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#ScioperoSociale in 25 piazze d’Italia

Migliaia di persone sono scese in piazza in Italia e in Europa per protestare contro il Jobs Act del governo Renzi e le politiche d’austerità imposte dalla Troika. Lo sciopero generale, organizzato da studenti, centri sociali, sindacati autonomi, movimenti per i beni comuni, è nato per dare voce a tutti quei lavoratori non garantiti che non appartengono a nessuna categoria e che non hanno mai avuto il diritto di sciopero.

«Siamo i precari, le partite iva, i contratti a progetto, i migranti, i lavoratori a nero e occasionali – dice Miriam, che studia Scienze politiche e la sera lavora in un pub senza contratto per 30 euro – abbiamo organizzato questo sciopero perché oggi usciamo dall’anonimato, da quella stagnazione cui ci hanno costretto i vari governi che si sono succeduti nel corso degli anni. Il Jobs Act che Renzi ha stilato, peggiore della riforma Fornero del 2012, cosa che credevamo impossibile, mira solo a rendere più precari sia noi che i pochi lavoratori garantiti rimasti. Questa dinamica di divisione e di guerra tra poveri che il governo sta tentando di attuare, dinamica tra l’altro che è la stessa di tor sapienza, è una dinamica fratricida e che fa gioco solo ai poteri forti. Questo percorso non è che l’inizio di una campagna più larga che metteremo in campo, non abbiamo intenzione di fermarci».

Nonostante il corteo della mattina sia terminato, sono previste azioni e blocchi che dureranno fino a mezzanotte. Cariche a Pisa, Milano, Rimini e Padova dove ci sono stati alcuni studenti feriti. Tensione a Roma, dove era annunciato l’arrivo dell’europarlamentare leghista Mario Borghezio. Il quale si è fermato in mattinata in un bar di Tor Sapienza per una improvvisata conferenza stampa e poi nel pomeriggio ha in programma una  visita nel quartiere di Montesacro-Fidene.

Manifestazione dei ricercatori nel pomeriggio davanti al Miur.

La verità su Cucchi è più vicina. Forse

Forse la verità sulla morte di Stefano Cucchi è più vicina. Il forse è d’obbligo. Ma ormai sembra saltata la regola dell’omertà di Stato, della simulazione e della dissimulazione, alla cui ombra si sono riparati gli assassini: uomini insediati nei terminali dove lo Stato dovrebbe garantire sicurezza e assistenza alle persone, specialmente se deboli e indifese. E invece è proprio lì che bisogna avere paura dell’arbitrio, della disattenzione, della sciatteria, di quella peste che è l’omertà come malintesa solidarietà di corpo.

Accanto a chi picchia, tortura, rompe le ossa, fino a trasformare un giovane uomo in un cadavere, c’è chi non vede e non sente, ignora lamenti e grida, redige verbali che stemperano, alterano, rovesciano la realtà. Ma ora, contro di loro, è nato un movimento. Grazie all’opera tenace della sorella di Stefano, grazie a tutta la famiglia del giovane geometra ucciso da chi doveva averne cura, una tragedia privata è diventata una questione pubblica. Non si è più disposti a tollerare una sentenza di assoluzione per “insufficienza di prove”. La prova c’è, è nella fotografia di quel volto. Da lì è nato un movimento per la giustizia. Quella fotografia del volto martoriato di un giovane uomo ucciso è la sua bandiera.

Dopo anni di vergogna, di leggi a protezione di corrotti e di evasori, di abissi scavati tra potere e popolo, è intorno all’icona di questa vittima incolpevole che rinasce la speranza e si raccolgono pubblicamente tante persone. A oggi la sequenza delle fotografie conta tra gli altri i volti e le agonie di Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini. E niente garantisce che altri non se ne aggiungano. Ma ormai basta l’uso di un cellulare per sbugiardare con la precisione delle immagini la lingua di legno dei verbali di questure, carceri e ospedali.

Intanto il vice-presidente del Csm, Giovanni Legnini, ha dichiarato che l’istanza della famiglia Cucchi è assolutamente legittima e fondata. Forse possiamo cominciare a chiedere e a sperare che si arrivi finalmente a fissare le regole che mancano: per esempio rendere identificabili con un numero i membri dei tanti corpi che si occupano di ordine pubblico: e magari dotarli anche di un’altra cultura e di una deontologia fondata sulla Costituzione e rispettosa dei diritti delle persone. E intanto, perché no, approvare subito una legge decente sul reato di tortura: che è fondamentalmente ancor oggi quello che è sempre stato cioè un reato che si consuma nel rapporto tra il cittadino e il potere e non un qualsiasi abuso nei rapporti privati come per ora dice la legge che si trascina in Parlamento – una delle tante cattive leggi a cui ci hanno abituati nel regime che alla Costituzione ha sostituito il patto del Nazzareno, quelle leggi scritte apposta per nascondere i reati o destinarli a una rapida caduta in prescrizione.

Lontanissimi i tempi delle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, del celebre Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. Eppure il dilemma è sempre quello, se gli abusi giudiziari e la tortura siano un problema di leggi da cambiare (Verri) o un problema della coscienza dei giudici (Manzoni). Non sono poi tanto diversi i termini del confronto attuale fra le teorie “consequenzialiste” del fine che giustifica i mezzi e quelle di un’etica rigorosamente kantiana. Lo si vede nella cultura americana, dove il ricorso alla tortura appare sempre più legittimato dall’ossessione collettiva della lotta al Terrore.

Si avanza qui la tesi fondata sulla teoria del “consequenzialismo”: l’inquirente che sta esaminando un sospetto terrorista deve pensare alle conseguenze che potrebbe avere l’astensione dal ricorso alla tortura nei confronti di una persona che forse sa dove è nascosta la bomba a orologeria. Quante vittime ignare possono essere salvate semplicemente togliendo ogni limite alla durezza dell’interrogatorio, anche se si rischia di uccidere un innocente? E davanti a questo argomento impallidisce il principio fondamentale della morale kantiana – fa’quel che devi, accada quel che può. Sono temi su cui si concentra da anni la riflessione di studiosi come il professor Matthew Kramer di Cambridge. Ma le severe discussioni accademiche su questi argomenti sono alimentate soprattutto da un fatto: il ritorno in auge del ricorso alla tortura nei più diversi modi e forme, per lo più lontano dall’occhio della legge. Avviene per esempio nel territorio della concessione di Guantanamo, con l’ipocrisia di lasciare i cittadini degli Usa nel loro candido convincimento di essere un paese governato dalla legge.

In Italia ci sono stati i casi individuali già ricordati ma anche quelli di cui è stata teatro la città di Genova durante i giorni del G8. Di fatto ci troviamo davanti all’emergenza di un ritorno in auge della tortura e della pena capitale nelle forme sfuggenti e anomiche dell’informalità e del caso per caso. Tanto più grave appare la nebbia che copre la questione nella vita civile di un Paese come il nostro: un Paese che quest’anno celebra il ricordo centenario di Beccaria come gloria nazionale.

Il costo della separazione a Sinistra

Qualcuno la paragona a una traversata del deserto senz’acqua, altri ricordano con sgomento la scomparsa dai media. Tutti comunque rievocano la grande fatica di iniziare da zero dopo una scissione. Perché quando esci da un partito, te ne vai a mani vuote: soldi e immobili restano a chi rimane, anche se gli scissionisti sono poco meno della metà.

Così l’Idv, che nel 1999 si era unita a Rutelli e Prodi sotto il simbolo dell’Asinello mettendo a disposizione la sede di via Del Corso, quando decise di correre da sola perse tutto, uffici e mobili compresi. Uscendo dal Pci post Bolognina, Rifondazione riuscì a “strappare” le sezioni dove i compagni contrari alla svolta avevano la netta maggioranza, ma perse la battaglia per il simbolo: il logo con la falce e martello rimase al Pds, anche se il partito di Occhetto si preparava a mandarlo in soffitta. Per il resto, la sorte di chi lascia una formazione per fondarne un’altra è uguale per tutti: si parte senza un centesimo.

IL PD E LA SCISSIONE POTENZIALE

«Premesso che l’argomento è teorico perché non sto organizzando alcuna scissione», mette le mani avanti Pippo Civati, «Grillo ha dimostrato che si possono fare campagne molto leggere. Certo, ci vuole un messaggio politico: il costo per avviare un partito dipende dalla carica politica e culturale che ci metti. La motivazione è la benzina più importante. Più il messaggio è forte, meno ti costa».

Per l’ex sfidante di Renzi, in un contesto di risorse sempre più scarse è urgente rivitalizzare la vita di partito, «anche perché un soggetto politico che vive solo del suo leader l’abbiamo già conosciuto…». Civati bolla come «demagogica» la drastica abolizione del finanziamento pubblico votata in gran fretta dal governo Letta, sotto la pressione dei grillini e del nuovo segretario Renzi: «Io chiedevo un forte ridimensionamento delle cifre, una rendicontazione più stretta e un miglior impiego del 2 per mille».

La cancellazione è stata «un azzardo che stiamo pagando tutti. Queste cose, tra l’altro, si fanno solo se c’è una normativa devastante, all’americana, sul conflitto di interessi. Se raccogli troppi soldi dalla stessa persona, la tua politica è meno libera». Da qui il suo giudizio sulle cene di Renzi: «Capisco che la sinistra debba uscire dalle storiche roccaforti, però così rischia di non trovare più la strada di casa.

Invece di 800 invitati a mille euro, avrei preferito cene da 50 euro accessibili a tutti, organizzate dalle federazioni: il risultato sarebbe stato lo stesso, magari si faceva più fatica ma si aggiungeva un contenuto politico alla raccolta fondi. Credo nella partecipazione da cui dipende la contribuzione, non in una contribuzione che nega la partecipazione: è una strada pericolosa». La scissione dal Pd per Civati rimane un’opzione «se Renzi continua ad andare da un’altra parte». Anche se il “dissidente” brianzolo sa bene che i soldi resterebbero al partito e alle sue fondazioni.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 15 novembre

Renzo Arbore: Non è più la mia tv

Questa Rai a Renzo Arbore proprio non piace. «Non è più la mia televisione», dice a Left mentre si appresta a celebrare i suoi 50 anni di carriera. Con i suoi dipendenti è imprevidente. Con lui è persino ingrata.

In mezzo secolo Arbore ha innovato il linguaggio del servizio pubblico, al fianco di Boncompagni con Alto gradimento o al timone della strampalata tribù di Indietro tutta!. Le sue irruzioni nel piccolo schermo hanno spazzato via l’ingessatura della tv di Stato di fine anni 60. Ha fatto scoprire i Beatles e Lucio Battisti agli italiani, realizzato il primo talk show in tv con Speciale per Voi…, registrato ascolti da prime time in seconda serata (con Quelli della notte, prima, e Meno siamo meglio stiamo, poi). E, ancora, con l’Orchestra italiana ha eseguito il primo concerto di un occidentale sulla Piazza rossa di Mosca dopo la fine del comunismo, firmato la prima produzione cinematografica Rai con Pap’occhio, film-cult mai andato in onda sui canali di viale Mazzini.

Cinquant’anni «di medaglie che mi ero messo sul petto e cominciavano a pesarmi», racconta. Mamma Rai lo ha trattato con i guanti d’oro? «La Rai è un po’ ingrata», risponde Arbore. «E pensare che le sono rimasto fedele fin da quando ho vinto il concorso nel ’64 e che ancora oggi continuo a lavorare quasi gratis per la Rai. Ma da questo orecchio Viale Mazzini non ci sente. Anzi, le orecchie sono tante, ma sono tutte sorde».

Renzo Arbore è il più illustre ma non l’unico figlio che si sente trascurato da Mamma Rai. Pochi giorni fa gli operatori di ripresa sono entrati in sciopero contro lo “zainetto”, una nuova apparecchiatura che permette a chiunque di realizzare riprese, montare immagini e spedirle alle redazioni. Le professioni tradizionali della produzione televisiva si sentono minacciate dall’innovazione tecnologica. Come sessant’anni fa, quando la tv tolse per sempre alla radio il monopolio della comunicazione di Stato.

Nuovi i mezzi antiche le dinamiche, assicura Arbore che quel passaggio epocale lo ha vissuto direttamente: «Il compito della direzione, della commissione, del Cda è quello di prevedere i cambiamenti e capire come riutilizzare le proprie capacità straordinarie», spiega. «La Rai in passato ha avuto un’etica straordinaria: in radio non mandavano via nessuno, il contrabbassista dell’orchestra radiofonica veniva “riutilizzato” diventando stenografo delle canzoni. A chi lavorava in Rai venivano affidate altre e nuove mansioni. Questo dovrebbe fare la Rai, invece di prendere quelli che vengono da altre parrocchie e che magari non hanno nemmeno la capacità che abbiamo avuto noi di fare il servizio pubblico».

Renzo Arbore, che rivoluzione farebbe oggi in Rai?

Ci vorrebbe la televisione d’autore. Anche umoristica, anche leggera, ma che arricchisca e non che impoverisca. Oggi si punta a evidenziare le beghe e le risse. Diciamo la verità, i protagonisti di alcuni reality sono figure mediocri e non certo dei ragazzi studiosi, degli operai che hanno fatto qualcosa di straordinario, delle brave persone. Sono personaggi presi nella media del pubblico meno attrezzato culturalmente, si sceglie quel campionario pensando che la maggioranza si vuole identificare in quegli “eroi” lì. Questa non è la mia televisione. Oggi fanno tutti una tv “contro”. L’imitatore fa un’imitazione contro l’imitato, per far ridere deve dire una cosa trasgressiva, quindi contro la morale.

Anche lei con le parodie ci andava pesante, però.

Ma io ho sempre fatto la televisione “per”, vendevo la mia mercanzia. Aiutavo il mio valletto muto, Andy Luotto, a decifrare il nostro Paese. E lui diceva: “Buono” o “No buono”. Poi c’erano il finto prete Frate Scasazza che era Nino Frassica, l’intellettuale rigoroso che era Riccardo Pazzaglia, una cugina loquace che era Marisa Laurito, erano tutti personaggi parodistici ma che arricchivano il pubblico, facendolo ridere. Oggi fanno anche della buona tv, per carità, ma la mia formula non ha prodotto discepoli.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 15 novembre

Il governo guarda la Rai che muore

Ha raccolto un 90 per cento di adesioni il recente sciopero lanciato in Rai anche per difendere il patrimonio di informazione della radio, già svilito a mio avviso dall’unificazione dei Gr delle tre reti. Non per una difesa corporativa quindi, bensì per il potenziamento di questo agilissimo strumento informativo giunto, su base settimanale, a 44 milioni di utenti e in Rai trattato invece come una Cenerentola. Questo benché le tre reti, esposte indifese a nuove agguerrite concorrenze, siano in calo di ascolti. Di sole idee non si vive. Ci vogliono più investimenti, in talenti e in tecnologie.

Sono mesi che il governo Renzi sta girando intorno alla Rai, lanciando e rilanciando lo slogan “Fuori i partiti” e facendo capire di ritenere alto e superato il canone, che resta immobile a 113,50 euro. L’unico atto concreto di questo governo è stato il salasso di 150 milioni quale contributo di solidarietà per il bonus di 80 euro. Palazzo Chigi ha potuto imporlo alla Rai poiché essa, dopo la legge Gasparri del maggio 2004, è di sua proprietà. Non dei partiti. Il presidente del Consiglio ha infatti il diritto di nominarne il presidente e il nono, spesso decisivo, consigliere essendo tutte le azioni (tranne uno zero virgola della Siae) in sua mano.

Matteo Renzi poteva dunque, il giorno dopo la fiducia, presentare il disegno di legge col quale istituire, alla maniera inglese (o scandinava), una Fondazione a cui trasferire tutte le azioni Rai, garantita da alcuni “governors” scelti fra persone del più alto livello e da un vertice tecnico-professionale dai medesimi prescelto. Oppure optare per il sistema di garanzia francese attraverso un Consiglio superiore dell’audiovisivo (nominato per un terzo ciascuno dai presidenti della Repubblica, del Senato e della Camera) il quale a sua volta designa la maggioranza del Cda (dove siedono anche rappresentanti dei dipendenti). O studiarsi il complesso sistema di garanzia tedesco di chiara marca federale (una delle due potenti reti, Ard, è emanazione diretta dei Laender). Ha nominato una commissione di studio di cui non si sa molto. In genere le commissioni di studio vengono create per lasciare le cose come stanno. Solo che per la Rai ciò è sempre meno possibile. Da più punti di vista. Intanto da quello dei conti. Fino al 2007, vigilia della crisi, le entrate erano per metà da canone e per l’altra metà da pubblicità. Quest’ultima è crollata di esercizio in esercizio. Nel 2012 gli introiti pubblicitari sono assommati a 830 milioni contro i 1.737 milioni da canone. Insomma, il canone è diventato vitale: se lo si riduce, la Rai affonda.

Per ignoranza gli italiani pensano del canone il peggio possibile. Secondo il Censis è la tassa più odiata, più dell’Imu, più dell’Irpef. Eppure sono meno di 114 euro l’anno a famiglia. Non importa: come minimo quell’imposta è “insulsa”, come massimo è “iniqua”. La protesta è motivata dal fatto che “la Rai è piena di pubblicità” (balla solenne) e che il canone tv c’è soltanto in Italia. Una balla gigantesca. Comunque sia, un terzo circa degli utenti italiani non la paga. Contro l’8-10 per cento delle medie europee. Benché sia il canone più basso d’Europa.

Obiezione: già ma gli altri non hanno pubblicità. Non è esatto. Certo alle due reti pubbliche tedesche, Ard e Zdf, basta un 20 per cento appena di pubblicità. La Bbc è senza pubblicità, ma un suo canale, Channel 4, è pay. Però sono appena 8 inglesi su 100 che evadono il canone, contro i 30 italiani su 100. Se in Italia la percentuale di evasione fosse quella europea, diciamo un 10 per cento, la Rai incasserebbe dal canone oltre 2,1 miliardi di euro e potrebbe quindi fare a meno di un bel po’ di spot in mezzo ai programmi.

Ora si parla – ma lo si dice da decenni – di agganciare il pagamento del canone Rai a quello dell’utenza elettrica. Ciò consentirebbe di limitare al minimo l’evasione e magari di ridurre persino il tanto odiato canone. Il quale, assieme agli organismi di garanzia (Fondazione, Consiglio superiore dell’audiovisivo, ecc.), è il più concreto difensore della autonomia delle radio-tv pubbliche. Certo, se si dà un’occhiata alla geografia di chi paga e di chi evade quei 113,5 euro, si vede che essa combacia con le aree di maggior illegalità. Regno degli evasori sono le stesse regioni dove il “nero”, il sommerso trionfano. In testa a tutti in questa scandalosa graduatoria, non per caso, i comuni del Casertano con Casal di Principe dove il 90,45 per cento non paga il canone Rai. All’opposto il regno degli utenti “fedeli” è nei comuni per niente ricchi del Ferrarese come Berra e Portomaggiore dove paga oltre il 99 per cento degli utenti. Meglio dei sudditi britannici. Ma anche lì affiorano segni di disaffezione.

Per cui sulla Rai va dato al più presto un segnale forte: via il governo da viale Mazzini, via i partiti, certo, ritorno al merito, alla professionalità, all’autoproduzione di programmi di ogni genere. Altrimenti che ci stanno a fare oltre 11mila dipendenti fissi?

Taranto chiama. Renzi risponda

Signor presidente del Consiglio, ha inaugurato il suo mandato parlando di scuola, educazione e infanzia. Ha iniziato a girare l’Italia visitando prima le scuole e poi tutto il resto. Se tutto ciò non fosse risultato troppo propagandistico ai miei occhi avrei sicuramente allargato la schiera dei suoi sostenitori. Ma è mio solito dubitare più di quanto io possa credere agli effetti speciali della politica. Così, ho continuato a osservare le sue mosse da lontano, da lì dove sono ormai radicate le mie idee politiche, nelle regioni più isolate dello scetticismo: da Taranto.

Ho aspettato che si facesse vedere da queste parti per capire le sue vere intenzioni, per darmi la possibilità di cambiare idea nei suoi confronti, ma come i suoi predecessori (lo scorso settembre) anche lei si è limitato a una fugace visita in Prefettura. Nessuna scuola ha potuto ospitarla, nessun alunno ha potuto darle il benvenuto. E pensare che avrebbe fatto un figurone a salutare la nazione dalla scuola Deledda del rione Tamburi, se solo avesse ascoltato le richieste di aiuto di un bimbo a cui è vietato giocare nei parchi, che è costretto a studiare in una scuola costruita addirittura sopra i suoi canali di scarico della grande fabbrica. Avremmo davvero potuto credere che lei fosse l’uomo giusto venuto a restituirci la dignità che ci hanno rubato. Ma non è stato così, ha persino evitato di incontrare i pediatri che le avevano chiesto udienza (e guardi che qui i casi di tumori infantili e mortalità per patologie precoci sono certificate dall’Istituto superiore della sanità).

Quanta delusione signor presidente, quanto rammarico, quanta rabbia ci fa il vostro disinteresse per la nostra salute. Io però non voglio attaccarla, voglio chiederle, anzi supplicarla, di rispondere a questa lettera che il Comitato di cui faccio orgogliosamente parte ha deciso di inviarle. La legga attentamente: è l’ennesima richiesta legittima che operai, cittadini, studenti e disoccupati, fanno alle istituzioni. Non c’è niente di straordinario, le viene richiesta solo buona volontà e trasparenza di giudizio. Non c’è nessun fine ideologico, nessuna trappola, solo un nuovo grido di aiuto. Perché siamo tremendamente ostinati a rivendicare le nostre ragioni e i nostri timori. Perché continuiamo a sentirci oppressi e sfruttati da chi partorisce idee solo ed esclusivamente in nome del profitto e dell’interesse economico. Si lasci accompagnare da noi, faccia in modo di prestarci anche solo 30 minuti del suo tempo per mostrarle quello che nessuno in Italia osa mostrare di questa ormai tristemente famosa Ilva.

Le scriviamo in merito alla visita che farà a Taranto nei prossimi giorni e che, stando alle indiscrezioni, prevederà anche una visita all’interno dello stabilimento Ilva. In questi anni il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti ha svolto un importante ruolo negli eventi nevralgici che hanno segnato la storia della città e del siderurgico che ospita. Al proprio interno raccoglie cittadini impegnati in prima linea nella lotta all’inquinamento e lavoratori da anni attivi affinché, proprio in quella fabbrica, il lavoro non fosse solo un moltiplicatore di morte (tanto nello svolgimento delle proprie mansioni quanto coi fumi e i veleni della produzione). Alcuni di loro hanno svolto un ruolo centrale e decisivo anche nell’ambito dell’inchiesta “Ambiente Svenduto” condotta dalla magistratura tarantina. Un esempio su tutti: difficilmente si sarebbe giunti alla scoperta dei fiduciari dei Riva in fabbrica, che operavano come kapò pur non avendo alcun inquadramento aziendale, senza chi vi scrive; senza il mobbing e le angherie subiti da pochi coraggiosi operai spesso osteggiati anche da Cgil, Cisl e Uil. Se oggi non esiste più un “governo ombra” nello stabilimento lo si deve alle nostre scelte. Le scriviamo, dunque, perché il giorno in cui verrà a Taranto non vorremmo contestarla, urlarle contro le colpe che pure il suo Governo ha nella vicenda Ilva. Al contrario vorremmo accompagnarla, portarla negli impianti per farle conoscere la “vera” Ilva con gli occhi di chi per anni ha denunciato nel silenzio totale di istituzioni e sindacati (fino all’arrivo dei sigilli della Magistratura). Vorremmo poter esprimere le nostre idee alternative per Taranto, il Sud e l’Italia. La nostra posizione e la nostra storia non possono in alcun modo essere rappresentati dai sindacati e siamo certi che se si limiterà ad incontrare loro non potrà avere una vera idea di cosa è Taranto e di ciò che tutt’oggi accade nell’Ilva. Camminerebbe all’interno della bolla di vetro linda e pulita che sono bravi a decorare per le grandi occasioni. Noi le offriamo la possibilità di un viaggio vero nella carne moribonda del mostro d’acciaio, ma le ricordiamo anche che le organizzazioni sindacali non sono rappresentative di tutti gli operai presenti in fabbrica, bensì solo di una minoranza. Noi le diamo l’occasione di non fare una semplice passerella, e le chiediamo in cambio solo la possibilità di esporle il nostro punto di vista, quelle verità che tanto i sindacati quanto le forze politiche (a cominciare da chi rappresenta in terra ionica il Partito Democratico, l’on.Michele Pelillo) non le racconteranno mai.

A.P.S. Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti

Costello canta Dylan. E incanta la Royal Albert Hall

Se di nome si fa Elvis Costello, a sessant’anni ci si può permettere di evitare un nuovo disco da solista. E si possono prendere i testi di un collega di alto rango come Bob Dylan per metterli in musica. Da tempo, Costello non canta più nei pub, non è più simbolo del post-punk e della new wave, ammesso che queste categorie per lui abbiano mai avuto senso.

Si è avvicinato negli anni al country ma anche alla musica classica e al jazz, tanto che nella sua carriera ha saputo dare vita a brani che fanno ballare e ad altri molto complessi. Per questo un produttore come T Bone Burnett, con altri, ha pensato a lui per ridare vita a liriche di Dylan dimenticate in un cassetto e risalenti al 1967.

20141108_Elvis_CostelloVisto che il periodo dei testi coincideva con quello dei Basement Tapes, è nata per questa incisione (Lost On The River, The New Basement Tapes etichetta Island) una sorta di The Band dove insieme a Costello ci sono Jim James dei My Morning Jacket, Marcus Mumford, Taylor Goldsmith dei Dawes e Rhiannon Giddens dai Caroline Chocolate Drops. Di fatto è Costello che conduce le danze, anche se tutti partecipano alle creazioni musicali. Gusto ed esperienza sono ben evidenti in brani come “The Delivery Man” e “Six Months in Kansas City” che indicano la via maestra.

Ma anche senza un disco solista (l’ultimo è dello scorso anno Wise Up Ghosts) un musicista come lui può andare in tour in buona parte d’Europa concludendolo nella sua Londra alla Royal Albert Hall per il BluesFest. Non sappiamo quanto il sessantesimo compleanno abbia influito sulla sua scaletta. È stato comunque evidente che Costello ha riflettuto attentamente sulla sua intera vita di compositore e interprete prima di salire sul palco.

Dapprima brani voce e pianoforte (al quale c’era il compagno di band degli Attraction, il talentuoso Steve Nive). Poi le cose sono cambiate quando Costello ha imbracciato la chitarra imboccando una strada che piano piano ha portato al Rock grazie a brani come “Shipbuilding”, “Birds Will Still Be Singing”, “All Grown Up”, “Suit Of Lights”, “I Want You” dove il pubblico ha cominciato a interagire e rispondere con quanto accadeva sul palco. Un concerto, comunque sia, eccellente.

Gli italiani sopra Berlino

Berlino è una metropoli di oltre 3,5 milioni di abitanti. Un modello dal punto di vista dell’integrazione tra culture differenti. Va da sé che definire un caso come un “modello” non significa parlare di “perfezione”.

Secondo gli ultimi dati dell’ufficio di Statistica di Berlino-Brandeburgo (2014) gli stranieri sono il 14% della popolazione complessiva, pari ad oltre 500mila unità. In un contesto così multiculturale e multietnico la capitale si presenta come una delle mete più attrattive per i giovani italiani, e non solo. La tendenza era già chiara nel 2008, quando per la prima volta dopo diverse decadi, la popolazione italiana è tornata a crescere a ritmi davvero impressionanti, passando da meno di 15mila unità nel 2007 a 19.771 alla fine del 2012. Finito il 2013, la comunità italiana a Berlino raggiunge le 22.693 unità e i segnali sono positivi anche per il 2014. Tenendo anche conto che questi dati si riferiscono alle sole registrazioni ufficiali, quelle rendicontate dal ministero degli Interni e dunque sono esclusi da queste statistiche coloro che sono sul territorio ospitati da amici o parenti e coloro che non hanno dichiarato la loro presenza.

CHI SONO GLI ITALIANI A BERLINO

Studi o analisi sulla migrazione italiana a Berlino ce ne sono davvero pochi. Un bel lavoro è stato fatto nel 2006 dal Centro studi sulle migrazione “Altreitalie”, ma poi niente. La migrazione italiana di oggi non è più quella di cinquant’anni fa. Non è la stessa perché sono cambiati sia i motivi che spingono ad emigrare sia le caratteristiche personali dei “nuovi mobili”, per usare un concetto elaborato dalla sociologa tedesca Edith Pichler. I migranti odierni sono molto diversi dai primi italiani che arrivarono in Germania e che erano chiamati Gastarbeiter ossia “lavoratori-ospiti”. Oggi esiste una folta comunità che cresce di diverse migliaia di unità all’anno ed è diventata oggetto di uno studio attento e costante. Proprio a Berlino è nato un “Osservatorio” per lo studio della comunità italiana che ha un duplice scopo: comprendere la “nuova” migrazione e progettare interventi per migliorare la condizione degli italiani a in città. Non ultimo, sollecitare la politica locale. E quella italiana.

SOGNI E SPERANZE IN VALIGIA

È già ora di partire / via che preparo una valigia di sogni / e due tre voglie dentro una sportina / oh Madonna chi l’avrebbe mai detto / vado a incontrare la vita. Così recitava una canzone di Lucio Dalla e per molti italiani la scelta di Berlino è per “incontrare la vita”. Per lo più giovani, laureati e con almeno due lingue straniere conosciute. Sono in gran parte i ragazzi della generazione Erasmus, ma anche di chi ha deciso di partire dopo la laurea, da solo. Altri sono giovani che tentano la fortuna in una capitale europea famosa per il costo della vita relativamente basso. Ormai gli italiani sono un nucleo importante di questa città. C’è il blog italiani a Berlino dove si raccontano. Aspirazioni, sogni e problemi che incontrano in questa città, nel tentativo di creare un link tra quanti già sono lì e quelli che devono arrivare.

IL PROBLEMA DELL’INTEGRAZIONE

Chi arriva a Berlino pensa di essere in Paradiso. Città multiculturale e multietnica, città d’arte, di musica e di divertimento no-stop. La capitale giovane con gli affitti a 300 euro al mese e i suoi menù a 7 euro all-inclusive. Purtroppo però l’integrazione è l’aspetto più critico per la nostra comunità: imparare il tedesco, una lingua difficile; comprendere la mentalità tedesca; abituarsi alle regole e rispettarle; trovare un lavoro e ritrovarsi a fare qualsiasi cosa pur di lavorare. E così, in molti, malgrado una laurea fanno i lavapiatti o i baby-sitter. Niente di male in questo, ma il senso è che a Berlino si diventa stranieri disposti a fare tutto, anche tutto ciò che in Italia non si era disposti a fare. Ed emergono aspetti positivi e negativi della migrazione: niente è facile e nessuno regala niente. E in molti ci provano, si impegnano con la lingua, vogliono integrarsi davvero. Quello che è chiaro è che l’Europa è molto lontana dall’esistere. Che tu sia tunisino o egiziano in Italia, italiano o spagnolo a Berlino, sei sempre un migrante e dunque un corpo estraneo. La sensazione è ancora questa: in molti non riescono ancora a dire “questa è la mia nuova casa”.

Pasolini “angelo della vendetta” nel film di Ferrara

Quando Abel Ferrara ha deciso di realizzare Pasolini non voleva fare l’ennesimo film inchiesta sulla morte del poeta avvenuta il 2 novembre 1975. Intendeva piuttosto meditare su quello che considera il suo Maestro.

Per quanto paradossale e a prima vista improponibile – la lontananza di intenti e di poetica, le diverse origini e i rispettivi mondi di appartenenza – i due autori hanno qualcosa che li accomuna. Ferrara è un “Accattone” cresciuto nel Bronx, nella post modernità apparentemente estranea al poeta di Casarsa. Tuttavia il Pasolini cinematografico predisposto dal regista incarna bene il Pasolini storico e William Defoe vi si immedesima perfettamente. Ciò è reso possibile dal fatto che Pasolini interpreta il dramma, il conflitto, come spesso è per i protagonisti dei film del cineasta americano, di colui che è parte di quella forza che desidera eternamente il bene e produce eternamente il male.

20141108_Cinema_PasoliniPer Ferrara Pasolini è un cattivo tenente, un angelo della vendetta. E’ colui che costantemente circondato dagli affetti dalla madre, i cugini, gli amici più cari, di notte sente l’impulso di immergersi nelle periferie per sporcare quel candore per poi mondarlo di nuovo con le luci dell’alba. E ancora: è il poeta maledetto scagliato contro il potere, che compiuta la sua parabola terrena trova finalmente la salvezza e il trionfo nella morte.

Per citare lo stesso Pasolini: «La morte di ciascuno riflette la propria vita». Sotto questa luce Pasolini offre in chiave moderna i segni di un martirio annunciato fin dalla tenera età con L’usignolo della Chiesa Cattolica (si legga La passione e Crocifissione oltre a rivedere il suo film più “autobiografico”, Il Vangelo secondo Matteo) e condotto attraverso una stupefacente Imitatio Christi fino in fondo, stazione dopo stazione, lungo la parabola dell’ultimo cielo, quello dell’idroscalo, il suo Golgota.

Ferrara e lo sceneggiatore Braucci concentrandosi sull’ultimo giorno di vita del poeta compongono con velature surreali il contrappunto visionario di quei fatti attingendo direttamente dal repertorio del Pasolini Ultimo Atto: Salò in cui lo sguardo dell’autore si identifica con quello del carnefice; Petrolio con la figura di Carlo Polis/Tetis che vampirizza i ragazzi e fa sesso con tutti, madre, nonna, sorella, figlia; Porno-Teo-Kolossal, sceneggiatura del film mai realizzato che si sviluppa attraverso un viaggio fantastico e allucinato, compiuto dalla coppia servo-padrone intenta a seguire una Cometa (l’Ideologia) che si dirige verso il luogo dove è nato il Messia interpretato nel film di Ferrara da Davoli e Scamarcio.

Ferrara aggiunge così un pezzo all’iconografia pasoliniana. La sua Passione, che ha il merito di non attardarsi in dietrologie e complottismi, più che la testimonianza di un apostolo sembra l’effigie di una rappresentazione medievale e paesana con tanto di diavoli e una sodoma romana in cui i gay stanno con i gay, le lesbiche con le lesbiche e una volta all’anno si accoppiano per la riproduzione. Chi dice “l’arte è morta” ha in serbo di ucciderla lui.

Gli oracoli dell’istruzione

Al tempo del bipolarismo si riconoscevano due sistemi per mettere a tacere gli insegnanti prima ancora di introdurre qualche nuova fregatura nel sistema scolastico. Quando al governo c’era il centrosinistra, a viale Trastevere andavano di moda gli outsider neoconvertiti al liberismo dominante, gli apocalittici ben integrati nei giri politici, i rivoluzionari da strapazzo disponibili alle dichiarazioni forti.

Saltato il guado tra ideologismo e pragmatismo, verso quale bersaglio avrebbero potuto sfogare più facilmente la nuova fede antistatalista? Il loro chiodo fisso era liberare la scuola dal vecchio, indipendentemente dalla funzionalità. Il nuovo andava accolto a priori, senza discriminazioni. In virtù della loro semplice incompetenza, godevano di grandissimo credito presso i ministri rapiti dalla missione di rinnovare la scuola. E buttavano giù quanto era rimasto della buona scuola del passato, sdegnando ogni contatto con la massa insegnante. Uno di questi maître à penser stigmatizzò i docenti che si permettevano di mettere bocca sulla riforma Berlinguer, chiedendo, assai infastidito, se i ferrovieri avessero mai avanzato proposte sulla riforma dei trasporti.

Se con il centrosinistra al timone trionfavano gli incompetenti, con il centrodestra la fauna degli improvvisatori si è ridotta ed è stato dato un po’ più spazio ai cultori delle discipline, ma non alle loro proposte, che si sono perse nei cassetti del ministero. Troppo buon senso, del resto, avrebbe potuto scontrarsi con il caos ereditato. Così gli esecutivi del centrodestra e poi quelli tecnici hanno proseguito sulla strada della esternalizzazione dell’esperienza scolastica, che da qualche tempo è riconosciuta esclusivamente agli economisti, veri e propri oracoli per chi sa solo tagliare le risorse.

Ora il governo prova a mettere la sordina al malcontento tra gli insegnanti, suscitato dalle proposte della cosiddetta “buona scuola”, con una consultazione sulla Rete secondo le regole opache della E-Democracy. Come potremo sapere chi si è espresso, per quante volte e, soprattutto, quali competenze abbia per formulare proposte sul sistema di istruzione? Può consolare la banale constatazione che “uno vale uno” quando secondo la Costituzione «la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione» e il Parlamento legifera?

Come ha denunciato l’avv. Corrado Mauceri, del comitato fiorentino dell’associazione “Per la Scuola della Repubblica”, il governo Renzi ha organizzato una consultazione pilotata per sostenere la cosiddetta “buona scuola”. Mauceri denuncia la violazione dell’art. 97 della Costituzione perché è venuta meno l’imparzialità dell’Amministrazione, impegnata a propagandare una proposta governativa. Al contempo si ignora il disegno di legge, già presentato alla Camera e al Senato, che, aggiornato, riprende la legge di iniziativa popolare “Per una buona scuola per la Repubblica”, che fu sottoscritta da più di 100.000 cittadini.

La macchina del Mur si è messa in moto per disinnescare la protesta degli insegnanti. E la consultazione sul web ha sostituito l’“esperto esterno” nel ruolo di piazzista.