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Italiani e abusivi

All’inizio sembra Crozza, o l’umorismo surreale di Achille Campanile: ad Angr una donna scopre che due suoi parenti sepolti al cimitero sono stati sostituiti da due morti sconosciuti, «abusivi perfino nell’aldilà». La realtà appare più visionaria di qualsiasi testo letterario. Si tratta di una notizia che trovo in uno studio assai documentato: Abusivi. La realtà che non vediamo. Genio e sregolatezza degli italiani (Chiarelettere) di Roberto Ippolito.

Abusivi, Roberto IppolitoDove la realtà che non vediamo siamo noi stessi, allergici alle regole, e nient’affatto geniali. L’abusivismo non riguarda qualche mafioso o qualche episodio di malcostume. Per gli italiani l’illegalità è più “normale” della legalità. Nel nostro Paese tutto è abusivo: le discariche, le costruzioni, la pesca, gli ambulanti, i manifesti, i posteggiatori, i medici ( 4.000 finti medici!). L’abusivismo muove 42 miliardi.

Ippolito, autore di altri libri di denuncia(Evasori , Ignoranti) descrive – in modo accurato e partecipe – una realtà che travolge anche lui. Un esercito di persone svolge una professione senza averne i requisiti e i permessi. Il catalogo è sterminato: autisti di scuolabus senza patente, sala-ristorante trasformata in 9 camere d’albergo, concessionario di auto divenuto discoteca, sala d’azzardo travestita da cartoleria. C’è anche il caso, degno della migliore commedia all’italiana, di un ponticello abusivo, costruito velocemente in Brianza, che però si è rivelato utile ed è stato sequestrato dal Comune.

Lo scrittore Antonio Pascale alla Fiera di Francoforte stava riassumendo il contenuto del suo libro, con l’ausilio di un interprete. A un certo punto l’interprete si blocca: l’espressione «condono edilizio» è intraducibile, non esiste in tedesco! Come rieducare il nostro popolo, che perfino nel linguaggio ha inventato una qualche soluzione alla sua riottosità civica?

Personalmente sarei per rivalutare il cosiddetto “intellettualismo etico” di Socrate – il male viene dall’ignoranza – cui già nell’antichità si contrapponeva un altro filone di pensiero («Vedo le cose migliori e le approvo, ma seguo le peggiori», Ovidio). Se gli italiani vedessero lucidamente le cose peggiori non le seguirebbero, se capissero davvero quanto la loro inclinazione all’abusivismo li danneggia, diventerebbero forse cittadini normali.

Per il Sud occorre uno Stato attivo

Non trovano riscontri precedenti le dimensioni della crisi economica e sociale che irrompe nel Mezzogiorno d’Italia nel 2013, e sembrano esserci ormai tutte le premesse perché si avvii un processo di non ritorno. Sono queste le valutazioni essenziali che emergono dall’elaborazione dell’ultimo Rapporto Svimez, da pochi giorni presentato, che denuncia come la persistenza delle dinamiche recessive e la prosecuzione delle politiche di austerità abbiano dato un affondo particolarmente drammatico alle difficoltà in cui già versava il Sud dell’Italia, determinando una nuova e più importante fase di divergenza dal Centro – Nord.

Il Rapporto chiarisce infatti molto bene che la deriva del Sud fa ora rima con la sparizione di un’intera parte di Paese, creando ulteriori prevedibili effetti recessivi sull’economia di tutte le altre regioni per l’inasprimento del calo della domanda interna. Ma quello che sta accadendo al Sud deve far riflettere anche su ciò che sta accadendo nel Paese nel suo complesso, poiché le dinamiche del Meridione non fanno che riprodurre in forma più accentuata molti dei problemi preesistenti nell’economia italiana. In questo senso uno degli aspetti più scottanti è quello della desertificazione industriale del Sud, che mostra come le fragilità del tessuto produttivo nazionale possano portare a estreme conseguenze.

Stretta tra il più accentuato calo della domanda interna e l’esiguo numero di imprese in grado di competere sui mercati internazionali (anche per la tipica specializzazione in settori tradizionali), l’industria meridionale registra una caduta che «ha assunto un’intensità e una persistenza che sembrano ormai prescindere dal ciclo europeo. In prospettiva, è dunque sempre più forte il rischio che l’industria del Sud non riesca ad agganciare il treno di un’eventuale ripresa europea». Ed è una caduta a cui corrisponde non solo una disoccupazione crescente, ma anche il progressivo impoverimento del “capitale umano”, sia per i deflussi verso Nord, sia per il sempre minore investimento che il Meridione fa sulle risorse più qualificate. Non è però una strategia dedicata al Sud quella che lo Svimez invoca per uscire dalle secche della recessione, bensì, correttamente, una strategia nazionale per lo sviluppo, che vede il Sud come parte di un problema più generale.

Una strategia che sia in grado di prefigurare un ruolo attivo dello Stato, di vero e proprio “regista” di una politica industriale che consenta di riqualificare il tessuto produttivo dell’intero Paese.

La rottamazione rottamata del Partito Democratico

«E ora #Rutelli al Quirinale!», ha twittato il fake di Gianni Cuperlo subito dopo la nomina di Paolo Gentiloni a ministro degli Esteri. La polemica per la rottamazione arenata nel pantano delle correnti ha ripreso vigore con la designazione di un politico di lungo corso noto più per il filo diretto con Renzi che per le competenze internazionali. Del resto gli ex Margherita nel governo sono talmente tanti che già a settembre il Foglio titolava «Er governo Rutelli». Pochi gli ex Ds salvati, e quasi tutti di fede renziana. E se la lista dei “dinosauri” riciclati si allunga, non mancano i giovani rottamatori caduti in disgrazia.

Riciclati al governo

L’ultimo “rottamando” ripescato dal rottamatore è appunto il nuovo inquilino della Farnesina che vanta un curriculum politico risalente agli anni Novanta (senza contare la militanza nel Movimento studentesco di Mario Capanna). Già ministro delle Comunicazioni del governo Prodi, portavoce del sindaco Rutelli, assessore del Comune di Roma e presidente della Commissione di vigilanza Rai, Gentiloni è deputato dal 2001. Nel 2013 voleva candidarsi a sindaco di Roma ma è arrivato terzo, raccogliendo solo il 15 per cento. «Evidentemente porta bene essere battuti alle primarie», ha commentato Roberta Pinotti, anche lei assurta a ministra di Renzi dopo essersi piazzata terza alle consultazioni genovesi. A molti in effetti appare un paradosso che un uomo salito al potere con le primarie imbarchi tanti sconfitti delle consultazioni locali. Oltre alla fortuna di essersi salvata dalla rottamazione malgrado la carriera da “politica di professione”, in comune con Gentiloni Pinotti ha anche la scelta di salire sul carro del sindaco di Firenze. La sua folgorazione per il rottamatore, però, è arrivata solo alla vigilia delle primarie 2013, come per molti dei suoi colleghi di AreaDem: prima riteneva Renzi «un giovanotto irruente». Tra i non rottamati spicca ovviamente anche l’ex segretario del Pd Dario Franceschini: ex democristiano, ex popolare, prodiano, poi veltroniano, quindi bersaniano, infine lettiano e ora renziano, il leader di AreaDem è stato anche sottosegretario nei governi D’Alema e Amato. A suo tempo definito da Matteo «vice-disastro» di Walter Veltroni, l’attuale ministro dei Beni culturali nel maggio 2012 del sindaco di Firenze diceva: «Nel Pd ci sono troppi galli, convinti che il sole sorga quando cantano loro».

La folla di renziani della “seconda ora” nelle liste del rottamatore per l’Assemblea nazionale Pd aveva già creato qualche mal di pancia ai supporter della prima ora. Poi è stato evidente che nel governo dell’ex sindaco i franceschiniani la fanno da padroni, tanto che sui giornali hanno cominciato a far capolino titoli che evocano il ritorno della Balena bianca a Palazzo Chigi. L’ultimo censimento conta una decina di rutelliani nell’esecutivo: accanto ai ministri Franceschini e Gentiloni, ci sono i sottosegretari Lapo Pistelli, Giampiero Bocci, Antonello Giacomelli, Giancarlo Bressa, Pierpaolo Baretta, Luigi Bobba e lo spin doctor Filippo Sensi. E se il “giglio magico” di Renzi proviene sostanzialmente dalla Margherita, persino l’ex Dc Beppe Fioroni, deputato fin dal lontano 1996, ha il suo cadreghino: dai primi di ottobre è presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sul rapimento Moro. L’ex ministro all’Istruzione si è fatto vedere all’ultima Leopolda, ma ancora ai tempi dell’impallinamento di Franco Marini al Quirinale andava dicendo che Renzi doveva «collegare la lingua al cervello». Difficile non citare tra i “rottamandi” salvati l’ex Ds Marco Miniti, già vice ministro di D’Alema e Prodi, poi vicino a Veltroni, quindi rigorosamente renziano, riconfermato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per la Sicurezza all’indomani della staffetta con Enrico Letta. Non manca chi inserirebbe in questa lista tutti gli ex dalemiani promossi da Renzi, compresi, a dispetto dell’età, i giovani turchi.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 8 novembre 2014

Prima o poi il sogno finisce

Politica ed economia, crescita e consenso. Le elezioni europee hanno pienamente mostrato la crisi di fiducia nei confronti dei governi in carica e dei partiti tradizionali. Si è detto che non c’era da sorprendersi, se si considera che nell’area dell’euro dal 2012 si è tra recessione e stagnazione, che l’anno prossimo la crescita sarà sì positiva, ma molto modesta, al di sotto di un punto percentuale, e che la disoccupazione è destinata a rimanere sopra l’11%.

Tuttavia, in quanto a consenso, non sta affatto bene neppure l’amministrazione Obama, che pure può vantare sul piano economico risultati di tutt’altro genere. L’economia degli Stati Uniti è cresciuta nell’ultimo biennio a un tasso superiore al 2%, nel 2015 dovrebbe andare oltre il 3%, la disoccupazione è sotto il 6%.

Sul Sole 24 Ore Riccardo Sorrentino sottolinea come in Usa sembra si sia spezzato il tradizionale legame tra l’andamento dell’economia e il grado di sostegno all’amministrazione federale. In parte questo dipenderebbe dal fatto che si tratta di una crescita malata. Molti non sono felici di questa crescita. La riforma sanitaria ha fatto fatica a decollare. La partecipazione dei giovani al mercato del lavoro è al livello minimo degli ultimi 50 anni, e molti di coloro che non cercano lavoro neppure studiano. Si distrugge così capitale umano, una premessa per un futuro di maggiori diseguaglianze e sofferenze.

E l’Italia? Renzi, con il suo partito del 40% e oltre, dovrebbe raddrizzare un Paese che in Europa va peggio degli altri. L’anno prossimo il governo prevede una crescita dello 0,6%, l’Istat dello 0,5, l’Ocse ci dà addirittura allo 0,1%. Tutti concordano che la disoccupazione rimarrà sino al 2016 al di sopra del 12%.

Può reggere il consenso per il governo e per il Partito democratico? Se in Usa c’è una crisi di consenso nonostante i buoni risultati dell’economia, è difficile sperare che da noi valga il contrario, che si possa mantenere il consenso senza risultati economici.

Renzi sa che deve far presto, che l’effetto delle promesse è destinato a svanire, in assenza di qualche risultato concreto. Ha cercato di muoversi lungo il sentiero stretto e difficile di una politica espansiva nel rispetto dei vincoli. Non gli è andata bene. È stato fatto rientrare nei ranghi, e ormai è chiaro che la sua legge di stabilità avrà effetti espansivi molto modesti.

Prima o poi il sogno-Renzi finirà. Ed è difficile prevedere cosa succederà al risveglio.

Sbloccare sì, ma la rete

Approvato alla Camera il decreto Sblocca Italia con l’ennesima fiducia posta dal governo che ha incassato 278 voti favorevoli, 161 contrari e 7 astenuti.

Si segnalano, tra gli altri, alcuni “non allineati” anche nel Pd, con i contrari Civati e Pastorino e gli astenuti Capodicasa, Folino e Guerini, segno di un malessere crescente all’interno delle fila democratiche manifestatosi con una rottura parlamentare che sembra sempre più insanabile e i cui effetti potrebbero protrarsi anche al Senato. E proprio in Senato, dov’è in esame il provvedimento che scade l’11 novembre, si dovranno fare i conti con la ristrettezza dei tempi. Diversi i settori oggetto del decreto, dai trasporti all’edilizia, dall’ambiente alle imprese, tra grandi opere, fiumi di cemento e colpi di spugna ai vincoli paesaggistici.

Una delle aree di maggiore interesse tecnologico è quella rappresentata dall’art. 6 del Capo II sulle agevolazioni per la realizzazione di reti a banda ultralarga. Un aspetto legislativo atteso da molto tempo per affrontare i limiti del digital divide che isola intere porzioni del Belpaese da servizi di connettività e che, anche in presenza di connessione, presenta limiti in termini di velocità.

Lo scorso giugno Akamai, società di servizi online, ha pubblicato un rapporto sullo stato di Internet nel mondo relativo al primo trimestre 2014. Tralasciando i dati nel loro complesso, è emerso un elemento assolutamente negativo per noi: in Europa, l’Italia è l’unico Paese a registrare un declino nel lungo periodo sulla qualità dell’accesso alla rete. Un dato che si ripercuote in vari settori della quotidianità, dalle possibilità di nuovo business alle opportunità di servizi al cittadino erogati dalle pubbliche amministrazioni passando per la ricerca, sia pubblica che privata. Limiti a cui s’è cercato di dare risposta con lo Sblocca Italia, ad esempio, con l’obbligatorietà, a partire dal 2015, della predisposizione alla fibra ottica all’interno degli edifici di nuova costruzione o con gli sgravi per il potenziamento della rete.

Tuttavia, nonostante i buoni propositi, l’impressione generale è quella di uno sguardo eccessivamente rivolto alle esigenze delle grandi società delle Telecomunicazioni, unico settore che durante questi anni di crisi ha continuato a macinare utili e al quale vengono fornite agevolazioni, incentivi e deroghe ai vincoli paesaggistici tanto da non aver più bisogno di autorizzazione per interventi su impianti di telefonia mobile esistenti. Non esattamente quello che si dice un cambio verso.

Il premio Nobel Mairead Corrigan Maguire: l’Europa riconosca lo Stato palestinese

«Se L’Europa avesse un sussulto di orgoglio e di dignità, se credesse davvero a quei principi universali di cui si fa vanto, allora non dovrebbe perdere un attimo in più e compiere un atto riparatorio che sarebbe dovuto accadere già da tempo: riconoscere lo Stato palestinese. Per farlo non c’è bisogno del “permesso” d’Israele». A parlare è Mairead Corrigan Maguire, premio Nobel per la pace nel 1976.

Nata a Belfast da famiglia cattolica, 70 anni, Maguire, decise di dedicarsi alla pace nel suo Paese dopo che i tre figli della sorella furono investiti e uccisi da un’auto di cui aveva perso il controllo un membro dell’esercito repubblicano irlandese, colpito poco prima a morte da un soldato inglese. A seguito di quella tragedia la sorella si tolse la vita e Mairead fondò con Betty William, con cui ha condiviso il Nobel, il movimento “Donne per la pace”. Nell’aprile del 2007, mentre partecipava a una manifestazione contro la costruzione del “Muro” in Cisgiordania, Mairead fu ferita da un proiettile sparato da un soldato israeliano.

Maguire è fondatrice dell’Iniziativa delle donne Nobel e membro della Rete Transcend per la pace, lo sviluppo e l’ambiente. Nel vivo della terza guerra di Gaza, Maguire è stata tra i firmatari, assieme agli altri Nobel Desmond Tutu, Jody Williams e Rigoberta Menchú, di una lettera aperta per esigere che l’Onu e i governi del mondo imponessero «un embargo militare totale e giuridicamente vincolante verso Israele, simile a quello imposto al Sud Africa durante l’apartheid. La compravendita di armi e i progetti congiunti di ricerca militare con Israele incoraggiano l’impunità israeliana nel commettere gravi violazioni del diritto internazionale e facilitano il radicamento del sistema israeliano di occupazione, colonizzazione e negazione sistematica dei diritti dei palestinesi».

La lettera sottolineava il ruolo dell’Europa nell’armare Israele. Non solo i Paesi europei, tra i quali l’Italia, «hanno esportato in Israele miliardi di euro in armi», ma l’Unione europea ha anche «concesso alle imprese militari e alle università israeliane fondi per la ricerca militare del valore di centinaia di milioni di euro», sostenendo così lo sviluppo della tecnologia militare israeliana che viene «commercializzata quale “collaudata sul campo” ed esportata in tutto il mondo». «A questa Europa complice – dice a Left la Nobel per la Pace – vorremmo sostituire un’Europa che sappia coniugare pace e giustizia. Un’Europa che riconosca finalmente il diritto dei palestinesi a vivere da donne e uomini liberi in un loro Stato».

Lei ha più volte visitato la Palestina, in particolare la Striscia di Gaza. Qual è la realtà che ha vissuto personalmente?

Una realtà terribile, agghiacciante, angosciante. Una cosa voglio dirla chiara e forte: non c’è nulla di più illegale e immorale della punizione collettiva che viene applicata contro la popolazione palestinese ogni giorno e in maniera indiscriminata dalle autorità israeliane.

Israele ribatte che Gaza è in mano di Hamas e che con il blocco della Striscia lo Stato ebraico sta esercitando il suo diritto all’autodifesa.

Il diritto all’autodifesa non consente di aver trasformato Gaza in una prigione dove 1.700mila persone, in maggioranza minorenni, vivono e muoiono in condizioni estreme, dove la maggioranza dei bambini è malnutrita, dove manca tutto, dai medicinali ai generali alimentari. A Gaza, da anni ormai, si sta facendo scempio dei più elementari diritti dell’uomo. Cosa c’entra il diritto di difesa, evocato da Israele, con la distruzione delle scuole dell’Onu, con quartieri ridotti a un cumulo di macerie! Cosa c’entra con il diritto alla sicurezza la realizzazione di un regime di apartheid in Cisgiordania, con la “pulizia etnica” praticata a Gerusalemme Est ai danni della popolazione araba? Tutto questo non si chiama “difesa”. Si chiama “oppressione”. E della peggior specie. Lanciare bombe, centinaia di tonnellate di bombe, contro civili disarmati, molti dei quali donne e bambini, distruggere moschee, ospedali e case, e devastare le infrastrutture di Gaza è illegale e costituisce crimine di guerra. Non smetterò mai di denunciarlo: la punizione collettiva contro una comunità di civili, da parte del governo israeliano, viola la Convenzione di Ginevra, è illegale, è un crimine e contro l’umanità. Non c’è diritto di difesa che possa giustificare questo scempio. Chi è responsabile di questi crimini non dovrebbe impartire lezioni di legalità o addirittura accusare di sabotare la pace il premier svedese, “colpevole” di aver riconosciuto lo Stato palestinese! Chi è responsabile di crimini come quelli commessi a Gaza dovrebbe risponderne davanti alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja!

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 8 novembre 2014

Ora costruiamo memoria per Stefano Cucchi

Sono state scritte e pronunciate parole su parole negli ultimi giorni sull’esito del processo d’appello per la morte di Stefano Cucchi. In che modo è possibile commentare ancora, una vicenda che in questi ultimi cinque anni è diventata paradigma del malfunzionamento dello Stato e dei suoi apparati (dalle caserme agli ospedali, dai tribunali alle carceri)? Possiamo partire dalle parole di chi ha perso l’ennesima occasione per tacere, e provare a replicare (non certo per rispondere a loro, la consideriamo una battaglia persa).

Come il senatore Carlo Giovanardi, sempre in prima linea quando si tratta di rilasciare dichiarazioni contrarie al buonsenso e al buongusto. Intervenendo nel corso della trasmissione di Radio24 La zanzara, Giovanardi afferma: «Spacciava per vivere, bisogna stare lontani dalla droga. Agenti penitenziari vittime, sono stati criminalizzati» e ancora «nelle perizie si legge che Cucchi ha mangiato se stesso, quando è andato in ospedale pesava 36 chili». In sole trentadue parole, ci sono già due bugie. Stefano Cucchi non spacciava per vivere, ma faceva il geometra, e quando è entrato in ospedale di chili ne pesava 45 (e solo due giorni prima del ricovero era andato nella palestra dove tirava di boxe). Che un parlamentare dica «Cucchi ha mangiato se stesso» – utilizzando un’immagine raccapricciante da film dell’orrore – è il segno di una tendenza ahinoi molto presente in una certa parte della politica: della morte di un ragazzo dentro un luogo dello Stato non abbiamo responsabilità, è molto probabile che sia morto per sua stessa colpa. E allora lo ribadiamo: se un cittadino è sotto la custodia dello Stato – sia egli completamente innocente o reo confesso di omicidio – lo Stato se ne deve prendere cura, deve garantire i suoi diritti e salvaguardare la sua dignità e la sua incolumità. Tutto ciò che avviene al di sotto di questo livello di garanzie, rappresenta una grave colpa e implica una responsabilità delle istituzioni.

Ci sono, poi, un paio di segretari di sindacati di polizia che mostrano il meglio di sé in queste situazioni, non rendendosi forse conto di quanti danni provocano alla loro stessa categoria. Franco Maccari del Coisp, piccolo sindacato nel dichiarare disprezzo verso la famiglia di Federico Aldrovandi, la dice così: «Basta con questa non più sopportabile cantilena dell’inspiegabilità di un evento sia pur triste e luttuoso. Se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia». Magari, Maccari – prima di guardare in famiglia – potrebbe provare a guardare la Costituzione, i trattati internazionali, le leggi. In Italia non c’è la pena di morte, e la tossicodipendenza – nel caso specifico – dovrebbe essere trattata come una questione sanitaria e non di sicurezza. Lo stesso Maccari trova incredibile che la famiglia di Stefano Cucchi dichiari come non sia «possibile che il proprio congiunto sia morto senza che qualcuno ne sia responsabile». Hanno proprio una faccia tosta, questi Cucchi, a chiedere da cinque anni il motivo per cui loro figlio è morto dopo sei giorni di prigionia, in un ospedale, con medici, infermieri, poliziotti carabinieri – insomma una sequela di pubblici ufficiali – che hanno avuto modo di incontrarlo e che avrebbero potuto comportarsi in maniera molto diversa.

Ma no, figuriamoci, nel nostro Paese chiedere verità e giustizia in processi come questo significa necessariamente essere “contro” le forze di polizia. Esprimendo concetti vittimistici come fa Tonelli del Sap: «Bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze». Dato che, secondo Tonelli, il poliziotto in quanto tale non ha la responsabilità del cittadino nella sua custodia, ma il cittadino ha responsabilità verso se stesso e se sbaglia, tanto peggio per lui, allora la proposta del gruppo di Sel nel consiglio comunale di Roma di intitolare una strada o una piazza cittadina a Stefano Cucchi (proposta votata dalla maggioranza dei consiglieri) è una vera scemenza. Il sindaco Ignazio Marino ha però replicato a Tonelli, dichiarando che di quella proposta è “orgoglioso”.

E sapete perché ha ragione il sindaco di Roma a esserne orgoglioso? Non perché Stefano Cucchi fosse un eroe, o un modello, o un santo. Semplicemente perché Stefano Cucchi era un uomo, ingiustamente trattato dallo Stato italiano che si sarebbe dovuto occupare di lui, morto per niente. Dove la magistratura è stata carente, dove i giudici non sono stati capaci di arrivare, è lì che si rende ancora più necessario restituire dignità e costruire memoria. Un piccolo segno, ma certamente non superfluo.

Don Pasta: la mia cucina partigiana

«Guarda questo, capirai l’intero senso di quello che cerco. Sono 5 minuti, basta che clicchi e scarichi il video. Il senso di cucina del popolo e non di cucina tradizionale. Alza il volume». Scarico, alzo il volume e guardo. Vedo il volto di una donna dai capelli bianchi, le sue mani muoversi per fare la “pasta rasa”. Ascolto mentre racconta la sua vita, da bambina umiliata perché trovata senza divisa fascista a staffetta partigiana. E capisco cosa vuole dire Daniele De Michele, in arte Donpasta, imperdibile artista che da vent’anni unisce musica e cibo. Dopo Food sound system (2006) e La parmigiana e la rivoluzione (2013) esce in questi giorni il suo nuovo libro Artusi remix (Mondadori Electa). Lo cerchiamo e ci facciamo raccontare come e perché ha passato un anno su e giù per l’Italia a raccogliere più di 250 ricette di cucina popolare.

«Persegue una propria vita, fra parentele e web, fra una regione epicentro – la sua Puglia e non la Romagna di Artusi – e fiuta rischi e vantaggi della delocalizzazione di qualsiasi testo di cucina nella comunicazione e nei suoi linguaggi. Mentre Artusi copriva d’anonimato i proprio “coautori”…, Donpasta rivela e associa al suo progetto, con nome e cognomi, consiglieri, testimoni, massaie, dilettanti…». Nella prefazione del tuo libro ti descrivono così. Sei tu? Vuoi aggiungere qualcosa?

La sintesi l’ha fatta, nell’introduzione del libro, Alberto Capatti, il più importante esperto dell’opera di Artusi. Io volevo raccontare la cucina nel nuovo millennio e non potevo non partire dall’Artusi, che riuscì a dare un’omogeneità non solo alla cucina ma alla lingua italiana stessa. I suoi libri hanno aiutato forse milioni di famiglie ad apprendere l’italiano, trovandosi in ogni cucina sin dalla fine del 1800. Per salvare quel patrimonio adesso serve fare l’operazione inversa. Sottolineare le diversità di ogni luogo, degli ingredienti, ritrovare la propria lingua, il dialetto, accorgersi di ciò che smuove la gente a parlare di una delle cose più vitali e simboliche per se stessi e il proprio corpo, che è il mangiare.

«Alla ricerca di nuovi modi di trasmettere la propria cucina, Casa Artusi, ha fatto dunque il patto col diavolo» che, precisano, non sei tu, ma la rete. Eppure questa esigenza di collettività e questo girovagare un anno intero per l’Italia non ti ha fatto sentire l’innovatore del patrimonio di Casa Artusi?

Il questionamento per Casa Artusi non riguardava tanto il contenuto del mio lavoro, ma la difficoltà nel raccogliere ricette nell’epoca in cui il cartaceo rischia di scomparire e soprattutto la modernità ha quasi cancellato il patrimonio culinario millenario. Ci si domandava come validare da un punto di vista filologico una ricetta, che è testimonianza, nell’epoca dei fake, dei falsi, dei copia e incolla da internet. L’unico modo che avevo per capire se una ricetta fosse verosimile era ripartire dal senso intimo che ognuno porta in sé della cucina, che è una sintesi interessante di come porsi tra passato e presente.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 8 novembre 2014

La buona scuola? Se un sondaggio diventa uno spot

Ultimi giorni per “votare” la scuola che verrà. Il 15 novembre infatti si chiude la consultazione popolare sul piano del governo La buona scuola. L’operazione, iniziata il 15 settembre e rivolta a tutti i cittadini, non solo studenti e docenti, è stata presentata negli spot come «la più grande consultazione – trasparente, pubblica, diffusa, online e offline – che l’Italia abbia mai conosciuto finora». A due settimane dalla chiusura, il bilancio della mobilitazione presenta luci e ombre. Intanto, le cifre. Di fronte ad una popolazione di circa 8 milioni di studenti e 628mila docenti, i partecipanti online, secondo i dati forniti dal ministero dell’Istruzione, sono stati 80mila su 700mila accessi al sito.

I cittadini, invitati dal presidente del Consiglio «a essere protagonisti, non spettatori», esprimono la propria opinione, ricordiamo, su un rapporto di 136 pagine che delinea la scuola del futuro. Seguendo lo stile semplificato delle slide, il sito labuonascuola.gov.it individua 6 punti chiave del “patto educativo” enunciato da Renzi: l’assunzione di tutti i precari (148mila), la formazione e la carriera dei docenti, l’autonomia e la valutazione scolastica, i programmi e le materie del domani, il rapporto scuola-lavoro e infine la questione delle risorse pubbliche e private da investire nell’istruzione. Su questi sei nodi sono impostati i questionari, con un numero variabile di risposte tra cui i votanti devono scegliere quelle di gradimento, anche se è possibile aggiungere suggerimenti, al di là delle indicazioni del Miur.

A cosa serviranno i questionari? Nel sito è scritto: «A migliorare le proposte, a capire cosa manca, a decidere cosa sia più urgente cambiare e attuare». Ma sull’esito finale della consultazione è piuttosto scettico Vincenzo Smaldore, responsabile editoriale di Openpolis, l’associazione che si occupa proprio di trasparenza e di partecipazione democratica attraverso la rete e che ha appena pubblicato un dossier sulla “produttività” dei parlamentari italiani. «Temo che la consultazione non andrà da nessuna parte. Mi sembra soprattutto un’operazione di comunicazione, non di partecipazione né di trasparenza».

I motivi, secondo Smaldore, dipendono un po’ dall’impianto generale da cui discende labuonascuola.gov.it, cioé il sito passodopopasso.italia.it che secondo Openpolis non fa quell’accountability che lo stesso Matteo Renzi ha dichiarato di voler fare in più occasioni pubbliche. Cioè non c’è “rendicontazione”, non si danno «informazioni base su tempi, azioni e risultati dell’attività dell’Esecutivo» in modo da permettere la valutazione delle scelte.

Per esempio, a proposito dei 400 milioni annunciati dal premier con l’hastag #scuolebelle, come si fa a capire se sono «tanti o pochi, di più o di meno degli anni passati?», si chiede Smaldore. Lo si può sapere solo con un’informazione su basi storiche e che preveda un monitoraggio delle richieste. «Tutte informazioni di cui sicuramente le strutture politiche e amministrative sono in possesso. Ma se si vuole essere trasparenti bisogna condividerle perché non è possibile fare la valutazione senza il contesto», precisa il responsabile di Openpolis che entra nel dettaglio della consultazione online de La buona scuola.

«Se da un punto di vista tecnologico la piattaforma funziona, è intuitiva, ha un design pulito e semplice, con i continui collegamenti ai capitoli del Dossier e con il calendario degli eventi nei territori, quello che invece non è chiaro è il percorso che avranno le risposte pervenute: si rimanda in maniera abbastanza fumosa ad una fase successiva di elaborazione dei suggerimenti, e poi si vedrà. Invece occorre definire un percorso di partecipazione anche all’interno di quelle che sono facili consultazioni. E poi bisogna fare attenzione all’autenticità dell’utente online», sottolinea Smaldore.

Cosa interessa al Miur, 80mila questionari riempiti o 80mila cittadini “reali” interessati al futuro della scuola? Per evitare il pericolo di automatismi di cui la rete è piena, per cui con un semplice click un programma può compilare a piacimento tutti i questionari possibili, suggerisce l’esperto di Openpolis, occorre una procedura di autentificazione rinforzata, con la richiesta di dati personali, come per esempio il codice fiscale.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 8 novembre 2014

Posti nel verde: Catia Bastioli ad Novamont

Catia Bastioli, amministratore delegato di Novamont e ora presidente di Terna, può certamente essere considerata la scienziata che ha inventato le plastiche biodegradabili e compostabili partendo da risorse rinnovabili. Nel 2007 è stata insignita del premio “Inventore europeo dell’anno” proprio per i suoi brevetti sulla bioplastica Mater-Bi, in tutto simile alla plastica ma con un’unica grande differenza: le buste tradizionali per decomporsi impiegano dai 100 ai 400 anni, quelle Mater-Bi una volta usate si biodegradano in poche settimane.

Umbra, laureata in chimica a Perugia, ha sviluppato a Terni i primi impianti per la produzione della bioplastica “made in Italy”. Qui Novamont ha stretto un accordo con Coldiretti, ha costituito una newco con 600 imprenditori agricoli umbri e oggi realizza il grosso della sua produzione. «Un primo esempio concreto di sistema integrato tra industria, agricoltura, ambiente ed economia locale», ci spiega l’ad. Nulla di facile certo, ma senza dubbio una realtà unica al mondo: tonnellate di bioplastiche all’anno, derivate dal mais e da olii vegetali, che vanno a finire nei prodotti più disparati, dai teli di uso agricolo ai sacchetti per la raccolta differenziata dell’organico, sino ai bicchierini per il caffè.

Nel 2006 Novamont inaugura a Terni un impianto per la realizzazione della sua bioraffineria integrata. Riqualifica un sito industriale in grave fase di deindustrializzazione (l’area ex Polymer) e investe 15 milioni di euro. L’impianto oggi produce biopoliesteri a partire da oli vegetali (Origo-Bi). Cosa vuol dire? Cosa fate?

Questo modello di bioraffineria, che tuttora guida lo sviluppo di Novamont, non vuole semplicemente produrre materiali alternativi rispetto a quelli realizzati con plastiche di origine petrolchimica. Vogliamo creare un nuovo modello di sviluppo, basato su filiere agroindustriali in grado di partire da materie prime di origine vegetale, coltivate localmente, per dare vita a bioprodotti (non soltanto bioplastiche, ma anche biolubrificanti, biochemicals, ecc.) e anche per risolvere specifici problemi ambientali. I biopoliesteri Origo-Bi prodotti a Terni hanno rappresentato il primo passo nella realizzazione dell’integrazione a monte, con il comparto agricolo, della nostra filiera produttiva. Sono il risultato di una tecnologia sviluppata nel centro di ricerca Novamont di Novara e successivamente messa in pratica proprio a Terni, e sono a loro volta impiegati nella composizione delle bioplastiche biodegradabili e compostabili Mater-Bi, prodotte sempre a Terni. Grazie agli Origo-Bi abbiamo sviluppato la seconda generazione dei nostri materiali, moltissime risorse le abbiamo utilizzate per sviluppare ulteriori tecnologie, che oggi ci consentono di produrre anche monomeri da fonte rinnovabile, così da permettere una piena integrazione con la filiera agricola. Per industrializzare le nostre tecnologie ci rivolgiamo a siti dismessi o non più competitivi, riconvertendo competenze e impianti per creare nuovo valore e nuova occupazione.

Perché a Terni?

Il sito di Terni era uno dei più importanti del gruppo Montedison per la produzione e trasformazione del polipropilene. Il primo impianto Novamont per gli amidi complessati è nato a Terni nel 1990, quando eravamo ancora Montedison, e abbiamo continuato ad investire negli anni sviluppando un’importante capacità produttiva. Nel 2006, quando abbiamo iniziato ad occuparci anche dei poliesteri Origo-Bi, la deindustrializzazione del sito si incominciava a sentire, fino alla chiusura da parte di LyondelBasell dell’impianto di polipropilene.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 8 novembre 2014