdendo di vista se stessa, avendo trovato il coraggio di dire sani “no”.

Qualunque sia stato il suo percorso di vita in questi quattro anni di silenzio discografico (il suo ultimo album, A Christmas Cornucopia, risale al 2000 ), ciò che colpisce fin dal primo ascolto del suo nuovissimo Nostalgia è la straordinaria qualità del suono e dell’interpretazione. Non è la prima volta che Annie Lennox si cimenta con standard jazz e grandi classici della storia del blues, ma in Nostalgia trova una profondità e una compattezza incomparabili.

Senza voler far colpo con acrobazie di voce come accadeva in passato, qui trova una ricchezza espressiva da non far rimpiagere le grandi voci del jazz a cui questi standard restano per sempre legati. E parliamo di capolavori degli anni 30 e 40 come”Summertime” di Gershwin, di “Strange Fruit”di Abel Meeropol e ancora di “Put a Spell On You” di Screamin Jay Hawkins. Pezzi resi memorabili da regine del jazz come Billie Holiday e Nina Simone.

Nel suono di Kenny

Ricordo come fosse ieri la sensazione uditiva della prima volta in cui sentii il suo suono. Erano i primi anni Ottanta e mi trovavo a Milano a casa di un amico contrabbassista. Mise sul piatto un disco di cui non sapevo nulla e mai come allora quel suono mi colpì e m’incuriosì. I miei ascolti erano quelli di Miles Davis e Chet Baker. Sarei stato in grado di riconoscere il loro suono tra mille come anche quelli dei vari altri trombettisti be-bop ma “quel” suono aveva un qualcosa di diverso e unico. Era incredibilmente pulito, agile e capace di fendere il silenzio come una spada.

Ovviamente era la tromba di Kenny e questa era suonata con un principio che mi sfuggiva e mi affascinava. Il disco era della Ecm e la qualità generale del suono e della registrazione contribuiva a renderlo ancora di più misterioso e originale.

Iniziai a comprare tutti i suoi dischi ma mai provai a suonare come lui perché per me sarebbe stato impossibile. La sua tromba e il suo flicorno lasciavano ampi spazi all’immaginario e improvvisamente si lanciavano in repentini e strazianti voli pindarici verso il registro acuto, quasi al limite delle possibilità fisiche e strumentali. Solo dopo qualche anno e attraverso i ripetuti ascolti compresi e apprezzai anche la sua grandezza compositiva fino a quando, nell’estate del 1984, fui invitato dal contrabbassista Paolo Damiani a suonare al suo fianco in un sestetto composto anche dalla cantante Norma Wistone, il pianista John Taylor, il batterista Tony Oxley e lo stesso Paolo Damiani.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 1 novembre 2014

L’Anticorruzione sfila alla Leopolda

Evasione e corruzione. Due emergenze del Paese. O meglio due elementi strutturali del modo in cui il sistema economico e istituzionale si è sviluppato. Sia chiaro soprattutto, la corruzione è una pandemia che infesta altre democrazie, ma solo in Italia c’è la percezione che il maneggio del denaro pubblico sia intimamente connesso al modo con cui si selezionano le classi dirigenti, si muove la politica, si scelgono dirigenti o usceri di enti e uffici. Quindi chiunque voglia davvero cambiare il Paese deve mettere mano a questa palude e tentare una bonifica.

Renzi lo sa bene, molto più di quanto dica e faccia intendere. È stato un amministratore locale per parecchi anni e l’età anagrafica conta poco rispetto alla dura vita della trincea. Capisce che nessun centro di spesa è fuori da questo meccanismo e la Toscana è stata uno dei laboratori delle più gigantesche evasioni fiscali: dallo scandalo dell’oro aretino alle fabbriche cinesi di Prato. Premessa lunga, ma che spiega perché il premier abbia voluto sul palco della Leopolda lo zar dell’anticorruzione (Raffaele Cantone) e la zarina dell’antievasione (Rossella Orlandi) di fresca nomina. Si vuole dare un segnale e a chi ha criticato, Renzi ha risposto, come suo solito, rilanciando: «Macché, dovrebbero farsi vedere di più, girare» (Otto e mezzo del 27 ottobre).

La questione è delicata. Per anni i magistrati hanno fatto intendere, a fronte di una politica corrotta o rassegnata, che la battaglia per la legalità fosse un’esclusiva della ditta. Ora Renzi, per la prima volta, pone la questione sotto l’ombrello operativo del governo; se ne appropria nella convinzione che sia una “buona battaglia” e che possa portare consenso tra gli elettori. Per farlo ha bisogno di alcuni simboli credibili, così come, in fondo, hanno fatto le toghe negli ultimi venti anni consegnando a pochi il privilegio della cappa e della spada.

Cantone e Orlandi hanno poteri enormi, molto più di quanto si percepisca. Se mettono mano addosso a qualcuno sono in grado di distruggerlo. Soprattutto l’Anticorruzione è uno strumento di controllo del governo, in primo luogo e, a cascata, degli altri enti locali in cui il Pd e i suoi competitor sono presenti. Vedere un magistrato integerrimo salire sul palco della Leopolda è un segnale che giova alla causa del premier, ma che incrina l’idea che la nuova Autorità anticorruzione sia il cane da guardia del governo e della politica in generale. Perché, sia chiaro, la lotta al malaffare esige terzietà e indipendenza, altrimenti viene percepita come un’arma dell’arena politica, un gladio in mano a sicari e né Cantone né la Orlandi lo meritano.